BANDE A PART(E) [capitolo 9]
Da Hara-Kiri alle Graphic Novel – storie di fumetti e rivoluzioni marginali
Dove si scoprono uno a uno tutti gli elementi che servono per fare un giornale che funzioni e che si venda dannatamente bene.
Roi Charles
Tra il 1958 e il 1962 la Francia si trova in un momento drammatico che la porterà a una svolta decisiva. Umiliato dalla sconfitta in Indocina (1954), lo Stato maggiore dell’esercito coloniale nel maggio del 1958 si solleva e dall’Algeria fa sapere in patria, senza mezzi termini, che se Charles De Gaulle non sarà richiamato al governo per risolvere la questione coloniale, sono pronti a marciare sul territorio metropolitano. Inciso: alla testa dell’esercito francese c’è all’epoca il generale Jacques Massu, personaggio molto meno folkloristico e più pericoloso di macchiette nostrane come il generale De Lorenzo o Junio Valerio Borghese, essendo il capo del famigerato Secondo Reggimento Paracadutisti della Legione Straniera. Lo stesso corpo in cui aveva combattuto un personaggio fondamentale per questa storia, che incontreremo a breve: il Professor Choron.
Con una controversa calata di braghe, i partiti politici presenti all’Assemblea nazionale finsero di convincersi che effettivamente De Gaulle sarebbe stato in grado di risolvere la situazione, e lo chiamarono al governo. De Gaulle pretese, per accettare la carica di Presidente del Consiglio, poteri straordinari per la questione algerina. Il 3 giugno l’Assemblea nazionale accordò a De Gaulle quanto richiedeva e si aggiornò. Non fu mai più convocata.
Una commissione segreta nominata dallo stesso De Gaulle redasse una nuova Costituzione che fu approvata, con referendum popolare, a grandissima maggioranza il 28 settembre 1958. A dicembre De Gaulle veniva eletto, secondo una procedura che prevedeva il voto di soli 80.000 grandi elettori (solo nel 1962, sempre per volontà di De Gaulle, sarà introdotta l’elezione del Presidente a suffragio universale), Presidente della Repubblica. Nei primi giorni del 1959 cominciava la Quinta Repubblica. O come dissero alcuni, il Regno di Charles.
In quest’ottica si riesce a capire quanto fu blasfemo – “lesa maestà”, si disse – tanto da causarne la chiusura, il titolo del periodico Hara-Kiri quando, nel novembre del 1970, quel “Re” morì.

Ma torniamo a quel 1959 in cui la Francia comincia un nuovo cammino. Allora accadde anche un’altra cosa fondamentale, almeno stando all’interpretazione di Donald Sassoon (interessante il capitolo sui fumetti del suo fondamentale La cultura degli europei). Alla fine di ottobre esce il numero uno di Pilote. La storia della sua gestazione è fighissima, una specie di autoproduzione che coinvolge personaggi tanto disparati e particolari da meritare ciascuno un bel capitolo per raccontarlo. Quello che sto facendo nei capitoli pari di questa storia. Qui la facciamo brevissima, e puntualizziamo solo che sarà dal 1963, quando ne diventerà direttore Goscinny, che comincerà l’epopea di una tra le più importanti (se non la più importante) e seminali riviste della storia del fumetto mondiale. Con la grandiosità del periodo tra il 1968 e il 1972.
É nel 1965 che Fred comincia a pubblicare su Pilote il suo Philémon.
Ora, io non voglio sostenere che Le mystère de la clairière des trois hiboux, prima delle avventure di Philémon e del suo asino Anatole, sia una rilettura delle Rane di Aristofane. Non ho voglia di dimostrare che l’asino si chiama come uno dei più noiosi e prolifici letterati francesi, autore tra gli altri di un romanzo dedicato ai commedianti, e che la fuga di Philémon somiglia al viaggio di Xantia verso l’Ade e che il circo in cui si svolgono la sequela di duelli tra Philémon e gli altri protagonisti è una riproposta della sfida poetica tra Eschilo e Epicuro. Ciò che in realtà mi preme è far notare questa cosa. Quella frase che Gotlib mette in bocca, nel fumetto di cui dicevamo, a Fred: «le fond de l’aire è frais» è una frase che ricorre spesso nelle avventure di Philémon, tutte costruite su una serrata surrealtà dei dialoghi. Una stigmatizzazione dell’inutile ridondanza dei fumetti più in voga in quegli anni, quelli della Ligne claire. Una cosa rivoluzionaria: come se negli anni Sessanta in Italia qualcuno avesse messo alla berlina l’insulsa ridondanza dei dialoghi e delle didascalie di Tex.
