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FocusInterviste8 domande agli autori de “La Rabbia”

8 domande agli autori de “La Rabbia”

Nel 1969 esce un film suddiviso in 5 episodi intitolato Amore e rabbia. Gli autori sono Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Jean-Luc Godard e Carlo Lizzani. Da un punto di vista stilistico, ogni capitolo è radicalmente diverso dall’altro. Ciò che accomuna gli autori è una certa sensibilità politica nata dal rivolgimento culturale che in quei mesi agita i figli della borghesia europea.

A vederlo oggi, non regge molto. Le idee appaiono un po’ invecchiate, lo stile a tratti forzato. Eppure, come molte opere cinematografiche di questo tipo realizzate in quell’epoca, la sua influenza ha attraversato i decenni. Non credo che gli autori de La rabbia, volume di 300 pagine edito da Einaudi suddiviso in otto storie a fumetti, abbiano pensato a quel film. A dir la verità, Amore e rabbia non c’entra nulla con questa raccolta di disegni e parole firmata da otto tra i migliori autori di fumetti italiani indipendenti di oggi, tutti nati tra 1978 e il 1992. La loro (la nostra, mi ci metto dentro) generazione è molto lontana da quel tipo di visioni. Nessuna ingenua illusione di “cambiare il mondo”, nessuna utopia politica collettivista.

Di amore, oggi, ne vediamo poco nelle nostre città. È rimasta la rabbia. E anche quel tipo di cinema è finito. Per fortuna abbiamo il fumetto. Si riparte da qui. Si riparte da esperienze come il festival internazionale Crack!, che ha contribuito a far nascere la new wave del fumetto autoprodotto. Si riparte dal tentativo di dire qualcosa di nuovo, di utilizzare la rabbia per non farsi sconfiggere, di andare oltre le facili dicotomie e iniziare a guardarsi allo specchio con uno sguardo sincero. E chissà cosa diranno di noi, tra 50 anni.

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LA RABBIA einaudi zerocalcare

La rabbia è edito da Einaudi ma è una produzione Fortepressa. Come nasce la collaborazione tra la stamperia pirata del Forteprenestino e la più blasonata casa editrice italiana?

Valerio Bindi: L’idea di questo mix de La rabbia è di Luca Raffaelli che, consultato dall’Editore per un libro a fumetti dirompente, ha proposto di coinvolgerci. Poi la collaborazione è stata apertissima: ci è stata riconosciuta totale libertà in tutte le scelte. Che significa possibilità di scegliere gli autori, le storie, la grafica e anche la licenza in Creative Commons, una forma di copyleft, che per noi era il fatto più importante. Da quando abbiamo cominciato nel 2005, tutti i nostri libri sono stati rilasciati con questo tipo di licenze che permettono di aprire e chiudere settori di uso della proprietà intellettuale. Si va dalle forme più estreme che permettono usi commerciali e no e remix, fino a quelle più chiuse che somigliano sostanzialmente alle discipline del copyright. Nel nostro caso la licenza scelta è tra le più aperte, consentendo la rielaborazione, pur escludendo ogni fine commerciale. I Wu Ming, che appartengono alla nostra stessa storia culturale, hanno intrapreso la via con i loro libri che vanno in questa stessa direzione ed escono con la stessa costola gialla.

Poi certo è molto curiosa questa cooperazione, ma non così sorprendente: gli autori che hanno attraversato partecipato fondato e vissuto nel nostro festival, Crack! al Forteprenestino, sono diventati riferimento per l’editoria a fumetti in questo paese. La cosa più interessante e nuova per noi è stata proprio quella di ragionare nei termini di un libro a fumetti in una prestigiosa collana di narrativa scritta. Un’idea di narrazione per immagini che pone questo libro in mezzo ad altri modi di raccontare, mettendo sullo stesso piano diversi linguaggi di scrittura.

Della rabbia giovanile della seconda metà del ‘900, di quella lunga sommossa culturale e sociale, è rimasta in vita – oggi – una sola eredità artistica: non il cinema, non la letteratura, ma il fumetto. Da cosa deriva la forza della pagina disegnata?

