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FocusOpinioniIl nuovo pop italiano a fumetti

Il nuovo pop italiano a fumetti

Nella seconda metà degli anni Novanta, Michael Lau era un giovane laureato in design di Hong Kong che si guadagnava da vivere come vetrinista. Il suo sogno era di lavorare nella pubblicità, mentre nel suo tempo libero preferiva dedicarsi alla street art. Scena che nella sua città toccava in quel preciso momento storico il suo picco creativo e commerciale. Dopo qualche anno di tentativi di carriera nella comunicazione arrivarono i primi lavori, qualche grafica nel mondo dell’hip-hop e, sopratutto, The Gardener. Una striscia a fumetti pubblicata sul magazine giovanile East Touch, che si occupava sopratutto di moda e street culture, diffusissimo tra i giovani dell’ex-colonia inglese.

Il protagonista delle vicende raccontate settimana dopo settimana era un giovane designer appassionato di skate, tale Maxx, impegnato nel trovare sempre nuovo modi per emergere sul resto dei suoi coetanei. Le gag avevano pochissimo testo e si basavano completamente su uno stile di disegno sospeso tra il fumetto pop-underground alla Jamie Hewlett, i graffiti e l’animazione giapponese. Nel giro di poco si trasformò da esperimento a trionfo.

Gardener
Gardener di Michael Lau

Allo stesso tempo, aldilà dell’oceano, il fenomeno del lowbrow era sulla bocca di tutti. Nonostante si trattasse di una corrente artistica esistente da oltre vent’anni, solo ora – grazie al lavoro di una serie di gallerie losangeline – sembrava aver trovato il suo spazio. Nel 1994 nacque il magazine Juxtapoz, la prima voce “ufficiale” del movimento, e tutti cominciarono interessarsi a questi strani quadri dove convivevano tecniche tradizionali, suggestioni pop, una certa sensibilità barocca, fumetto e un sacco di altri ingredienti che parevano buttati lì a caso. La vera consacrazione avvenne nel 1998 con la mostra Pop Surrealism curata dal The Aldrich Contemporary Art Museum. Tra gli oltre settanta artisti selezionati c’erano qualche mostro sacro del fumetto come Art Spiegelman, fotografi come Gregory Crewdson e Cindy Sherman, nomi che da lì a poco avremmo imparato tutti a conoscere bene come Takashi Murakami e una lunga ed eccentrica lista di altri partecipanti. Dal veterano Peter Saul – classe 1934 – all’aliena Mariko Mori, ex-modella ora dedita all’applicazione delle ultime tecnologie nell’arte. La contaminazione tra mondi, linguaggi e influenze raggiunse nuovi livelli.

Fu l’inizio di un’invasione che portò un gran numero di persone, molte delle quali fino a quel momento mai davvero interessate al mondo dell’arte, a desiderare un Joe Coleman, un Ray Caesar, un Mark Ryden o un Ron English da appendere in salotto. E qui cominciarono i grossi problemi, perché una corrente artistica può essere ammiccante e d’appeal quanto si vuole, ma se il prezzo medio di un quadro parte da 50.000 dollari saranno ben pochi quelli a poterselo permettere.

A conti fatti, la differenza con quanto avveniva nelle gallerie tradizionali non era poi così marcata. L’unico aspetto davvero rivoluzionario era nel modo in cui questi artisti si esprimevano, che sembrava studiato per piacere a chiunque. Erano pezzi facili, inquietanti come avrebbe potuto esserlo un film di Tim Burton, spesso sboccatamente didascalici e capaci di giocare senza vergogna con il kitsch. Più che una corrente artistica pareva un progetto di marketing. E allora perché non considerarne anche uno spin-off a basso costo? Torniamo quindi a Hong Kong, dove il giovane Michael Lau, sulla spinta del successo folle della sua striscia, decise di produrne una serie limitatissima di action-figure ad alta qualità. Nel 1999 arrivarono sui banchi dei negozi le prime 99 copie fisiche dei personaggi di The Gardener, finendo immediatamente sold-out.

