Piccola introduzione necessaria a tutti i neofiti. Silver Surfer è un alieno dallo strana tinta metallizzata che se ne va a zonzo per il cosmo su una tavola da surf senziente. Ora è libero, ma per centinaia di anni è stato servo di Galactus il Divoratore di Mondi. Il suo ruolo era piuttosto chiaro: affinché la sua terra d’origine fosse risparmiata dal genocidio globale, nuovi pianeti da estinguere dovevano essere continuamente procacciati all’enorme entità cosmica. Questo fino all’arrivo sulla Terra, dove il Nostro decise di ribellarsi al suo padrone liberandosi per sempre dal suo giogo spietato. Per un crudele scherzo del destino rimase prigioniero sul nostro pianeta per lunghi anni, mai completamente accettato dal popolo che tanto positivamente lo aveva colpito.
Se non avete mai letto una pagina di Silver Surfer, il breve riassunto delle sue origini qui sopra potrebbe sembrarvi una delle cose più bizzarre e strampalate di sempre. Si tratta chiaramente di una visione della fantascienza del tutto naïf, concepita in un epoca di fantasie sfrenate come gli anni ‘60. Nel descrivere il processo creativo che ha portato al tratteggio del personaggio lo scrittore Grant Morrison centra decisamente il punto: «Silver Surfer era il primo supereroe emo, costretto sulla Terra da una maledizione divina. Senza più poter viaggiare nello spazio siderale, vagava imbronciato per il mondo, attirando su di sé l’odio e l’ignoranza del genere umano. […] Ogni numero lo vedeva scagliarsi invano contro insormontabili ostacoli, prima di precipitare nuovamente sulla Terra, claudicante e inutile, ma giusto in tempo per l’ennesimo miserabile monologo su una vetta solitaria, lontano dai crudeli bastardi rosa. Il sospetto è che questi soliloqui potessero essere gli struggenti pigolii dell’animo tormentato di uno Stan Lee adolescente».

Mi pare chiaro che in quegli anni di straordinaria creatività nessuno sentisse minimamente il bisogno di dimostrare quanto il fumetto potesse essere un linguaggio adulto. Anzi, spesso il suo essere poco considerato permetteva il formarsi di ampie zone d’ombra dove poter sperimentare lontano da occhi indiscreti. Un po’ come succedeva nelle industrie cinematografiche più febbrili, con autori, oggi considerati imprescindibili, ben mimetizzati nelle retrovie delle produzioni a basso budget. Si preferiva stare ai margini dei grandi studi, dove l’eminenza grigia dei produttori non era nulla di cui preoccuparsi. Penso per esempio ai lavori del giapponese Seijun Suzukio o di Edgar G. Ulmer.
Rimane il fatto che a rileggerle oggi, certe storie così ingenue come quelle riconducibili a quelle decadi possono strappare un ottuso sorriso paternalistico. Ci siamo convinti di essere troppo smaliziati e consapevoli di quanto questo mondo possa essere brutto e cattivo per divertirci davvero con certa roba. Al massimo possiamo concedergli una breve e divertita parentesi nostalgica, prima di ributtarci a pesce nella narrazione, in questo caso fantascientifica, che conta davvero. Quella dei Jeff VanderMeer, del nuovo Mass Effect, di Gears of War e della nuova badassica trasposizione cinematografica di Star Trek. Roba tosta, oscura, inquietante o comunque priva di ogni forma di innocenza. Dobbiamo dimostrare di essere al passo coi tempi continuando a rifarci a uno strappo con la tradizione arrivato a metà degli anni ’80. Nessun surfista del cosmo da queste parti, non ne abbiamo assolutamente bisogno.
La domanda a questo punto è una sola: ne siamo davvero sicuri? Perché leggendo e rileggendo Alba nuova di Dan Sott e Michael Allred il mio pensiero non era esattamente quello. Anzi, l’impressione era esattamente il contrario. E si sta parlando di un volume che in copertina porta con orgoglio un gruppo di enormi coccinelle aliene intente ad avvicinarsi minacciose verso una ragazza vestita con Chuck Taylor rosse, leggings e vestitino a pois. Il nostro surfista metallizzato la porta in salvo tenendola per mano e sfuggendo tra pianeti variopinti, mentre in testata capeggia un logo che pare preso da SMiLE dei Beach Boys. Alla faccia del giocare agli adulti e del volere fare i cinici a ogni costo.