La questione è che Fred va oltre. Come Aristofane aveva riscritto, riutilizzandone in modo originale tutti gli stilemi convenzionali, il modo di fare teatro comico in Grecia, così il greco Fred non mette in discussione solo i dialoghi inutili e ridondanti di “capolavori” dimenticabili come Blake & Mortimer o Ric Roland, ma ne decostruisce la loro natura strutturale, rimontando le tavole di quattro strisce regolari da tre vignette ciascuna tipiche della ligne claire in modi originalissimi, mai giochi fine a se stessi, bensì rigorosamente funzionali alla narrazione, anzi narrazione pura essi stessi.

Avevamo dunque lasciato Fred e Cavanna mentre si dirigevano verso la redazione di Zero, per vedere se riuscivano a vendere qualche disegno anche a quella nuova rivista. Ma come si erano conosciuti i due? Dopo che aveva realizzato di riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena piazzando disegni e vignette a rivistucole umoristiche e di enigmistica (e a stampatori di tovagliette per bistrot), Cavanna aveva deciso di fare il salto di qualità e aveva proposto i suoi lavori a Ici-Paris. Con sua sorpresa glieli avevano comprati. Così, poco alla volta, le collaborazioni si infittiscono e si allargano ad altri periodici. Frequentando le redazioni di questi giornali, che avevano un giorno fisso per la consegna e il ritiro delle cartellette con i disegni da vendere, conosce altri disegnatori:
Ci si incontrava per forza, nelle anticamere, davanti a pile di cartelle di disegni. Fraternizzavamo, tra novellini intimiditi ci facevamo forza a vicenda, ci indicavamo quelli famosi che passavano e poi andavamo a berci un bicchiere all’osteria di sotto. É così che ho conosciuto Fred. Portavo i baffi, da qualche tempo. Folti, neri. brutali. Forse è quello che ci ha avvicinato, in questo mondo di glabri. Fred era uno baffuto. Li aveva folti come la pelle di un orso, arricciati su se stessi come un’onda dalla tempesta, così neri che quasi tendevano al blu, anacronistici e insolenti, trionfali. Per usare un luogo comune, sembrava un turco. Fred è un greco con una testa da turco. Una formidabile testa da turco, adatta a farne ceppi per il camino. Da sotto quei baffi uscivano degli “Hm!” che sembravano essere tutto l’essenziale della sua conversazione. Ma bisognava stare ben attenti a non prendere questi “Hm!” per dei semplici accompagnamenti musicali. Avevano sempre un significato, il più delle volte beffardo, al quale a torto i superficiali non prestavano attenzione. A parte questi “Hm!” Fred parlava solo quando riteneva di avere qualcosa che valesse la pena di essere detto, quindi le rare volte che parlava lo ascoltavamo. Aveva un’altissima considerazione dell’umorismo.
É stato un attimo diventare amici.
(François Cavanna, Bête et méchant, 1981; p. 97, trad. mia)
Per mille franchi lo faccio io
La redazione di Zero è un buco di poco più di una ventina di metri quadrati. Jean Novi sfoglia le cartelle con i disegni di Fred e di Cavanna. Ride. Una risata, la descrive Cavanna, d’acciaio. E lo fa due o tre volte. “Posso tenerli tutti?”. “Ma pensa di pubblicarli?”. Il timore dei due amici è che, se glieli lasciassero tutti, magari non li avrebbe pubblicati, né pagati. “Si, li pubblicherò. Non tutti in una volta sola. Preferisco averli qui, pronti, ci fosse qualche buco da riempire”. Glieli paga tutti. Subito. In contanti. Mille franchi l’uno. Non è tanto (non sono ancora franchi pesanti, quelli arriveranno nel 1960), ma è sempre il doppio di quello che pagano le altre testate.
Stanno per congedarsi quando Novi li ferma. “Sentite, devo uscire con il numero due. Con le illustrazioni sono a posto, ma non ho articoli… Non trovo nessuno che vuole scrivere. Non riesco a fare tutto da solo; non è che vorreste darmi una mano? Non vi andrebbe di tornare qui domani?”.
“Quanto paga?”
