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Saga vol. 6: Questioni di genere [Recensione]

Tra gli indubbi meriti di Saga, vi è di certo la capacità di giocare in maniera creativa coi generi. La serie di Brian K. Vaughan e Fiona Staples, giunta al sesto volume, riesce infatti nell’intento di trasportare su pagina una fertile contaminazione creativa tra entità che sono spesso percepite come separate o inconciliabili. Di riflettere, in altre parole, sulle modalità in cui classifichiamo il reale in base a dei modelli culturali più o meno codificati. E tutto questo è vero per ben due accezioni della parola ‘genere’, ossia genre (genere letterario, cinematografico etc.) e gender (identità di genere, ossia il corrispettivo culturale del ‘sesso’ biologico).

Il primo aspetto è forse quello più evidente. L’universo simbolico di riferimento è, come i più svegli avranno già capito, la fantascienza. La space opera, per essere precisi, cioè quel sottogenere della SF che trasla le armi e gli amori all’interno di un contesto più o meno futuristico e più o meno spaziale. Uno dei punti focali della space opera è la predominanza dell’aspetto analogico rispetto a quello estrapolativo. Questo significa che il focus dell’opera non è ‘immaginare’ o ‘predire’ il futuro, come facevano Jules Verne o H.G. Wells più di cento anni fa. Al contrario, ci si sofferma su un aspetto del ‘nostro’ mondo, e lo si immagina in un contesto spaziale e temporale differente.

saga 6 fumetto bao

In tal senso, Saga è un’opera esemplificativa. Pensate a quanti processi storici o dinamiche umane vengono tradotti nel colorato mondo dipinto da Staples: la guerra, le migrazioni forzate, ma anche la famiglia (tutti i tipi di), gli affetti, la sessualità. Ma anche a quanti diversi generi letterari o cinematografici. Come si vede bene in questo numero, troviamo soprattutto il fantasy – c’è la magia, quindi secondo le visioni più ortodosse non potremmo parlare di fantascienza vera e propria. E poi il romanzo d’avventura, una spruzzata di epica cavalleresca, il feuilleton ottocentesco, i fumetti di supereroi, Star Wars. Per certi versi, questo continuo riferimento a universi simbolici differenti sopperisce alla mancanza di ‘appiglio diegetico’ alla dimensione dell’autore e del lettore. La fantascienza classica partiva (quasi) sempre dalla realtà condivisa, la dimensione borghese dell’esistenza quotidiana, per sconvolgerla attraverso un viaggio (Viaggio sulla Luna, La Macchina del Tempo), o un’invasione (Frankenstein, La Guerra dei Mondi). In Saga – così come in buona parte della SF contemporanea – questo appiglio non c’è. Ed è appunto sostituito dal continuo riferimento alle formule dei generi, a quei pattern narrativi che il lettore più o meno conosce e condivide. Per certi versi, la ragnatela di riferimenti impliciti va a rimpiazzare l’esplicito citazionismo pop che è stato marca stilistica dell’autore, in opere come Y: L’ultimo uomo sulla Terra.

Rispetto a molta fantascienza d’evasione, ciò che sancisce l’originalità di Saga è la dimensione ‘privata’ delle vicende. Al centro della storia non c’è un prescelto che vuole sconfiggere l’impero galattico facendo esplodere una enorme base spaziale. Abbiamo invece due poveri cristi che scappano dalla guerra e si arrabattano per sopravvivere sullo sfondo di dinamiche storiche assai più grandi di loro.

La rappresentazione della quotidianità individuale, inoltre, si lega a doppio filo con la riflessione sul soggetto. Fin dai primi numeri, Saga ha messo al centro della scena la nozione di identità, di cui propone un’interpretazione fluida e performativa. L’aspetto più evidente è quello razziale/etnico/culturale, rappresentato dallo scontro fra “corna” e “ali”. Se la fantascienza è la letteratura del ‘nuovo’, Hazel incarna così il ‘nuovo’ del ‘nuovo’. Ovvero quella diversa visione del mondo che sconvolge le categorie di partenza, e che si riflette in un gioco di specchi nel mondo di Saga e nella realtà dell’autore-lettore. Tutta un’altra cosa rispetto a Star Wars e al suo apartheid sessuale, in cui specie diverse non possono (o non vogliono?) generare ibridi.