Quel preciso istante segnò la nascita dell’urban vinyl, cioè la prima produzione seriale di pezzi d’arte. Compagnie come la hong konghese Toy2R capiscono subito l’andazzo e, dopo un periodo passato a produrre figure disegnate da DJ o street-artist orientali, si mettono a commissionare giocattoli a gente come Gary Baseman, Tim Biskup, Coop, Tara McPherson, David Horvath e Frank Kozik. Tutta gente adorata dalle gallerie lowbrow di cui si parlava prima. Allo stesso tempo artisti affermati a livello mainstream come Takashi Murakami o Kaws cominciavano a considerare queste linee come parte integrante del loro opus artistico, curandole in maniera maniacale.

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Takashi Murakami

Nel 2002 Paul Budnitz fondò in Colorado Kidrobot, una ditta specializzata nell’importazione e nella vendita di art-toys orientali. Ben presto si ritrovò tra le mani un piccolo impero fatto di punti vendita dove trovare i famosi giocattoli d’artista, ma anche stampe a tiratura limitata, coffee table book e gadget di ogni tipo. Come alla famosa mostra al The Aldrich Contemporary Art Museum, le influenze potevano essere infinite, basta che si trattasse di opere con al centro personaggi memorabili, graficamente riconoscibili e sospesi tra ammicchi maturi e sensibilità infantile. Nel giro di pochi mesi, questo vezzo per adulti esplose, e il mondo si popolò di strane creature gommose e dai colori squillanti. I concept store più esclusivi esibivano con orgoglio qualche nuovo Dunny d’autore accanto all’ultimo numero di Visionaire o alla stola dell’oscuro e costosissimo stilista giapponese di turno. Stessa cosa nei bookshop dei musei che volevano darsi una nuova facciata più giovanilista. Perfino le fiere del fumetto italiane sembravano pronte ad accogliere questa nuova ondata di creativi, con Jeremyville ospite di Napoli Comicon e Buff Monster di una Lucca Comics (entrambi, mi pare, grazie all’intervento del magazine XL di Repubblica).

Dopo qualche anno di popolarità folle, come ci si poteva immaginare, l’onda ha finito per smontarsi. Sebbene uno zoccolo duro di appassionati continui a pre-ordinare giocattoli dai costi proibitivi, non siamo più ai livelli di quindici anni fa. Certo, ci sono ancora dimostrazioni di potere abbastanza impressionanti. Vedi la mostra a Tokyo dedicata alla threeA del fumettista Ashley Wood, enorme e celebrata addirittura con una copertina a tiratura limitata di Ultra Jump. Oppure la personale, nel 2015, di Jeremyville presso Colette a Parigi. Casi isolati, ma che hanno testimoniato come qualcosa in quegli anni di boom fosse cambiato in maniera definitiva. Un seme che da lì a poco, con la montata nerd in arrivo, sarebbe sbocciato del tutto. A conti fatti ormai era impossibile distinguere una costosissima tshirt A Bathing Ape da una maglietta in vendita su qualsiasi sito specializzato in abbigliamento geek. Così, sempre più icone pop finivano per diventare icone di stile, elevate poi a qualcosa di ancora più significativo da un mercato dell’arte bulimico. Kermit la rana fotografato da Terry Richardson diventava testimonial per il marchio d’abbigliamento skate Supreme – quello delle tavole firmate da Hirst, Longo e Richard Prince – celebrato qualche anno dopo con un lussuoso volume per la Rizzoli USA. Con tanto di prefazione a firma di Glenn O’Brien, collaboratore di lunga data di Andy Warhol.

Ormai un certo tipo di tratto grafico – cartoonesco ma non infantile, scarno ma non povero, figlio di influenze lontanissime come i manga più mainstream e il fumetto underground statunitense – era la cosa da ricercare a ogni costo, nel design come nella comunicazione. Fino a tornare al punto di partenza, ovvero l’animazione e il fumetto. Dubito che Scott Pilgrim potesse avere una diffusione così massiva senza un simile cambio di gusto da parte del pubblico, e mi stupisco che un’istituzione come Mondo gli abbia dedicato un giocattolo solo nel 2016 (la cui serie limitata è andata esaurita comunque in poche ore).