“Mille franchi”
“Certo”
Il giorno dopo ci tornano. Novi li riceve con quel suo sorriso d’acciaio che già hanno imparato a conoscere. É contrariato, il tipografo lo sollecita per andare in stampa, ma ci sono un sacco di buchi nel menabò: mancano i testi. Cavanna e Fred si guardano. Possiamo provarci noi, gli dicono, cosa bisogna scrivere? Tutto. Ricette, consigli, annunci e soprattutto brevi pezzi umoristici, che ciò che vogliono i lettori è soprattutto roba che faccia ridere. Cavanna, ammette lui stesso, ha sempre pensato di essere portato per la parodia e il sacrilegio. Da quindi di gomito a Fred. Ci penseranno loro.
Mezz’ora dopo sono lì, al bistrot di sotto. Un quaderno per uno, sigarette e due tazze di tè bollente. Cavanna preferirebbe del vino bianco, ma per solidarietà con Fred, che riesce a lavorare solo se mantiene i pensieri ad alta temperatura, beve anche lui del tè. Cominciano. Scrivono, si scambiano i quaderni, ridono, correggono, riscrivono, si ripassano i quaderni e ridono. In una mattina hanno finito. Quando Novi legge le loro cose ride, di gusto. É soddisfatto, ma manca ancora l’articolo principale, una specie di fondo, magari il primo di una specie di inchiesta che convinca i lettori a comprare anche il numero successivo. Nessun problema, dice Cavanna, per altri mille franchi lo faccio io; solo ho bisogno di un po’ più di tempo. “Quanto?” chiede Novi. “Almeno fino a domattina”. Andata.
La mattina Cavanna porta il pezzo a Novi. Perfetto. Vanno subito in tipografia. Là Novi prende Cavanna e gli fa un discorso più o meno riassumibile in questi termini. Il primo numero sarà esaurito entro una o due settimane, poi si dovrà uscire con questo e cominciare a preparare il terzo. Ha bisogno di un redattore, di uno che si occupi, se le cose ingranano, di mettere insieme un numero del giornale ogni due mesi circa. Se Cavanna accetta lui potrebbe dargli quindicimila franchi per ogni numero. Va da sé, perché altrimenti non sarei qui a raccontare questa storia, che Cavanna accetta. Così Novi consacrò Cavanna scrittore. Che in poco tempo diventerà capo redattore di Zero. Una storia che durerà, non senza conflitti, sei anni. Anni che Cavanna considerò comunque come un imprescindibile periodo di formazione:
Zero è solo in modo accessorio un giornale. Avrebbe potuto essere qualsiasi cosa che si fosse potuta vendere per strada. É la sua vera natura: fornire ai giovani venditori qualcosa da vendere, qualcosa che non rischi di rompersi, poco ingombrante, facile da nascondere dietro la schiena per brandirlo all’improvviso sotto il naso della vittima, si lascia ficcare in mano d’autorità, offre un pretesto culturale per aiutare i giovani… il giornale è l’oggetto che meglio si presta alla vendita selvaggia. Nessuna perdita. Basta aspettare di averlo venduto tutto per stampare il numero successivo. Non è necessario spaccarsi la testa per trovare i contenuti. […] l’ideazione e la realizzazione dei numeri di Zero non costituivano che l’aspetto più accessorio dell’attività delle Edizioni Novi. La parte essenziale di questa attività erano il reclutamento, la formazione e, soprattutto, la carica permanente del morale dei venditori.
(François Cavanna, Bête et méchant, 1981, pp. 143-150; trad. mia)
Centomila copie
Insomma. Fare Zero era la parte divertente dell’attività editoriale di Novi. Il vero lavoro era gestire la rete di vendita del giornale, cioè gestire i venditori ambulanti. Se ne occupava Denise, la moglie di Novi. La rete era strutturata così: c’era Denise nel ruolo di direttrice delle vendite, c’erano dei capisquadra (i venditori più bravi) che oltre a occuparsi della vendita delle loro copie, gestivano ciascuno una squadra di venditori in numero variabile, ma di solito era sei. Compito dei capisquadra era di addestrare e motivare i venditori.