Basta poi leggere il primo capitolo – intitolato “La persona più importante dell’universo” – per capire come stiano le cose in realtà. Il pacchetto potrà essere frivolo e leggero quanto volete, ma a livello strutturale questo Silver Surfer è un Panzer tedesco sotto steroidi. Mentre noi ci stiamo a lamentare di come negli altri fumetti statunitensi non succeda nulla, Dan Slott infila in venti-pagine-venti una serie vortiginosa di eventi, razze aliene, pianeti impossibili, piani narrativi paralleli e spunti per tutti i prossimi sviluppi. Il tutto senza dimenticare dialoghi brillanti, umorismo garbato e autentico senso dell’avventura. Ci riesce sfruttando ogni forma di espediente tecnico possibile, parlando un linguaggio che appartiene solo al fumetto.
Così i raccordi tra una sezione e l’altra si dimostrano una maratona stilistica che implica ogni tipo di trick narrativo vi possa venire in mente – le soluzioni di montaggio vanno da quelle meramente grafiche a quella più concettuali, passando per una gestione dei dialoghi che ricorda l’Aaron Sorkin di Social Network – mentre l’uso sapiente di ellissi narrative mantiene il ritmo frizzante e sempre sostenuto. Nonostante una sovrabbondanza di espedienti e spunti buttati sul piatto, la scrittura di Slott è comunque votata alla sottrazione, misurando le parole con il bilancino di precisione. A questo punto entrano in ballo i coniugi Allred. Sarà per il fatto che Mike ha contribuito in maniera attiva in fase di sceneggiatura, ma sono rare le volte in cui si è vista un’adesione simile tra tavole e narrazione.
Se a prima vista le matite paiono già di per sé strepitose, coloratissime e grafiche come ci si aspetterebbe dalle premesse, analizzandole un minimo si capisce quanto lavoro ci sia stato dietro questo fumetto così leggero. Un piccolo esempio ci arriva già dalle prime pagine. Grazie a una serie di espedienti di sceneggiatura, siamo messi in posizione di capire al volo come la protagonista femminile della serie si senta prigioniera della propria vita, costretta per sua stessa volontà a condurre con il padre il bed&breakfast di famiglia. La sua camera diventa una sorta di prigione dorata, limitata tanto dalle pareti fisiche quanto dai bordi della vignetta dove viene rappresentata. Per una serie di curiosi eventi alieni, però, entrambi i confini appena citati finiranno per diventare le pareti di una vera cella, parte di un carcere cosmico costruito come una sorta di enorme pagina a fumetti. Preludio questo di uno strappo con la sua vita precedente che la costringe ad abbandonare i limiti così ben definiti della propria esistenza a favore di qualcosa molto diverso. Non a caso, da quel momento fino all’incontro con Silver Surfer, tutte le vignette assumono forme astruse o comunque ricurve e irregolari, come a far capire che da lì in avanti nulla è più lo stesso. Come se tutto fosse in trasformazione.
Se siete sopravvissuti a quella noia infinita che era Lo scultore di Scott McCloud, questa è la volta buona per riprendere fiducia nella capacità narrativa del fumetto. E, ci tengo a rimarcarlo, stando con ben due piedi piantati dentro l’evasione più pura. Quando poi Allred si trova slegato da ogni forma di sottigliezza narrativa e si investe dell’autorità di essere semplicemente spettacolare, vi troverete a sgranare gli occhi per la gioia. E per una volta non occorrerà cercare di capire se si tratta di vera bellezza o meno, andando – vedi tutte le ultime opere di Frank Miller – a interpretare in chissà che modo scelte più o meno discutibili. Fregandosene di tendenze e mode iper-realiste, Allred mette in piedi un circo di buffi alieni dalle fattezze improbabili, pianeti allucinati ed astratte entità cosmiche. Il tutto sfruttando solo il suo tratto – sospeso tra cartoon d’altri tempi, underground anni ’90 e ossequiosi rimandi kirbyani – e i formidabili colori della moglie.