saga 6

L’altro aspetto, non meno importante, è quello legato all’identità di genere. Come molti prodotti del ‘nuovo’ mainstream statunitense, Saga infatti mette in scena forme di sessualità, affettività e identificazione che esulano dal modello eteronormativo, secondo cui la ‘normalità’ è un rapporto affettivo e/o sessuale fra due persone di sesso differente e opposto. Soprattutto, la serie sovverte questa presunzione con naturalezza. Solo in questo numero abbiamo, oltre alla consueta scopata tra Marko e Alana, un rapporto gay fra Upsher e Doff e, tenetevi forte, un nudo frontale di una donna trans (dico ‘donna’ perché il personaggio, Petrichor, dice esplicitamente di avere questo tipo di identificazione). Okay, i personaggi transgender non sono più tabù nel fumetto americano. Pensiamo a Effigy (Vertigo), The Wicked + The Divine (Image), o anche Batgirl di Gail Simone (DC Comics), e molti altri ancora. Ma un nudo integrale (ce ne sono stati altri nel mainstream?) è comunque significativo, per tutta una serie di motivi legati alla normalizzazione dell’alterità.

Come prevedibile, c’è chi plaude agli autori Image, e a “these creators’ willingness to embrace diversity”. E c’è chi lamenta la rappresentazione ‘sessualizzata’ del corpo di Petrichor, nonché l’interazione con la piccola Hazel, la quale si interroga sulla misteriosa protuberanza in mezzo alle gambe della donna (e ci credo, è una bambina cresciuta in un orfanotrofio-prigione!). La domanda che dobbiamo porci in questo caso non è: il corpo è oggettivato e raffigurato in maniera sexy? (la risposta è più o meno sì). Non è nemmeno: Vaughan sta mettendo tutto queste cose per far parlare della serie, o per creare lo shock-value di cui parlavamo in precedenza? (la risposta è di nuovo sì, o meglio ‘non soltanto). Il punto centrale è: il corpo di Petrichor è estetizzato e ‘sessualizzato’ come il corpo di Marko e Alana? Sì. Petrichor è un personaggio con dei difetti, e capace di commettere errori come Marko e Alana? Di nuovo sì.

Dopo un paio di brossurati un po’ sottotono, leggere Saga vol. 6 è un’esperienza rinfrescante.  La serie chiude un paio di storyline in una maniera quasi anticlimatica, evitando lo spargimento di sangue degli scorsi volumi. Il presagio di morte che aleggia tra le pagine si risolve in uno speranzoso happy ending. E funziona benissimo. Vi ricordate quando negli anni ’80 e ’90 i supereroi erano presi male e tutti volevano fare come Watchmen o TDKR, e poi è uscita roba come All-Star Superman? Ecco, quel tipo di sensazione.

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Se siete arrivati fino a qui, tenete presente che il modus operandi della coppia creativa è sempre lo stesso. Non ci troverete nulla di nuovo – semmai, qualche ambientazione un po’ poco ispirata, rispetto a quanto siamo stati abituati. Oltre alla felice risoluzione degli archi narrativi, ciò che riscatta questo volume è la maniera interessante in cui gli autori continuano ad esplorare l’aspetto vitale dello spazio ibrido. Cioè quella dimensione intermedia in cui i generi (di qualunque tipo) non esistono come entità statiche, ma diventano – insieme con l’identità – concetti fluidi e malleabili.

Saga usa la fantascienza come strumento e cornice, per allontanare e mettere in prospettiva una visione del mondo. Almeno in teoria, il processo stimola la consapevolezza che l’attuale stato delle cose – qualunque esso sia – non è una condizione immutabile. E lo fa tramite una serie di rimandi a categorie che sono in realtà del ‘nostro’ mondo: la cultura, l’identità di genere, la sessualità. Se, da una parte, un riferimento così dichiarato al quadro empirico del lettore soffoca le possibilità immaginifiche (e sticazzi), dall’altra aumenta il potenziale di rilevanza culturale.

È chiaro che come fumetto, rispetto al cinema alla televisione, Saga ha una portata limitata. Tuttavia, come espressione letteraria e artistica, produce per forza di cose una rappresentazione che non è e non può essere neutrale. Qualcuno diceva che ogni libro è politico, e io ci credo. E ogni rappresentazione, ogni racconto, è un tassello che va a comporre gli strumenti con cui interpretiamo il reale, e con cui stabiliamo il nostro metro di normalità. Quindi, far vedere una bambina cornuta e alata, o una donna fiera e trans, o Iron Man come ragazzina di colore, è un passo verso una cultura pop in cui la diversità è ‘normalizzata’. Cioè, in cui lo scarto gerarchico tra aberrazione (sia essa di natura sessuale, culturale, etnica ecc.) e norma si assottiglia. Questo non significa che sparisce la differenza, ma che non diventa più pretesto o motivo per forme di prevaricazione. D’altronde, come dice Hazel, «I know diversity is an overused word these days, but without it, what would we be?».

Saga vol. 6
di Brian K. Vaughan e Fiona Staples
Bao Publishing, 2016
144 pagine a colori, € 14,00

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