Il giornale costava 200 franchi. Per ogni copia venduta il venditore se ne teneva 100, venti andavano al suo caposquadra, dieci alla direttrice delle vendite e il resto a Novi. Per realizzare la giornata un venditore doveva piazzare almeno quaranta copie al giorno. Il reclutamento veniva fatto attraverso annunci economici su France Soir. La Francia ha appena perso una guerra, in Indocina, e i suoi generali, che come tutti i generali non si stancano mai – che mica le combattono loro, le guerre – si stanno preparando a perderne un’altra, in Algeria. Il morale delle giovani generazioni è ai minimi storici, quanto la disoccupazione è invece ai massimi livelli. Non è un problema trovare strilloni. Disoccupati, studenti, attori in attesa di ingaggio, scrittori falliti, reduci e senza fissa dimora. Abbondano.

Ce n’è uno bravissimo. Uno spilungone, con i capelli cortissimi, il cranio perfettamente rotondo, sottili baffi biondi e una palandrana scozzese fuori moda. Era in una delle squadre di venditori da soli tre giorni. Nei primi due aveva fatto fuori le sue 40 copie, quel giorno lì va oltre ogni media e vende ottantadue copie. In redazione gli fanno festa, gli offrono champagne. Lo beve tutto, poi ne va a prendere dell’altro con i soldi che ha appena realizzato. Alla fine sono tutti ubriachi e lui grida:
Non mi vergogno mica di ammetterlo, sono un veterano d’Indocina io. Sicuro. C’è qualcuno a cui non garba? Bene. Mi chiamo Bernier. Sergente-capo Bernier Georget. Georget è il nome che mi ha dato mia mamma, è un nome del cazzo ma non c’è da volergliene, è una mezza scema. Io le ho passate tutte: ferite, malaria, tubercolosi, congedo per indegnità; fottetevi. Vi sotterro tutti a voi sottospecie di froci, tutti!
(François Cavanna, Bête et méchant, 1981, p. 153; trad. mia)
Tracanna il vino con le bolle che gli fa reflusso dal naso e gli scende a rivoli sul mento. Ridono tutti. Lui attacca l’inno della Legione. Novi, figlio di un ufficiale, era cresciuto in caserma e già da bambino aveva sviluppato una certa idiosincrasia per la vita militare che con il tempo si era sviluppata in un saldo antimilitarismo. Non gli piace chi si ubriaca, lui è astemio e beve solo caffè. Questo Bernier avrebbe tutti i numeri per non piacergli, infatti il suo più che una risata sembra un rictus. Ma c’è qualcosa in quest’uomo in rivolta che lo affascina. E poi, sa vendere come nessun altro, là dentro.
Il giorno dopo lo nomina responsabile delle vendite, al posto di sua moglie. Cavanna ha dei dubbi sulle passate capacità di sottoufficiale di questo Bernier, ma come organizzatore e motivatore dei venditori è un fenomeno. Tutti i giorni i suoi strilloni superano di gran lunga le quaranta copie di media. Un successo sempre maggiore. Ogni sera si stappa una bottiglia di champagne. In poco tempo Parigi gli diventa troppo stretta e la rete di vendita si allarga a tutto il Dipartimento. Poi alle altre città. Novi cambia il nome della sua casa editrice in Edizioni Les Cordées (che suona come: tutti membri di una cordata, a suggerire l’idea della solidarietà tra i suoi membri, una specie di uno per tutti, tutti per uno). Sotto l’impulso di Bernier il giornale arriva a tirare centomila copie. Tutte vendute nel giro di un mese. Sono soldi.
Con i soldi Bernier si compra un’automobile. Un’americana decappottabile. Una Cadillac Eldorado bianca, con gli interni di pelle rossa fiammante. La mattina che arriva in boulevard Bonne-Nouvelle alla guida di questo carrozzone da esibizionista impenitente, tutti corrono ad ammirarlo. Sguardi e commenti misti di invidia e desiderio. Quella macchina è la prova che il sogno di ciascuno può avverarsi. Che un giorno se ci sapranno fare come lui, tutti loro che fanno il suo stesso lavoro, potranno permettersela.
Tra le venditrici più giovani c’è una ragazza di quelle che, una volta che l’hai vista, non puoi più dimenticartela. Ha diciotto anni, un corpo ben fatto e il viso sempre irradiato dal sorriso. Si capisce subito che la divorano la gioia e la voglia di vivere (e di ridere). Si chiama Odile Vaudelle e sono tutti innamorati di lei. Tutti: i venditori, i redattori, i disegnatori e probabilmente anche i clienti, ai quali riesce sempre a piazzare tutte le sue copie. Ma lei è pazza di Bernier. Salta sulla Cadillac. “Dài sergente-capo”, gli dice, “portami a fare un giro”.
// Prosegue fra due settimane…