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Una metafora illegittima

BANDE A PART(E) [capitolo 2]
Da Hara-Kiri alle Graphic Novel – storie di fumetti e rivoluzioni marginali

Dove si scopre perché, anche se probabilmente Michel Foucault non leggeva fumetti, è fondamentale che il lettore di fumetti legga Foucault.

adele tardi

Quello che ogni luogo è

Quel bastardo nazista di Heidegger (condivido con Luciano Parinetto la convinzione che sia necessario buttarlo nella spazzatura) sosteneva che le delimitazioni non sono cose su cui altre cose si arrestano, quanto piuttosto cose in cui altre cose iniziano la loro esistenza. Di primo acchito questa assurdità può pure sembrare qualcosa di sensato. C’è chi, tipo i seguaci di quasi tutte le religioni monoteistiche, su concetti come questo ci arzigogolano la loro pervasiva morale. Se invece che alla morale però pensiamo alle mappe, beh!, potremmo dire: come la morale, una mappa è una griglia perfettamente delimitata e generalizzata, una delimitazione simbolica dello spazio grazie alla quale posso affermare (come faccio con la morale per il mio comportarmi) il mio movimento.

Martin Heidegger ritratto da David Levine
Martin Heidegger ritratto da David Levine

Vero forse per chi viveva nel Medioevo, quando lo spazio non era considerato che un insieme gerarchizzato di luoghi. Ma non oggi. Non dopo che Galileo (assolutamente da leggersi sull’argomento Foucault, altro che Heidegger, che lo spiega tanto bene) ha rivoluzionato la nostra percezione dello spazio spiegandoci che non c’è gerarchia alcuna e che, anzi, ogni luogo è uno spazio infinito.

La bellezza del fumetto

Che la Parigi in cui si muove Adele Blanc-Sec, nel ciclo dei primi quattro episodi, sia in fondo una metafora (illegittima) della Francia intera, non c’è bisogno che stia qui a spiegarlo. Per averne la riprova basta tuttavia collegare i luoghi topografici più estremi, e funzionali al racconto, in cui è ambientata questa “storiona” d’appendice (tutti luoghi simbolo: Jardin des Plantes, Place Denfert, Champ de Mars, Place Charles-de-Gaulle, Parc Monceau e – il più simbolico di tutti – il Cimetière du Père-Lachaise) e si otterrà un esagono, irregolare, ma un esagono; con al centro quasi perfetto il Pont Neuf.

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Adesso ti chiedo venia, mio paziente lettore, se tiro in ballo ancora Foucault, ma purtroppo devo.
In un libro bellissimo e indispensabile, Les mots et les choses, del 1966 (l’edizione italiana è di Rizzoli, che lo ristampa ininterrottamente dal 1967) Foucault introduce, tirando in ballo Borges, il concetto di eterotopia. Con queste parole:

Le utopie consolano; se infatti non hanno luogo reale si schiudono tuttavia in uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili anche se il loro accesso è chimerico. Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i luoghi comuni, perché devastano anzi tempo la «sintassi» e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma quella meno manifesta che fa «tenere insieme» … le parole e le cose. È per questo che le utopie consentono le favole e i discorsi: si collocano nel rettifilo del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula; le eterotopie (come quelle che troviamo tanto frequentemente in Borges) inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse, contestano, fin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica, dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi.

Farah Atassi, Space for Objects, 2013
Farah Atassi, Space for Objects, 2013

Poi, l’anno dopo – in quella bellissima conferenza che è “Des Espaces Autres” (la si può leggere in italiano nel volume Spazi altri pubblicato da Mimesis, oppure nell’Archivio Foucault di Feltrinelli del 1998 con il titolo, appunto, di Eterotopie) aggiusta la definizione di questo concetto. Gli spazi eterotopici sarebbero, a differenza delle utopie, luoghi effettivi, ma pure dei controluoghi. Quasi delle utopie effettivamente realizzate, nelle quali i luoghi reali (in particolare la loro interpretazione culturale) vengono rappresentati, contestati, sovvertiti.

È quello che fa Tardi quando, come dicevo, apre il primo episodio di Adèle Blanc-Sec: sovverte il Museo di storia naturale, il tempio della razionalità darwiniana, trasformandolo nella culla di una delle saghe più assurde e sconclusionate (apparentemente, occhio!) della storia del fumetto, dove tutto smentisce tutto. Dove gli pterodattili volano, le mummie ballano e gli uomini combattono guerre assurde. Una cosa che avrebbe fatto spanciare Foucault – se solo gli fossero interessati i fumetti –  quanto lo faceva ridere Borges (ce lo racconta lui nell’introduzione a Le Parole e le Cose).

tardi

La saga di Adèle Blanc-Sec è, come la Parigi dei situazionisti (Tardi non avrà potuto prescindere, ritengo, dalla psicogeografia) – soprattutto il secondo ciclo (gli episodi dal quinto all’ottavo, poiché il nono diventerà un’altra cosa ancora) quello in cui il vero protagonista è Brindavoine e il suo debordiano girovagare di bistrot in bistrot – una splendida eterotopia, i cui luoghi si trovano al di fuori di ogni luogo, pur potendo essere effettivamente localizzabili. E realizzabili.

