Intervista a Marika Bret, redattrice di Charlie Hebdo

Marika Bret è giornalista e redattrice di Charlie Hebdo. Assieme alla disegnatrice Coco e ad alcuni dei superstiti dell’attentato, dopo il 7 gennaio 2015 si è caricata sulle spalle la responsabilità di far proseguire l’attività della rivista. Perché, così come lei stessa dichiara, «dopo quel giorno Charlie Hebdo è diventata un simbolo mondiale della libertà d’espressione».

Marika Bret è stata ospite della decima edizione di Strade del Paesaggio, festival svoltosi a ottobre presso il Museo del Fumetto di Cosenza, e noi abbiamo colto l’occasione per rivolgerle alcune domande sulla sua attività e sul presente di Charlie Hebdo.

Come avete reagito alle molte critiche arrivate dall’Italia dopo la vignetta su Amatrice?

Quella vignetta non voleva ironizzare sulle vittime, volevamo far notare che ancora una volta c’era stato un terremoto in Italia che aveva fatto tanti morti, e ciò è responsabilità di una cattiva politica. Un edificio scolastico che doveva essere a norma è crollato, e questo è responsabilità di politici e amministratori. E poi quegli stessi politici hanno commentato la vignetta e deciso come si doveva interpretare: è normale che un politico possa fare questo? Per fortuna c’è stato anche chi l’ha capita.

Dopo la vignetta su Amatrice c’è chi ha detto di non sentirsi più “JeSuisCharlie”. Che cosa ne pensa?

Dopo l’attentato quella frase era diventata un modo per dire no alla barbarie, e molte persone che ci hanno conosciuto dopo il 7 gennaio si sono schierate dalla nostra parte. Successivamente, alcuni russi, in seguito a una vignetta sull’abbattimento di un loro aereo, hanno rinnegato quella frase, e lo hanno fatto anche alcuni belgi, e ora degli italiani. Alcune persone vedono solo il disegno e non ciò che c’è dietro. Capisco che qualcuno possa dire di non apprezzare il giornale, ma non capisco come qualcuno possa aver cambiato idea sul principio che sta dietro la frase JeSuisCharlie.

Forse la rapidità con la quale si diffonde su Internet una notizia o un’immagine può alimentare giudizi affrettati e poco ragionati?

Non sono contro Internet, ma è vero che si tratta di uno strumento che premia la rapidità. Ma c’è di mezzo anche una questione culturale: quando una nostra vignetta fa il giro del mondo non può essere recepita allo stesso modo in Francia, in Cina o in Arabia Saudita. Però questa larga diffusione ci ha permesso anche di ricevere molti apprezzamenti, soprattutto da parte di disegnatori dell’Africa settentrionale, che ci hanno detto di non abbandonare la nostra libertà, altrimenti per loro sarebbe finita. Dobbiamo continuare ad andare avanti e a diffondere il nostro messaggio soprattutto per loro, perché da quelle parti la libertà di parola e di satira si paga spesso con la morte. Da quel 7 gennaio 2015 siamo diventati un simbolo per la libertà d’espressione e cerchiamo di ricordarcelo ogni settimana, anche e soprattutto per queste persone.

Si corre qualche rischio in più a fare satira oggi rispetto a quarant’anni fa?

Non era facile fare Charlie Hebdo negli anni Settanta e non lo è neanche oggi. Questo perché noi lavoriamo sui tabù, cerchiamo di scioccare, attacchiamo il potere e vogliamo provocare reazioni. Così come ha detto una volta Cabu: fare questo mestiere non è stato facile in passato, non lo è adesso, e non lo sarà in futuro.

L’attentato del 2015 ci ha privati di alcuni dei pilastri del fumetto satirico, tra cui Cabu e Wolinski. Che cosa è rimasto della loro eredità nei giovani che lavorano oggi a Charlie Hebdo?

Cabu e gli altri vecchi maestri hanno insegnato questo mestiere a Charb e Tignus, che a loro volta lo stavano insegnando a giovani come Coco. Il giorno dopo l’attentato, Coco e altri si sono trovati senza un riferimento, hanno iniziato un percorso difficile che ora è diventato meraviglioso. All’inizio sapevamo che non avremmo fatto un buon giornale: in redazione mancavano pezzi importanti e ci mancavano la leggerezza e la risata. Oggi invece Coco cerca di trasmettere la forza di questo mestiere ai giovani, ma anche a persone più grandi di lei. Si è presa la responsabilità di portare avanti la lezione dei grandi maestri ed è una cosa che ha doppio valore, visto che le donne in questo campo vengono prese in considerazione soprattutto come illustratrici di libri per l’infanzia.

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Vi siete mai pentiti per la pubblicazione di una vignetta?

Mai alcun disegno ha provocato pentimento in noi. Non pratichiamo mai su noi stessi censura o autocensura. Siamo una squadra, e in redazione ognuno può dare la propria opinione. Se un disegno non viene pubblicato è perché non fa ridere o perché il suo messaggio non è chiaro.

Vi siete mai posti dei limiti?

La libertà d’espressione ha limiti giuridici, e quelli dobbiamo rispettarli. Non lavoriamo con dei limiti morali, se critichiamo la religione lo facciamo analizzando i suoi limiti ideologici.  E cerchiamo di farlo da indipendenti, caratteristica che non abbiamo voluto perdere neanche nei periodi di maggiore crisi economica. Purtroppo non siamo in molti a lottare su questo terreno. Dove sono, ad esempio, i giornali satirici italiani?

Lo stimolo alla risata è un elemento indispensabile in una vostra vignetta?

Il nostro a volte è uno humor nero che non mira alla risata fragorosa. Ma più in generale la risata è indispensabile, in un periodo in cui la paura prende sempre più piede.

Essere costretti a girare con la scorta, dover sottostare a limiti di movimento e di azione, sentire paura: è questo il prezzo da pagare per la libertà d’espressione?

Purtroppo con tutto ciò che succede oggi sono necessarie delle precauzioni. Preferisco vedere il bicchiere mezzo pieno e pensare che le precauzioni mi aiutano a continuare a lavorare. Non è facile, ma è possibile fare le cose, ci sono giornalisti che hanno una taglia sulle loro teste e continuano ancora a fare reportage e a girare il mondo. La voglia di fare le cose è il motore di tutto.

Alla satira è sempre tutto concesso?

No, infatti qualche processo lo abbiamo anche perso. A volte il nostro avvocato sospira, mentre legge il giornale, perché sa che cosa può essere più rischioso e cosa no. Ma non cambiamo le cose in base alla sensibilità di un lettore, l’dea di blasfemo è creata da chi legge, non da chi fa una vignetta.