Luca Raffaelli: Dall’immediatezza. Già dal primo sguardo sulla prima pagina di un fumetto si capisce cosa sia. Come guardare una persona negli occhi. Perché un autore attraverso il fumetto (quello libero da esigenze editoriali, quindi autoprodotto) può raccontarsi com’è veramente, tirare fuori tutto se stesso, in un dialogo personalissimo e immediato con il lettore. Un dialogo talmente personale che, pur facendo parte di uno stesso gruppo, gli autori della Rabbia si mostrano completamente differenti tra di loro, per atmosfere, stili e mondi. Ma tutti si fanno guardare negli occhi.

Bambi Kramer, nella tua introduzione, accenni alla “sindrome da schiacciamento” (o “sindrome di Bywaters”) come incapacità di reagire a una situazione di oppressione, incapacità di trasformare la rabbia in azione. Una condizione contemporanea tipicamente generazionale. Quali sono le cause di questa paralisi?

Bambi Kramer: Il parallelo con la sindrome di schiacciamento è punto delicato del mio lavoro che ci tengo molto a chiarire.

Il nucleo di questa condizione è l’arresto forzato di un corpo naturalmente in movimento: le macerie di una torre che crolla e ti schiaccia al suolo mentre cammini per la strada. La gamba rimane bloccata sotto una trave, e mano mano che passa il tempo i tessuti muoiono, producendo tossine. Quando verranno a sollevare quella trave dicendoti che sei libero di andare, quelle tossine entreranno in circolo: non sei paralizzato, ma se ti muovi, muori.

Io non vedo una generazione paralitica e incapace, ma una rabbia che c’era e che c’è. Vedo un’azione che c’è stata ed è stata schiacciata e la forma che questo schiacciamento ha preso è, questa sì, tipicamente generazionale.  Ma questa rabbia stiamo cercando di trasformarla in azione, ancora e ancora. Anche con questo libro.

bambi kramer intervista rabbia einaudi
Bambi Kramer

Il personaggio principale della storia di Vincenzo Filosa e Giusy Noce, assomiglia, in qualche modo, al lettore chiamato in causa da La rabbia: entrambi si trovano al centro di una rete di storie, entrambi hanno la possibilità di trasformare queste storie, raccontarle, mescolarne le parti. Il lettore può farlo grazie alla licenza ‘Creative Commons’, ma vorrei che mi raccontaste di più di questo particolare personaggio: chi è, cosa cerca?

Vincenzo Filosa e Giusy Noce: Ci piace pensare che lo scontro violento di individualità lontanissime messo in scena da questo titolo possa dar vita a un nuovo universo di idee da esplorare, scomporre e ricostruire in un processo di condivisione libera e senza fine.  L’idea di rabbia “condivisa” è stata sempre alla base della nostra storia. Abbiamo da subito deciso di utilizzare un protagonista fantasma, un recipiente in cui le storie di disagio che popolano il racconto convergono per poi rifluire nel corso nero della Storia dell’intero genere umano. Il nostro “uomo” è invisibile, ma è anche lo  specchio che permette al lettore di vivere le vicende dei personaggi comprimari, analizzarle, scomporle e magari ricostruirle in totale libertà.

Non ci interessava raccontare una sola storia e non volevamo un protagonista, ci siamo posti l’obbiettivo di stimolare suggestioni, di generare empatia, creare confusione e parlare anche di quell’ordine angosciante che ci perseguita in cui tutto si ripete tragicamente. La possibilità di coadiuvare nella realizzazione di infinite storie, infinite immagini, reti di persone e correnti artistiche è la cosa che ci ha portato fino a qui, è ciò che rappresenta per noi fare un libro in CC in un mondo in cui la proprietà intellettuale è solo proprietà.

“Siamo nati viziati dagli anni Ottanta, – scrive Ivan Hurricane nell’introdurre la sua storia –  e ci ritroviamo a essere un peso per la società negli anni duemilaedieci, proprio nel momento in cui potremmo dimostrare qualcosa”. Siamo una generazione che è stata educata ad attendere qualcosa che non arriverà mai?

Hurricane: La sensazione che avverto è quella di una generazione schiacciata tra un passato ingombrante, e ancora molto influente, e un futuro lontano su cui per forza le istituzioni dovranno investire per non estinguersi.

Noi stiamo nel mezzo. E se ci ragioni sopra da cinico e freddo figlio di puttana, come fanno le banche ad esempio, capisci che forse non c’è davvero alcun interesse concreto ad aiutare questa generazione intermedia. Solo piccole consolazioni: come quando ti dicono “le faremo sapere” a un colloquio, e poi passi i giorni successivi a controllare l’email ogni minuto, manco fosse la risposta sul Senso della Vita! Queste dinamiche non ti faranno mai emergere, ma neanche affogare… perché se affoghi la trappola diventa evidente a tutti. Ti tengono nel mezzo, appunto, in attesa.