Un processo arrivato al culmine nel 2010 con l’arrivo su Cartoon Network della serie animata di cui più si è parlato nello scorso lustro: Adventure Time. Una creazione che pare essere figlia diretta di tutte le influenze grafiche portate al successo da Kid Robot applicate a una sghemba ambientazione fantasy da Fort Thunder. Così abbiamo i colori da urban vinyl, mostruosità bitorzolute, la musica chiptune, la collaborazione con artisti di primissimo livello (da Brandon Graham a Masaaki Yuasa). Da lì in avanti il resto è storia, con l’arrivo di una serie di titoli sempre più meritevoli sugli schermi di mezzo mondo – come lo strepitoso Steven Universe di Rebecca Sugar – e delle rispettive, e vendutissime, serie a fumetti. Un fenomeno che è andato a influenzare anche le grandi major, vedi l’arrivo sugli scaffali di una serie targata Marvel come Squirrel Girl. Perfino in un graphic novel minimale e quotidiano come La vita con Mr. Dangerous di Paul Hornschemeier troviamo tracce di questa tendenza. E non dimentichiamo tutte le nuove derive del videogioco indie alla Super T.I.M.E. Force.

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Manzone di Ugo Schiesaro

E in Italia, come siamo messi? Grazie alle nuove leve del fumetto, non male. Sono diversi i titoli pubblicati durante il 2016 in grado di misurarsi ad armi pari con questa – non più nuovissima, va detto – tendenza. L’esempio più curioso è sicuramente il Manzone di Ugo Schiesaro, forse l’uscita più indefinibile di tutta la scorsa stagione editoriale. Dentro ci trovi assurde strip comiche che ricordano l’astrazione di Michael Deforge, tanto per rimanere in ambito Adventure Time, ma con accenni di umorismo decisamente localizzati («Boia cane vez, c’era questa tipa»). Poi un cyberpunk dai colori vividi e morbidissimi, linee di dialogo grandiose, trame adolescenziali e conclusioni nere come la pece. Il tutto unendo punti lontanissimi tra loro. Se la viaggiatrice temporale della prima storia pare essere uscita dalla matita di Benjamin Marra, il povero protagonista Catino sembra essere fatto apposta per essere venduto come art-toy (la testa cubica rimanda abbastanza al collettivo giapponese Devilrobots). L’insieme è abbastanza destabilizzante, e al primo approccio non si sa bene come prenderlo. Rimane una lettura necessaria, se non altro per godere dello straordinario talento grafico di Schiesaro. I fumetti partono nella seconda di copertina e finiscono con il colophon in terza, come a non voler lasciare nessuno spazio libero. Gli stessi segmenti narrativi si susseguono senza neppure prendersi il disturbo di darsi un titolo, in un costante accatastarsi di idee e suggestioni. Un accumulo bulimico e confusionario che rende bene l’idea della corrente pop in cui questo lavoro si inserisce senza troppi problemi. Si attende con ansia – vera – la seconda uscita.

Con Anima di Chiara Zuliani e Lorenzo Lanfranconi siamo invece in territori molto più comprensibili e fruibili, sebbene il livello di ricerca estetica sia ancora abbastanza importante. Se risulta piuttosto facile immaginarsi il Manzone di Schiesaro pubblicato da Koyama Press, con la giovane autrice del volume prodotto da Tatailab si finisce direttamente in territorio Cartoon Network. Al netto di una scrittura ancora parecchio acerba – non è possibile che ogni volta che si scriva un libro per giovanissimi ci si debba per forza di cose inserire la moraletta di fondo – l’universo di questo Anima è l’unione di tutto quanto di colorato e plasticoso abbia colpito l’immaginario occidentale negli scorsi 15 anni. Abbiamo un sacco di Natasha Allegri, Keita Takahashi, Pendleton Ward e Takashi Murakami. Ma si potrebbe continuare all’infinito, passando dal Yo-Kai Watch di Level-5 al Hyper Light Drifter di Alex Preston. Il risultato sono pagine coloratissime e traboccanti influenze, gettate addosso al lettore senza neanche preoccuparsi troppo di camuffarne la provenienza. Magari il risultato lascerà freddi i lettori più stagionati, ma sarebbe ingiusto non riconoscergli il merito di essere uno dei fumetti più in linea con il mainstream estero visti nel 2016 in Italia. Sempre in ottica di serie televisive e videogiochi, colpisce come la maggiore ricerca da parte dell’autrice sia stata investita nella creazione di un mondo e delle meccaniche tra i suoi abitanti, piuttosto che nel tratteggiare una storia troppo articolata. Il borgo di Anima è un mondo che pare studiato per contenere un sacco di storie, come l’hub di un gioco di ruolo, oltre che per fornire ai due ragazzi la scusa per disegnare mostri buffi, scorci di paesaggio da anime e terribili attacchi di demoni fuori controllo. La vocazione rimane quindi più visuale che narrativa, e paiono rendersene conto perfino i personaggi. Quando il protagonista cerca di scappare da questo bizzarro mondo fluttuante, la prima domanda che gli viene posta è «Non ti fidi delle cose carine?». Come se oltre a quello non ci dovesse essere molto di più.