Davvero, quando pensi ai penosi risultati di tanti creature-designer dell’industria dell’intrattenimento moderna e vedi cosa sono in grado di tirare fuori dal cilindro questi due, semplicemente giocando tra l’infantile e gusto iper-pop, si rischia di essere presi dallo sconforto. Oltretutto sbagliando. In realtà Silver Surfer è l’ennesima dimostrazione di come certe scelte possano essere perseguite solo nel fumetto. Pensiamo a Batman. Dopo i primi tentativi cinematografici di Burton, nessuno ha saputo restituire l’estetica da incubo camp che ne ha consacrato le più grandi run. L’atmosfera ridicola e al contempo minacciosa voluta da Grant Morrison durante la sua gestione rimarrà per sempre confinata nelle pagine dei volumi nelle nostre librerie, proprio come i colori sgargianti dell’universo del surfista di casa Marvel. Mettiamoci il cuore in pace e rinunciamo all’idea di vederli al cinema, soffocati dai soliti filtri desaturati o da regie al limite del televisivo.
Ma quindi questo Silver Surfer è davvero il capolavoro inarrivabile, seppur di fattura industriale, che sembrerebbe? La risposta è no, perché i punti deboli esistono anche in questi lidi. Se i numeri completamente stand-alone risultano infatti gemme quasi perfette – vedi il delizioso “Imperfezioni” – quando il resto dell’universo Marvel cerca di farsi vedere sgomitando per entrare nell’inquadratura cominciano i guai. La serie perde quell’allure di sospensione temporale che ne decreta la sua capacità di invecchiare in maniera egregia.
Per la gran parte delle sue pagine la gestione Slott-Allred riesce a mantenere un equilibrio tra la grandeur cosmica degli anni ’70, la brillantezza di dialogo tipica di certe commedie di genere anni ’60, un retrogusto indie all’acqua di rose tipico del decennio del grunge e la consapevolezza degli anni ‘10. Il tutto al netto di ogni riferimento pop troppo circoscritto alle ultime stagioni. Il risultato è qualcosa di cui non si riesce a circoscrivere la data di nascita, privandolo così del problema del tempo che passa. In quest’ottica ogni intrusione forzata della saga di Secret Wars o dei Guardiani della Galassia risulta devastante, trasformandola da luminosa supernova fluttuante in maniera del tutto autonoma nelle vite di noi lettori a parte di un universo più esteso. Con cui magari non vorremmo avere nulla a che fare. Mi immagino tra dieci anni il lettore della ristampa cercare di capire perché Destino abbia ricostruito l’universo a suo piacimento, cercando le risposte all’interno di queste pagine altrimenti così quadrate e autosufficienti. E stiamo parlando di qualcosa che va a influire su tutta la terza parte di questo ciclo narrativo di quindici numeri, non di un riempitivo buttato lì tanto per vendere due copie in più nei mesi in cui non si parlava altro se non del nuovo megaevento Marvel.
L’ingordigia dei dirigenti e la loro insopportabile tendenza a rendere ogni stagione editoriale una sorta di grosso pastone dove ogni ingrediente pregiato rischia di rimanere soffocato dal resto della sbobba rimane il problema maggiore di scrittori e disegnatori spesso in stato di grazia. Dell’incredibile numero undici di questa serie ne abbiamo già parlato a sufficienza, ma spesso pare che quella storia sia una metafora della vita all’interno dei colossi dell’intrattenimento. Personaggi e autori dotati di un potenziale infinito costretti in un loop senza fine di brusche chiusure e continui rilanci. «Noi saremo liberi!», urla il nostro eroe una volta riuscito a rompere quel maledetto meccanismo. Quanto sarebbe bello crederci.
Silver Surfer – Alba nuova
di Dan Slott e Michael Allred
Panini Comics, 2016
336 pagine, € 28