Ma forse anche noi siamo responsabili di questo ingranaggio. Quando ad esempio accettiamo uno stage non pagato o un contratto con clausole demenziali, quando diventiamo competitivi e spietati con il prossimo. Se ci fosse una specie di sindacato dei precari, una “Anonima Mammoni Sottopagati Sgarruppati” , con una coscienza di classe unitaria, forse le cose cambierebbero. Un sindacato o un gruppo rivoluzionario… ma non so, io non sono tanto buono nella guerriglia, son pure miope. Tu come te la cavi come palo?

In “Almeno un’ora in più”, la società industriale assume l’aspetto di una spirale distruttiva senza fine, nella quale cadiamo tutti, senza via di fuga. Più che rabbia, sembra che l’unica forma di autodifesa possa essere l’autoesclusione dal groviglio nel quale siamo calati. Dove vedete – se la vedete – qualche speranza di salvezza? 

Annalisa Trapani: La speranza di salvezza è nel fumetto in sé, nella possibilità che leggendolo qualcuno si riconosca e non si senta più solo. Non credo che l’autoesclusione sia un fattore negativo, se coinvolge più persone può essere motivo di aggregazione, produrre un’alternativa. Esiste già chi dice no, chi produce e consuma seguendo logiche di condivisione e maggior rispetto per l’ambiente. Di sicuro bisogna saltare fuori dal groviglio per creare qualcos’altro – che a sua volta poi nel tempo può aggrovigliarsi. Noi abbiamo espresso una rabbia monolitica, iperbole che mette di fronte all’inevitabile e invita ad uscirne, mostrando una crudeltà quotidiana verso se stessi. L’abbiamo messa nero su bianco, cristallizzata e resa un sentire comune da cui si può partire per costruire una salvezza.

Laura Nomisake: Ho un pezzo di carta affianco al letto con scritto “tu non lo vuoi un lieto fine?” Boh, voglio potermelo chiedere! La speranza è poter scegliere tra autoesclusione, autoproduzione o un altro escamotage per non inviluppati nel sistema madre. Domani se non piove andiamo al mare che è una bella giornata! Ecco per la salvezza vieni a vedere qui, questo liquido irrequieto, chiacchiere oltre le nuvole, sei salito su quello scoglio? Tu lo vuoi un lieto fine?

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Annalisa Trapani e Laura Nomisake

“Non reagite. Agite.” L’imperativo di Alberta Ernesta, che “ha suggerito all’autore la storia”, va letto come una resa totale, pura accettazione zen, o come un invito a volare alti, al di sopra delle offese del mondo, per colpire con ancora più forza? E poi, Ratigher, chi è Alberta Ernesta?

Ratigher: Alberta Ernesta esiste per togliermi di mezzo, ciò che lei dice non è detto sia quello che io direi. È una tremenda salita subito all’inizio della corsa, poi dopo, forse, ci sarà un tortuoso e avvincente percorso in discesa, ma avevo bisogno di opprimente zavorra iniziale. Alberta Ernesta parla chiaro ma non si capisce cosa intenda. Viene dal mondo dove i concetti non hanno ancora un corrispettivo in parole, e dove le ragazze hanno delle gambe da sballo. “Non reagite. Agite” io l’ho inteso con gli strumenti che ho ora a disposizione come un’esortazione a cambiare il Piano: reagire ci mette nella posizione di agire come minimo per secondi, e ci consegna immediatamente il ruolo di coloro che reagiscono, mentre le parole di Alberta Ernesta esortano all’invenzione di nuove strategie, così nuove da godere dell’anonimato e dell’incapacità di essere codificate. Google trova tutto ciò che ha un nome, Amazon vende tutto ciò che possiamo fotografare, allora forse dovremmo chiamare una cosa “elefante” e rappresentarla con l’immagine di un “fuoco d’artificio” mentre ci riferiamo ad un “cesto di melograni”. Insomma, roba che con i fumetti ci va a nozze.

Tendiamo a definire la rabbia come perdita di equilibrio, mentre dovremmo imparare a concepirla come un elemento necessario per mantenere l’equilibrio in questo mondo squilibrato. Non so se con la tua storia, Sonno, volevi dire proprio questo, ma è quello che ho pensato io leggendole. Che ne pensi?