Impossibile non citare poi il Tobiko di Maurizia Rubino, tour de force stilistico sospeso tra favola, art-book e fumetto adulto. Dalla colorazione decisamente atipica fino alla scelta di investire una buona percentuale della foliazione in splash page più imperniate alla resa grafica che alla narrazione risulta chiaro quale sia l’autentica vocazione – totalmente visuale – dell’autrice. Così, se la sceneggiatura langue, il disegno si riprende ampiamente i suoi spazi. Come una sorta di Amanda Visell, ma con più robot e meno colori pastello. Il risultato è a tratti gratuito – spesso si finisce più vicino a una sorta di collezione di poster e illustrazioni che a una storia vera e propria – ma in diversi frangenti ci si passa volentieri sopra. Le scene di battaglia riescono a essere davvero epiche senza mai rinunciare a una certa essenza caramellosa, unendo ancora una volta mondi e suggestioni lontanissimi tra loro solo grazie alla forza delle tavole. Come in Anima, l’eccessiva impalpabilità del lavoro di scrittura danneggia parecchio il risultato finale, ma dal punto di vista grafico il lavoro incarna alla perfezione quell’unione tra ricerca estetizzante e ritorno a un infantilismo un poco artificioso che sta alla base di tutto il filone di cui si sta parlando. E da questo punto di vista se il volume fosse uscito per Dark Horse accanto a quelli dedicati ad autorità come Tara McPherson o a Tim Biskup nessuno avrebbe avuto nulla da ridire.

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Tobiko di Maurizia Rubino

Altro esempio di questo nuovo pop è il notevole Millenials di Lorenzo Ghetti e Claudia “Nuke” Razzoli. Forse la proposta più tradizionalmente legata al mezzo di quelle considerate, ma non per questo la meno interessante. L’idea alla base della serie non è certo nuovissima – di un reality show per supereroi ne avevano già parlato Peter Milligan e Michael Allred con X-Statix nel 2001 – ma qui il valore aggiunto sta nella capacità della coppia di autori di adattarlo alla perfezione al 2016. Che Ghetti fosse un ottimo sceneggiatore – leggero quanto si vuole, eppure ben ancorato al reale in maniera sempre sorprendente – lo si era già capito con il suo To Be Continued, quindi nessuna sorpresa nei primi numeri di questa autoproduzione. Come se fosse una cosa da poco riuscire a coniugare ritmo, umorismo e psicologie tratteggiate con rara sensibilità senza finire nell’ermetico o nel didascalico. Parlando poi un linguaggio davvero in linea con i tempi – trovatemi voi un altro sceneggiatore che costruisce un intero episodio di una serie di supereroi facendoli dialogare tra loro attraverso una chat online – e non forzatamente derivato da altre opere. Piuttosto sono i disegni di Claudia Razzoli a rivelarsi il vero asso nella manica di tutto il progetto: il tratto enorme e plasticoso, le tinte piatte, l’espressività dei personaggi, le tavole densissime nonostante le linee tracciate siano ridotte al minimo. E, anche in questo caso, la capacità di inserire influenze sempre diverse e stimolanti. La sezione da spokon nel secondo numero strapperà un enorme sorriso a chiunque sappia cogliere la citazione. Una ricerca continua che parte fin dalla copertina dei due volumetti pubblicati fino a ora. Al posto delle solite composizioni pompose e blandamente evocative, solo accenni o particolari delle protagoniste, rinunciando anche ai contorni marcati che distinguono tutto l’interno. Una scelta per nulla scontata, testimonianza diretta della ricerca stilistica dietro a ogni pagina di Millenials.

