Blutch: “il fumetto è il linguaggio poetico perfetto”

Christian Hincker – in arte Blutch – è uno degli autori contemporanei più influenti del fumetto francese. Autore di Il piccolo ChristianPer farla finita con il cinemaBlotch e molti altri titoli, giunge ora in Italia con una delle sue opere più apprezzate e significative, PeplumIn questa intervista rilasciata a Paul Gravett racconta tutta la sua carriera: come ha iniziato a fare fumetto, come sono nate alcune delle sue opere principali e quella che è la sua concezione del ruolo di fumettista.

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Come hai scelto il nome Blutch?

Non l’ho esattamente scelto, perché più che uno psedonimo è un soprannome. Mi chiamano così sin da quando avevo quindici anni. È il nome di un personaggio di un fumetto molto popolare a quei tempi (Les Tuniques Bleues di Lambil & Cauvin). Secondo i miei amici somigliavo a Blutch, nel fisico e nel carattere. Alla base, c’è la piuttosto puerile intenzione di tagliare col proprio background, i genitori eccetera, rinascendo come qualcuno di diverso. E poi lo pseudonimo è una tradizione nel mondo del fumetto, sin dal secolo precedente, almeno in Francia, come con Hergé e Moebius.

Sei un “artista degli artisti”, amato da molti. Cos’è diventato per te oggi l’atto di disegnare? È un piacere, un’ossessione, una distrazione, una perversione? O è un modo per mantenere una distanza dal mondo, esaminandolo intimamente e interpretandolo, nel renderlo tuo?

Tutte queste cose allo stesso tempo, con intensità variabili a seconda dei periodi della mia vita o degli stati emotivi. Disegnare è un atto paradossale, è un modo per separarti dal mondo e dalla gente e allo stesso tempo di mettere in discussione quel mondo e quella gente. Da bambino, immergermi nel disegno era un modo per isolarmi, un ritiro. Preferivo stare in casa, che uscire fuori.

Mi sembra di capire che sei praticamente cresciuto leggendo classici del fumetto francese e belga, quali sono state altre opere in altri medium non franco-belga che ti hanno segnato? Essendo tu di Strasburgo, intendo alsaziani, tedeschi o svizzeri, anche.

Crescendo su un confine, a cavallo di due paesi e due lingue, ho dovuto sviluppare una doppia comprensione del mondo. Il dialetto alsaziano erano la mia lingua principale. Quando ho iniziato la scuola, non parlavo una parola di francese. Conoscevamo bene le star della televisione e della musica tedesca, e la cultura pop tedesca ha avuto una forte influenza su di me, intendo Pippi calzelunghe (originariamente della scrittrice svedese Astrid Lindgren NDR) e Winnetuo dello scrittore tedesco Karl May. Dopo la Seconda guerra mondiale, la Germania Ovest era piena di basi militari americane. L’americanizzazione di questa regione era stata molto più rapida che in Francia, quindi avevamo tutte quelle serie americane come Starsky e Hutch, Dallas eccetera, prima dei francesi. Per non parlare poi dei film americani e il loro profondo appeal sessuale. Quindi sono il prodotto di un luogo dominato dalla cultura americana. Non che ci sia qualcosa di male, è così e basta. Sono nato franco-americano.

Blutchpiccolo

Una volta hai detto «Io e Carl Barks veniamo dallo stesso posto…». Che posto è? Come fanno a essere legati a te i grandi fumetti dell’“uomo dei paperi”?

Barks è l’artista che più mi ha toccato nel profondo quando ero piccolo. La sua ispirazione poetica, la sua malinconia spensierata, il suo senso dello spazio, li considero tuttora unici e una costante fonte di ispirazione.

Hai descritto il fare fumetti come «cercare di esprimere la vita all’interno di strette e limitanti scene di piccoli disegni messi vignette in sequenza». Consideri quindi il fumetto una limitazione? Come riesci a trovare piacere nel disegnare e scrivere storie?