È il fumetto, bellezza. Anzi. È la bellezza del fumetto.

Passi indietro e derive

La Parigi di Adele Blanc-Sec è la rappresentazione urbana più vicina alla realtà cittadina in cui si muove la nostra storia. Ma c’è un problema. Il primo episodio di Adele Blanc-Sec esce direttamente in volume per i tipi di Casterman nel 1976. Già ben avanti nella linea temporale di questa storia. È necessario qualche passo indietro.

adele blanc-sec

Nell’estate del 1953 per far fronte alla guerra d’Indocina il governo francese vara delle misure finanziarie molto dure, che colpiscono in particolare i lavoratori pubblici. Blocco dei salari, allungamento dell’età pensionabile e licenziamenti indiscriminati. Il 4 agosto i due principali sindacati nazionali (la CGT e il CFR) più il sindacato autonomo dei lavoratori postali indicono lo sciopero generale. Durerà quasi un mese, fino al 25 agosto quando il Ministro dei Lavori Pubblici e i sindacati trovano un’accettabile compromesso. Vi aderirono 4 milioni di lavoratori; una partecipazione senza precedenti. I lavoratori dei trasporti pubblici partecipano in massa.

La Francia è paralizzata e in particolare è paralizzata Parigi, perché se per garantire i minimi trasporti nazionali il ministro dell’interno Lèon Martinard-Deplat mobilita l’esercito, all’interno del territorio urbano parigino il caos è totale. Per le vie e le strade della capitale muoversi diventa quasi un’avventura. Nascono particolari e spontanee strategie collettive di organizzazione (in fondo Parigi è il luogo che ha dato origine allo spontaneismo della Comune) degli spostamenti. Chi ha l’automobile la mette al servizio di chi non la possiede; non si rifiuta mai un passaggio a chi fa l’autostop.

In questa situazione Guy Debord, con il piccolo gruppo di amici che lo ha seguito nell’Internazionale Lettrista dopo la rottura con Isidore Isou, organizza una specie di gioco. Di solito sono in quattro o cinque, lui, la sua compagna d’allora Eliane Papai, Jean-Michel Mension (che poi sposerà Eliane quando lei pianterà Debord, ma questi sono pettegolezzi), Gilles Ivain e Linda Fried. Comprano una bottiglia di vino e se la passano, bevendo a collo, mentre cercano un passaggio. Quando finisce il vino perché nessuno li ha tirati su, si ricomincia con un’altra bottiglia. Una volta che qualcuno li tira su si fanno portare da una qualche parte qualsiasi e da lì ricominciano il gioco, finché non sono talmente ubriachi da non riuscire più nemmeno a stare in piedi. Cercano di fare in modo che il gioco finisca sempre alla Gare de Lyon dove i quattro si divertono a fare innervosire i pendolari e i viaggiatori che aspettano i treni sostenendo con slogan gridati gli scioperanti. Spesso finisce in rissa.

guy debord

Questo gioco, che Debord chiama Deriva, non era fine a se stesso. Era il modo sperimentale con cui lentamente, osservando l’alternarsi dei processi casuali e di quelli prevedibili nelle strade cittadine, sviluppava, partendo dalla metagrafia influenzale (a suo dire inventata da Isadore Isou) una sua propria teoria psicogeografica.

“Nella deriva, scriverà infatti, il caso gioca un ruolo tanto più importante quanto più l’osservazione psicogeografica è ancora incerta. Ma l’azione del caso è naturalmente conservatrice e tende, all’interno di un nuovo quadro, a ricondurre tutto all’alternanza di un numero limitato di varianti, ed all’abitudine. Poiché il progresso non è mai altro che la rottura di uno dei campi in cui si esercita il caso, con la creazione di condizioni nuove e più favorevoli ai nostri progetti, possiamo dire che se gli imprevisti della deriva sono fondamentalmente diversi da quelli della passeggiata, tuttavia le prime attrazioni psicogeografiche scoperte rischiano di fissare il soggetto, o il gruppo alla deriva attorno a nuovi assi abituali cui tutto li riconduce costantemente”.

Uno studio psicologico (ma straniato, per questo l’ebbrezza dell’alcool) dell’ambiente urbano che ponga come suo scopo principale la decostruzione dei significati degli spazi urbani dati dal processo storico capitalistico di accumulazione del senso.

debord
Da “Mémoires”, di Asger Jorn in collaborazione con Guy Debord, 1959

// Prosegue fra due settimane con il Capitolo 3: Vita di Gilles.

Leggi gli altri capitoli di Bande à parte. Da Hara-Kiri alle Graphic Novel – storie di fumetti e rivoluzioni marginali.

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