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RecensioniClassicAmleto sul tetto: Will Eisner lettore di Shakespeare

Amleto sul tetto: Will Eisner lettore di Shakespeare

Erroneamente si accredita ad Eisner l’invenzione del lemma “graphic novel” e di conseguenza anche lo sviluppo di quelli che sono i caratteri specifici del genere. In realtà, quello che Matteo Stefanelli definisce come la distorsione Eisner è un processo di semplificazione, che ha condotto la vulgata ad accettare come buona la versione che vuole il padre del fumetto come arte sequenziale anche inventore del formato.

In realtà, il merito di Eisner è stato quello di donare una vita editoriale a un termine che era nato già nel 1964 per merito di Richard Kyle. Il critico, scomparso lo scorso dicembre all’età di 87 anni, aveva introdotto il termine in un articolo apparso su una fanzine per definire quella produzione europea, soprattutto francese, che si discostava dal formato americano – per intenderci quello dei comic book – preferendo volumi stampati su carta pregiata e con una tendenza a preferire tematiche più adulte. In realtà, uno dei primi esempi in area anglofona è Brinky Brown Meets Holy Virgin Mary di Justin Green.

will eisner contratto con dio

Eisner ha quindi conferito dignità editoriale a un termine, forse non in maniera consapevole, ma sicuramente con una buona dose di lungimiranza. Il fumettista, dopo aver completato quello che sarebbe diventato il famoso Contratto con Dio, chiamò Oscar Dystel, allora presidente della prestigiosa Bantam Books di New York, essendo a conoscenza della stima che questi provava per il lavoro fatto su The Spirit. Preso in contropiede durante la chiamata, Eisner tirò fuori il termine graphic novel, intuendo che un “semplice” fumetto sarebbe stato boicottato a priori. Nonostante ciò, Oscar Dystel bocciò la proposta.

Eisner trovò un editore minore che promosse il romanzo tanto da ottenere un ordine dalla prestigiosa libreria Brentano’s, dove però sorsero nuovi problemi. Infatti, il libraio non sapeva dove collocare un articolo che, nonostante la richiesta, sfuggiva a ogni possibile etichetta, scatenando anche le proteste dei clienti che vedevano spuntare un fumetto tanto nel settore dedicato alle pubblicazioni religiose, quanto in quello dedicato ai fumetti. Certo, fa sorridere, ma le lamentele arrivarono anche dai genitori di ignari ragazzini che tra le raccolte dei Peanuts o di Beetle Bailey trovavano illustrazioni di donne discinte. Ma la crociata di Eisner era all’inizio: ormai, era sempre più convinto che al fumetto dovesse essere riconosciuta la dignità artistica che gli era stata negata per anni.

In quest’ottica, oltre alla sua attività di romanziere a fumetti, una notevole importanza ricopre la sua attività didattica e teorica, concretizzatasi nel libro Comics & Sequential Art del 1985, dove Eisner conia la famosa definizione di “fumetto come arte sequenziale”, alla quale molto deve Scott McCloud:

Immagini e altre figure giustapposte in una deliberata sequenza, con lo scopo di comunicare informazioni e/o produrre una reazione.

Il libro è una delle prime analisi rigorose sull’arte del fumetto e per illustrare gli assunti di base Eisner ricorre spesso a esempi concreti tratti dalle sue opere. Quando, però, arriva a occuparsi dei rapporti che intercorrono tra sceneggiatura e disegni, affronta il problema attraverso una sequenza di dieci pagine in cui illustra il famoso monologo shakesperiano tratto dalla scena I dell’atto III dell’Amleto. La sequenza è intitolata Hamlet on a Rooftop  (apparsa nel 1981) e, come è facilmente intuibile, pur restando fedele al testo shakesperiano, Eisner decide di ambientare il soliloquio sul tetto di un palazzo di New York, utilizzando un immaginario centrale nei suoi romanzi a fumetti.

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L’assunto teorico di partenza è quello che l’uso espressivo dell’anatomia e della mimica sia un valore aggiunto per il fumetto e che pertanto la traduzione di un testo – privo di qualsiasi connotazione in tal senso – permetta a questo di acquistare una profondità di sfumature di senso altrimenti latenti. Eisner sembra così muoversi in contraddizione con una tradizione secolare che, invece, ha sempre visto nella parola scritta una capacità di trascendere l’ambiguità dell’immagine. Per il teorico, è l’immagine che permette al testo di smussare i margini di ambiguità, così da acquisire una precisa emotività che si traduce in una maggiore eloquenza informativa. Non è un caso che egli introduca il racconto con una glossa programmatica:

Questo (racconto) rappresenta un esempio di una situazione classica: quella che vede un autore contrapporsi ad un artista. L’artista deve decidere in via preliminare quale sarà il suo apporto: rendere servilmente quello che è nella mente dell’autore o di avventurarsi sulla scorta del flusso di parole dell’autore in un mare di segni.

