La capacità virale degli Scarabocchi di Maicol&Mirco si basa su una poetica erede della tradizione della strisce sindacate classiche. Michael Rocchetti, l’autore che si nasconde dietro la strana coppia (ma nonostante ciò che dicono gli scettici, Mirco esiste) ha fondato il successo delle sue vignette rosso sangue su una scrittura veloce, empatica e brillante. Nel sintagma minimo della vignetta, ha saputo condensare la fatica del concetto e una sintesi grafica feroce.
Se dovessimo azzardare un parallelo con la letteratura potremmo parlare degli Scarabocchi come degli aforismi filosofici. Quadri minimi d’azione in cui, tuttavia, si stratificano idee e concetti. Tra di loro questi eventi creano costellazioni di senso, inseguono tematiche attingendo tanto al buon senso quanto alla più acuta riflessione cinica. Sembra a volte, che il pirronismo da marciapiede, consigliato da E.M.Cioran nel suo Sommario di Decomposizione, abbia trovato un degno erede in Maicol&Mirco.
Cioran, sentinella del nulla e ilare nichilista, ha certo dettato un canone fondamentale: l’aforisma come unità minima di senso. Lontano dalle trattazioni scientifiche e dogmatiche, pachidermi esausti per via di una sistematicità nevrotica, l’aforisma realizza quel passaggio “dalla logica all’epilessia” di cui scriveva nel Sommario. Nelle stesse pagine in cui, dinanzi al fallimento di ogni progetto di senso, chiedeva, con una smorfia a metà strada tra il riso isterico e la saccente ironia del disincanto: «mi si indichi una sola cosa quaggiù che, cominciata bene, non sia finita male». Il pensiero negativo del Barbaro dei Carpazi si specchia anche nell’ultimo poderoso tomo di Micol&Mirco, Il papà di Dio (Bao Publishing).
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Il libro, elegante e maneggevole nonostante le quasi 900 pagine, si presenta come un vero e proprio graphic novel – mi perdonino coloro che hanno decretato la morte concettuale del lemma – dedicato alle avventure di alcuni dei personaggi che imperversano nelle strisce di Maicol: Dio, Satana e il papà di Dio.
Il volume è un ironico potpourri di irrispettosa teologia fondamentale e drammatica esistenziale. Jorge Luis Borges nel racconto Tlon, Uqbar, Orbis Tertius tracciando l’epistemologia di Tlön, regione misteriosa e sull’orlo del collasso, ci regala la famosa definizione di metafisica come letteratura fantastica. L’autore argentino, con scettica ironia, nutriva un interesse quasi parossistico verso la teologia. I paradossi ultimi, e lo stupore della ragione provato nei confronti degli strati più alti della metafisica, lo incuriosivano tanto da dedicare diverse pagine alle tesi più fantasiose, con un piglio a metà strada tra l’erudito e il faceto. Le boutade nate intorno alle tesi più arbitrarie del – falso – metodo speculativo dei metafisici e dei teologi esercitavano sull’intellettuale un fascino tutto speciale. Perché alla stringente logica e alla dogmatica dei ragionamenti si intrecciavano narrazioni dense e affascinanti.
Forse, Maicol&Mirco nutrono la medesima fascinazione verso la teologia. E la traducono in un teatrino metafisico in cui assistiamo, in un tempo senza tempo, ai rapporti di antagonismo tra il super-essente Papà di Dio e il fallimentare Dio demiurgo, la cui creazione vacilla giorno dopo giorno, sotto i colpi del negativo. Nello scherzo “mitico” di Maicol&Mirco si sedimenta la tradizione della gnosi tardo-antica.
Per lo gnosticismo, infatti, al dio conosciuto e creatore, i cui caratteri erano evinti dalla creazione, si opponeva quello straniero, il vero dio, antimondano e amondano. Un concetto sconvolgente che, come dice Hans Jonas nel suo Gnosi e pensiero tardo-antico, «dopo millenni, tocca il nostro spirito con il brivido dell’eterna possibilità contraria a tutto ciò che è familiare». Maicol&Mirco rovesciano questo dispositivo mitico. La teologia come riflesso di un’esigenza umana troppo umana si dipana in un teatro, dove il piccolo Dio demiurgo, in compagna di Satana, non solo troverà la sua vera essenza, ma anche il Dio di Dio capirà quanto la siderale perfezione del suo mondo sia poca cosa rispetto all’amore verso il piccolo dio imperfetto.