Tra i pionieri di queste nuove interpretazioni del pop, Francesco Guarnaccia è sempre stato uno dei nomi sulla bocca di tutti. Prima con l’adolescenziale From Here To Eternity, ora con la sua nuova serie per il web Cavalier Inservente. Via il punk-rock dei PunkArrè – così Bryan Lee O’Malley – avanti con l’ennesima reinterpretazione del fantasy. Se lo spunto – quello di un mondo di principesse, cavalieri e creature bizzarre tutto bitorzoli e colori sgargianti – non è dei più originali, l’inconfondibile tratto del giovanissimo autore e il suo umorismo riescono a rendere le due puntate pubblicate a oggi qualcosa di originale seppur perfettamente integrato nel filone di cui si sta parlando. Come in tutti gli esempi trattati nell’articolo, tranne forse Manzone, la mancanza di nuclei concettuali davvero importanti rendono queste opere tanto spettacolari all’occhio quanto eccessivamente impalpabili al momento della lettura. Se le si confronta con quanto uscito oltreoceano, se ne esce con le ossa rotte – Adventure Time e Steven Universe hanno spesso punti di snodo drammatici e di una complessità incredibile –, ma questo non significa che le si debba prendere sotto gamba. Il meritato successo del precedente lavoro di Guarnaccia e tutta l’attenzione generata sono la prova più tangibile di come un certo pubblico sia alla ricerca di questo tipo di stimoli, seppur ancora acerbi rispetto ai modelli esteri. Difficile quindi non nutrire un bel po’ di aspettative per questo nuovo titolo.

Abbiamo parlato di cinque proposte che rappresentano in maniera chiara come una tendenza ormai assodata e diffusa a livello mondiale si stia facendo finalmente spazio – seppur con tutti i limiti del caso – anche in Italia. A questi titoli se ne potrebbero aggiungere altri – magari tangenti in maniera solo marginale come l’Elvis di Michele Monteleone e Mattia Di Meo, forte del design della protagonista – a testimonianza di come un certo tipo di sensibilità più astratta si stia riprendendo il suo spazio agli occhi del pubblico.

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Elvis di Michele Monteleone e Mattia Di Meo

Dopo anni di realismo coatto, pare che qualcosa sia cambiato, sopratutto a livello mainstream. Un ambito dove l’esplosione urban vinyl/lowbrow di quindici anni fa non era mai davvero arrivata. In un vecchio articolo su L Tiers di Walter Baiamonte, altro fumetto che merita sicuramente una menzione in questo articolo, si parlava di come blockbuster videoludici alla Overwatch sarebbero stati indispensabili nel dare una eventuale spinta a questo moto verso uno stile grafico più asciutto e colorato. Meno marine futuristici dai toni smorti e più gorilla scienziati, robot pacifisti, proto-nani dotati di fornace portatile, monaci, angeli e pistoleri spettrali (tra parentesi, bisognerebbe capire perché a fronte di un design così eclettico si sia cercato di dare un background realistico a ogni personaggio). A oggi il titolo Blizzard conta più di 20 milioni di giocatori, una community nutritissima e una costante esposizione su tutte le testate di settore. Un successo con ben pochi pari. Certo, non stiamo parlando di personaggi a due dimensioni colorati a tinte piatte, ma è già un passo avanti enorme rispetto alla noia estetica del resto delle grandi produzioni videoludiche improntate al fotorealismo.

Il ricercatore e futurologo Raymond Kurzweil da sempre sostiene che le grandi innovazioni tecnologiche debbano tornare due volte prima di imporsi completamente. In un primo momento, ancora acerbe e in potenza, devono essere colte solo da determinate fasce di pubblico. Dopo qualche anno, e dopo aver avuto il tempo di perfezionarsi per mano degli early adopter che così tanto erano stati colpiti in prima istanza, possono presentarsi nuovamente al grande pubblico e raccogliere definitivamente quello che meritano. Pare che questo laborioso processo abbia un suo corso anche livello grafico ed estetico e i primi frutti della sua ultima evoluzione siano finalmente arrivati nella nostra editoria. Speriamo che il moto non si fermi e che nel corso delle prossime stagioni riesca a esprimersi in tutte le sue potenzialità.

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