Sonno: In realtà l’intenzione era proprio questa, ed è buffo perché mi sarebbe piaciuto dire una frase del genere anche alle presentazioni che ci sono state, quando poi ho farfugliato solo un “è stato difficile, proprio tanto difficile eh”. Che poi indubbiamente lo è stato, ma trasmettere anche il senso di quello che ho fatto oltre al disagio non sarebbe male, ed effettivamente è quello che mi stai aiutando a fare con la tua domanda.

Quindi sì, la rabbia è un elemento fondamentale che, nel bene o nel male, ci permette di stare in un equilibrio. Poi nel lavoro che ho fatto mi sono chiesta anche quanta importanza abbia questo equilibrio e in generale, ora come ora, se ci stia più “fottendo” che altro. E qua mi sono spoilerata da sola ma non fa niente, perché sono riuscita a ficcare talmente tanta roba in una quarantina di pagine che forse alla fine dei conti lo spoiler aiuta a capire il senso di tutto il discorso.

intervista rabbia einaudi ratigher
Ratigher

“Mi stai dicendo che piuttosto che in una tragedia di Sofocle siamo in un film dei Vanzina?”, chiede uno dei personaggi di “Oggetti smarriti”, di Tso e Primosig. In effetti, la nostra generazione sembra incapace di prendere davvero sul serio quello che le accade. L’ironia, il sarcasmo erano una volta considerate valori. Oggi dovremmo imparare a farne a meno?

Tso e Primosig: Nell’ironia si dice una cosa per intendere il contrario quindi piú che un valore é un meccanismo che una volta si basava su dei valori consolidati che venivano in qualche modo ribaltati o provocatoriamente non presi sul serio. Ora che la fondatezza dei valori é sempre meno delineata é chiaro che l’ironia diventa un terreno sempre piú scivoloso. A livello sociale dovrebbe cominciare ad essere chiaro che l’ironia che si contrappone ad una società austera come quelle del passato anche prossimo é una cosa diversa da un ironia che naviga in un mondo che evita costantemente di prendersi sul serio e dove regna l’intrattenimento o l’infotainment. Non credo che per questo si debba rinunciare del tutto ad essa, soprattutto se l’alternativa é il politically correct di stile americano.

Poi la comicità nella vita come negli oggetti culturali é un elemento fondamentale che conosce mille altri risvolti oltre a quello dell’ironia. Nel caso del nostro fumetto ci trovavamo nel paradosso di credere che ci fosse qualcosa di rilevante in alcuni fatti che ci riguardano e volevamo raccontare, ma allo stesso tempo ci rendevamo conto di essere calati in un contesto per l’appunto ironico, dove la banalità viene esaltata e l’autonarrarsi si limita spesso a rappresentare macchiette pronte ad essere consumate e in qualche modo a compiacere il fruitore. Non per questo volevamo rinunciare all’ingrediente comico, che fa comunque parte di noi, e abbiamo gestito la cosa facendo convivere diversi registri, appunto dal buffo al filosofico, scegliendo di sbilanciarci un po verso quest ultimo quasi come una piccola vendetta verso tutto ciò che abbiamo appena descritto.

Zerocalcare, da quando hai iniziato a fare fumetti, il rischio di finire in situazioni spiacevoli fatte di botte e schiaffi è diminuito notevolmente. Al contempo è cresciuto a dismisura quello di vivere situazioni spiacevoli fatte di ipocrisia e vigliaccheria, un mix che prospera online e sui social. Che cosa, di questo mondo pseudo-intellettuale, ti fa arrabbiare di più ?

Zerocalcare: A parte che in realtà gli schiaffi non guardano molto in faccia se fai fumetti o no, fuori da quel mondo pseudointellettuale. Lì dentro invece effettivamente c’è tutto un altro modo di rapportarsi, che è altrettanto violento pur mettendo al bando la violenza prettamente fisica. Quando un personaggio con un grosso seguito sui social o sui media decide di deridere, umiliare, banalizzare un interlocutore che evidentemente non ha gli stessi strumenti, mette in campo una violenza che per me è molto più infame di due schiaffi fuori da un bar. C’è un’arroganza, una prepotenza e un senso d’impunità che mi fa venire il sangue agli occhi.

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