Le parole di Eisner, quindi, tradiscono che quello che l’artista intrattiene con il testo (e quindi con l’artista che vi è dietro) è un rapporto non collaborativo, ma conflittuale. L’artista, per Eisner, deve affrancarsi da una situazione di sudditanza, deve liberare se stesso dalla supervisione dello scrittore, una specie di capomastro da cui l’artista – visto come un intrepido esploratore – deve affrancarsi per poter intraprendere il suo viaggio. Ecco perché per dimostrare il suo punto di vista, Eisner sceglie Shakespeare: se il drammaturgo inglese può essere subordinato alle intenzioni dell’artista, allora qualsiasi scrittore sarà destinato alla resa.

Prima di lanciarsi nella resa drammaturgica attraverso la pagina disegnata, con due didascalie Eisner introduce il lettore attraverso quella che sarà la sua peculiare lettura del testo shakesperiano. Il primo cambiamento è rimuovere qualsiasi elemento sovrannaturale, descrivendo il padre di Amleto non come un fantasma, ma come una “voce”, molto probabilmente un’allucinazione indotta dallo stato mentale del protagonista. Qui, a differenza del dramma originario, Amleto non vuole vendicarsi solo dello zio – reo di aver ucciso suo fratello e di aver insidiato la sua vedova – ma anche della stessa Gertrude. L’Amleto eisneriano decide di uccidere sua madre non solo perché ella, insieme a Claudio, abbia trasgredito una legge, ma soprattutto perché ha violato «something more unspeakable within him»: qualcosa di più profondo e personale.

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Non solo la doppia usurpazione, anzi: Eisner calca la mano ed evidenzia, come avevano fatto in passato sia Vladimir Solov’ëv che Thomas Stearns Eliot, quanto il dramma sia personale, ma non per questo ineffabile, poiché sembra alludere con quel “qualcosa di cui è impossibile parlare” a un complesso edipico, a un’usurpazione ben superiore che fa collassare la mente del protagonista.

Inoltre, viene introdotta un’ennesima variazione. Ofelia è ridotta a una semplice fidanzata che Amleto rifiuta senza alcuna evidente motivazione. Mentre nel dramma originale Ofelia ha delle ottime ragioni per abbandonare Amleto, Eisner semplifica gli eventi, cercando di fornire una risposta alle domande che agitano il testo shakespeariano: preferisce riscrivere il testo per glissare o ovviare su un materiale che genererebbe solo domande, senza fornire quindi quelle informazioni utili a seguire più speditamente quanto drammatizzato nel corso delle pagine che seguono le veloci didascalie introduttive. Eisner fornisce delle coordinate, snellendo quindi quelle che sono le problematiche del testo sorgente, che permettono a qualsiasi lettore di comprendere qual è lo stato mentale del personaggio che sta per introdurre nella scena.

L’Amleto che Eisner ci presenta è ben distante dal modello archetipo accettato dal canone occidentale. Viene ritratto come un uomo in preda alle proprie emozioni, non come un tipo intellettuale, consunto dalle proprie domande, ma come un uomo «che si aggrappa alla propria ragione prima che questa l’abbandoni, prima che venga sopraffatto dal fiume in piena delle sue emozioni e venga così trascinato nel mare turgido di una violenza senza ritorno». Il fumettista è chiaro: quest’uomo non è il principe di Danimarca. E per rendere evidente la cesura caratterizza Amleto come un hippie, rendendolo un personaggio più realistico e con cui è più facile identificarsi. Eisner attribuisce il dramma del principe di Danimarca a un uomo qualunque: universalizzando, quindi, la sua tragedia. A tutto ciò contribuisce anche la caratterizzazione dell’ambiente in cui inscena il monologo: il suo regno è fatto dai bassifondi grigi di una città oscura. Il tetto, da cui osserva un panorama fatto di tetti che si perdono in lontananza, è pieno di rifiuti, barattoli e cicche di sigarette. Con la barba incolta e gli occhi iniettati di sangue, l’Amleto di Eisner sembra un tossico.

