Ogni settimana su Sunday Page un autore ci spiega una tavola a cui è particolarmente legato o che lo ha colpito per motivi tecnici, artistici o emotivi. Le coversazioni possono divagare nelle acque aperte del fumetto, ma parte tutto dalla stessa domanda: «Se ora ti chiedessi di indicare una pagina che ami di un fumetto, quale sceglieresti e perché?».
Si parte con uno dei nomi più importanti del fumetto italiano, Manuele Fior, autore di Cinquemila chilometri al secondo, L’intervista, Le variazioni d’Orsay e illustratore a tutto campo (The New Yorker, Le Monde, Vanity Fair, La Repubblica).

Ho letto questa pagina per la prima volta nelle edizioni Star Comics, le storie degli X-Men erano in appendice al quindicinale dell’Uomo Ragno. È il mio periodo preferito dei mutanti, quello scritto da Claremont, con Byrne alle matite e Austin alle chine. In realtà anche quello successivo di Paul Smith lo trovo bellissimo, ma la saga di Proteus o quella della Fenice Nera sono quelle che mi hanno più segnato.
Ecco, dopo Paul Smith è arrivato John Romita Jr, che è un po’ il mio beniamino d’infanzia. Ai fan dell’epoca piacque poco, a te piaceva?
Se mi ricordo bene è il periodo in cui Tempesta si veste da punk, anche Rogue è molto ben caratterizzata. Che dire, quegli X-Men insieme al Daredevil scritto da Ann Nocenti sono secondo me le prove più riuscite di Romita JR, segnano la definitiva emancipazione del padre. Il suo tratto si fa unico e molto riconoscibile, con quel tratteggio orizzontale che tutti gli inchiostratori rispettano, preferendolo alla campitura a pennello. Uno su tutti Al Williamson. C’è anche una maniera molto personale di tagliare i volti, gli sguardi affilati torneranno più tardi in Silvestri, che penso che l’abbia apprezzato molto. Com’è consueto in quell’ambiente, la scoperta si fa presto idiosincrasia e tutte queste belle trovate grafiche verranno riproposte nei suoi lavori seguenti in maniera più piatta e stanca, fino al segno di Kick-Ass, che è già la maniera di se stesso.
Sento che potremmo dirottare la conversazione solo su quest’argomento, per cui torno a bomba per chiederti: come mai proprio questa pagina?
Ci sono queste due vignette in alto, in cui Ororo e Kitty si guardano con gli occhi sgranati, mi colpirono da subito. Kitty è eccitatissima e curiosa, Ororo ricorda l’entusiasmo adolescenziale in lei ormai scomparso: ti potrà sembrare ridicolo ma all’epoca lo consideravo come un bellissimo momento di introspezione psicologica in un fumetto di supereroi.
Il personaggio di Kitty è molto riuscito, negli episodi a seguire svilupperà tutte le sue potenzialità di ragazzina-eroe per caso, insofferente, volubile e leggera come il suo potere mutante, che le permette di passare attraverso alle cose. Penso che nella mia Dora [personaggio de L’intervista Ndr] ci siano diverse tracce di quelle letture (più di venticinque anni fa).
Kitty Pryde è stata tanti personaggi diversi, però mi sembra che la sua incarnazione migliore sia stata questa. Whedon guardava a Claremont, Byrne e Smith quando scriveva Astonishing X-Men. Secondo te cosa la rendeva/rende un bel personaggio?
Penso che molto sia dovuto alla semplice identificazione col lettore, quando leggi quei fumetti hai più o meno la sua età, vai a scuola, litighi coi genitori, e speri sempre che dietro un violento mal di testa (io ne avevo molti all’epoca) si nasconda la capacità di attraversare il solaio e cascare nel soggiorno. Attorno a lei c’è una cappa rassicurante di “normalità” che rende le sue avventure più coinvolgenti. Penso che sia un leitmotiv molto anni Ottanta, modellato sull’estetica spielberghiana del familiare/rassicurante che si affaccia al soprannaturale. Pensa solo a un film come Poltergeist, anche lì ci sono tanti attraversamenti di muri e televisori, per una famiglia americana ordinaria. La scena in cui una delegazione di X-Men in borghese fa visita ai genitori di Kitty per parlare in privato del suo futuro, è allo stesso tempo banale come un ricevimento dai professori ed eccitante, perché si sa che quella normalità è destinata a durare poco e a portare Kitty chissà dove.
È un numero bomba perché ci debuttano, oltre a Kitty, tanti personaggi di spicco, tra cui (la memorabile) Emma Frost, che è un po’ il suo opposto sotto certi aspetti. Hai seguito gli X-Men con continuità anche dopo?
Li ho letti fino all’uscita della nuova testata X-Men, quella con Jim Lee alle matite e di nuovo Claremont alle storie. Lee però aveva già cominciato a stufarmi, preferisco uno più spigoloso come Mark Silvestri. In ogni caso sì, è un super numero, c’è il riassestamento del gruppo, tutta la parabola della morte di Fenice la trovo ben fatta, considerando i limiti stretti in cui potevano muoversi gli autori. È anche il miglior John Byrne di sempre, con i suoi stilemi che non sono ancora diventati ossessivi e gli permettono di sperimentare, specialmente sulle architetture e le atmosfere. Mi ricordo che aveva una cura particolare sui vestiti, il completo da texano di Wolverine, i pantaloni a zampa di Kitty e un cardigan addosso a Lorna che per me rappresentava il modello di disegno realistico. La collaborazione con Terry Austin è ormai rodata, le chine hanno un’eleganza che trovo ancora oggi rara. Emma Frost era una figa pazzesca.