Possiamo parlare, allora, di uno gnosticismo rovesciato? Certo, anzi dovremmo parlare di un mito ritrovato, che riflettendo le sofferenze sul divino lo rende più intellegibile e vicino. Ma in questo abbassamento – i teologici lo chiamerebbero κένωσις (kenosis) – vi è la possibilità di svuotare l’essere di quelle componenti di algida perfezione, mettendolo in moto e restituendolo all’uomo nella forma del racconto. Ed infatti, il libro di Maicol&Mirco è un mito fondamentale ed eterno, ma pervaso di minimalismo. Tanto negli eventi che si tracciano, quotidiani e familiari, quanto nel tratto, ruvidamente e caparbiamente legato allo scarabocchio, quasi che un linguaggio grafico più complesso rischierebbe di intaccare la forza di quanto detto. Il “duo” affronta il mito in 15 capitoli – più un prologo e due epiloghi – . La scena è comunque abitata da quelle epifanie aforistiche cari ai lettori degli Scarabocchi.
Il capitolo 3, intitolato Satana, è emblematico.
Il Dio demiurgo ha nuovamente creato, nonostante il divieto paterno. Ma ciò che ne è uscito è un altro imbarazzante pasticcio. Che non fa altre che aumentare il grado di entropia del mondo già claudicante messo in piede dal “giovane” creatore. Mentre Dio si consola parlando con la sua creatura più importante, Satana, ha un’epifania per merito di quest’ultimo. La sua volontà di creare non è altro che un sintomo della sua atavica solitudine. Il che ha una base più che teologica. Se il Dio Straniero della gnosi crea per necessità entità spirituali che esistono nell’indifferenza, il piccolo Dio Demiurgo crea per volontà, per eccesso d’amore, facendosi da parte. Con tutte le purtroppo nefaste conseguenze.
Se Maicol definisce Satana «il primo personaggio» ci sarà un motivo. Non è infatti Satana che con la tracotante ribellione mette in moto la “storia”, mostrando l’uscita dall’eternità e la caduta nel tempo attraverso il libero arbitrio? Non è forse lo stesso personaggio che nel libro di Maicol&Mirco insidia e al contempo accudisce il piccolo Dio sbilenco, mostrandogli in una sorta di paradosso la sua essenza? Satana giganteggia nel libro, sfonda spesso la quarta parte, interagisce con lo spazio bianco ricordando alcune soluzione adottate da Guido Buzzelli nel racconto – guarda caso – Annalisa e il Diavolo. Come nelle pièces di Buzzelli, il protagonista consapevole del medium in cui si muove piega il bordo della tavola, curvando lo spazio come fosse un sipario teatrale, così il Satana scarabocchiato di Maicol&Mirco guida il lettore verso il coup de théâtre.
Nella dialettica padre-figlio, Maicol stigmatizza la frattura generazionale. Da una parte il padre onnisciente, creatore di infiniti mondi possibili, architetto infallibile e perfetto; dall’altra un figlio che procede a tentoni, causando infiniti danni nel peggiore dei mondi possibili. Il Padre di Dio, super-essente sferico, è per sua natura volutamente antipatico nell’accezione etimologica del termine: non sente. Se non la sua possibile fallibilità. In realtà, sarà proprio il piccolo Dio a rendere il super-essente paziente sino alla risoluzione finale: all’apertura per il giovane divino di un nuovo eone.
Sfogliando il tomo di Maicol&Mirco, insomma, le suggestioni potrebbero essere molte. E più delle glosse di metafisica spicciola tentate in questo articolo, ciò che colpirà saranno i teatrini deliranti, le battute al fulmicotone, gli sprazzi surreali e iperbolici. Per non tacere delle strane creature prive di sfintere che saltano in aria dopo essersi nutrite. Ma soprattutto, i lettori non dimenticheranno il carattere doppio di quello libro, dedicato tanto al primo autore quanto al primo personaggio. Ovvero, tanto al bene che al male e alla loro necessaria e, per fortuna, divertente dialettica.
Il papà di Dio
di Maicol&Mirco
Bao Publishing, 2017
960 pp., 29,00 €