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La maggior parte delle riduzioni conservano il contesto storico, cercando di ricreare un’atmosfera senza tempo. Basta confrontare questa riduzione con quella altrettanto famosa di Gianni De Luca. Pur condividendo con Eisner la tensione verso una semplificazione del materiale letterario, De Luca è fedele nella caratterizzazione storica del personaggio, anzi enfatizza gli elementi cerebrali e filosofici insiti nel testo. La domanda senza risposta che si agita nel soliloquio shakespaeriano è rappresentata in una sola tavola, dove il movimento del personaggio diventa un simbolo del lavorio della coscienza. A Will Eisner non interessa tutto ciò: la sua unica preoccupazione è di ordine “teatrale”. L’obiettivo è quello di creare una performance affascinante dalla massima leggibilità, in cui le parole diventano inutili, quasi influenti. Tutta la sua attenzione è canalizzata a mostrare quanto la prossemica e la mimica bastino a creare informazioni utili.

Il corpo di Amleto diviene un rappresentazione visibile delle passioni, dei dubbi e della rabbia. Tutte emozioni che non si trovano nel testo del drammaturgo. Nel monologo originale, le riflessioni filosofiche di Amleto lo paralizzano: è un uomo frustrato dai dubbi e dall’indecisione. Quello eisneriano ha già superato questo momento, lo testimoniano il suo aspetto e la maniera convulsa in cui si muove nello spazio scenico. Emblematica è la terza tavola in cui Amleto, illuminato dalla luce proveniente dal lucernario, impugna un coltello e in maniera risoluta decide di opporsi ai problemi che lo attanagliano. Eisner crea un crescendo, alternando le tonalità emotive e sottolineandole attraverso un uso enfatico della patognomica. Rabbia, disperazione, esaurimento, frustrazione, paura, confusione sono resi attraverso tanto un linguaggio fisico, lavorando quindi su un alfabeto emotivo, quando sulla disposizione dello sguardo e degli spazi. Scrive a margine Eisner:

L’uso del campo lungo… è inteso a dare rinforzo al realismo – e in questo modo prova ad affrontare il problema di mettere la lingua di Shakespeare in bocca a un uomo del genere.

Un uomo che non ha forse nulla da spartire con il principe danese. Infatti, se l’Amleto del famoso soliloquio è intrappolato nella sua indecisione, tanto da renderlo incapace di agire, di affrontare con lucidità il presente e da smarrire il suo posto nel mondo, il personaggio eisneriano attraverso un maelstrom emotivo, che nulla ha a che fare con la dialettica degli opposti quasi di matrice proto-esistenzialista. Risolve il dilemma in azione, giustificando così la decisione di uccidere lo zio usurpatore e la madre fedifraga. Hamlet on a Rooftop è un esempio di infedeltà, che affonda le sue radici nell’assunto teorico che il processo di riduzione (o traduzione intersemiotica) è un campo di combattimento e non di pacificazione, dove il fumettista deve impegnarsi in prima persona per portare fuori anche i significati impliciti del testo, magari tradendo l’intenzione del testo. Eisner lo fa consapevolmente per dare dignità letteraria all’arte sequenziale, ma soprattutto per dimostrare la potenza espressiva del linguaggio fumettistico:

Il matrimonio tra il linguaggio shakesperiano e un moderno abitante del ghetto potrebbe essere inappropriato, ma questo esercizio serve a dimostrare il potenziale del medium perché un tema come quello emotivo è universale.

Nella sua lunga carriera, Will Eisner ha intrecciato lucidamente due diverse esigenze: quella tecnica e quella culturale. Ha esplorato il medium fumettistico per condurlo verso una maturità tecnica che ne esaltasse le potenzialità comunicative, mostrando la capacità di parlare a tutti attraverso un linguaggio trasversale che superasse l’ostacolo linguistico (in questo orizzonte si iscrivono i suoi fumetti pedagogici e i suoi manuali di manutenzione per l’esercito). A questo intento teorico si è aggiunta nella seconda metà degli anni Settanta la volontà di affermare la dignità culturale del fumetto, liberandolo dai luoghi comuni e mostrando come questa “letteratura illetterata” fosse in grado di interloquire con una forma culturalmente riconosciuta come il romanzo.

Hamlet on a Rooftop è un divertissement che ben rappresenta queste due anime del maestro americano, a cui dobbiamo volenti o nolenti l’evoluzione del fumetto verso quello che oggi conosciamo come graphic novel.

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