Per me, nessuna pratica artistica offre così tante possibilità plastiche e letterarie quanto il fumetto. È nel fumetto che posso usare al massimo le mie capacità. Ho tutto ciò che mi serve: le immagini e le parole. Uno strano e misterioso matrimonio, il linguaggio poetico perfetto.

Come sei approdato alla rivista umoristica Fluide Glacial? Come è diventata la tua prima “casa” nel mondo del fumetto?

Nel 1987 ero uno studente d’arte a Strasburgo. Leggevamo Fluide Glacial. Ne ero un lettore fedele ma non costante, e un giorno dalle sue pagine scoprimmo che la rivista stava organizzando un contest per fumetti, con in palio per il primo classificato la possibilità di essere pubblicati sulla rivista e la somma stratosferica di 5.000 franchi. Nel corso dell’estate realizzai una storia di quattro pagine intitolata Les Aventures de Tintin. Vinsi il contest e il mio fumetto fu pubblicato all’inizio del 1988. Avevo vent’anni e ce la feci.

Per Fluide Glacial avevi creato un alter ego satirico del passato, il buffo vignettista Blotch.

Le storie di Blotch erano ambientate tra il 1935 e il 1938. È un vignettista sulla cinquantina, che ha messo da parte la carriera di pittore. Pubblica vignette patetiche su una rivista chiamata Fluide Glacial. È burbero, grasso, e pieno di presunzione e pregiudizi. Il suo mondo è una versione del mio, o almeno, mentre disegnavo le sue avventure, tutti i protagonisti erano modellati sulla vita reale. In un certo senso, Blotch è una sorta di autoritratto.

Blotch era anche una critica e parodia di aspetti del fumetto francese contemporaneo?

In realtà no. Non trasmetto messaggi col mio lavoro. Non voglio dimostrare niente. Questo vale per Blotch e per il mio libro più recente, Lune Envers. La critica di un sistema non è un compito tale per il quale mi sembra valga la pena di sedermi per mesi alla scrivania e usare i miei occhi per mettere in fila piccole vignette e disegni. La mia ispirazione è ampia e in parte mi sfugge.

Le storie brevi quasi mute della tua serie Mitchum come hanno segnato il tuo modo di fare fumetti?

Mitchum è stata il mio laboratorio, per un certo periodo. Lì era permesso ogni tipo di esperimento. Il successo o il fallimento erano secondari. L’unica regola da rispettare era divertirsi nel farle. David Mazzuccheli all’epoca definì il progetto un diario emotivo. Il lavoro era influenzato dalle mie frequenti e più o meno lunghe visite a New York che facevo in quel periodo (1994 – 1997) e dagli artisti, vivi e non, che conobbi lì.

Per farla finita con il cinema è in parte saggio, in parte divagazione fantastica, sulla storia, sul significato e sul fascino del cinema. Qual è stata la tua relazione col cinema, con gli attori e i registi?

Questa è una domanda troppo grossa. I film hanno migliaia di volti, migliaia di voci. Non riuscirei mai a rispondere adeguatamente. Il cinema mi ha accompagnato e nutrito sin da quando posso vedere e sentire. È una giungla affascinante e disturbante. Ho realizzato un libro intero sull’argomento eppure sento come se non avessi detto niente.

Hai detto «il fumetto è molto più ellittico, mentre il cinema è molto esplicativo; dà meno spazio alla vaghezza, al non-detto, c’è un lato fragoroso nel cinema». Le tue esperienze come hanno influenzato i film, come quello animato Peur(s) du Noir, le tue collaborazioni con Alain Resnais e tuoi ruoli come attore sullo schermo?

Hai menzionato diversi tipi di lavoro che non richiedono lo stesso impegno. Ognuno richiede un coinvolgimento diverso. Peur(s) du Noir è stato come attraversare la Valle della Morte con una bottiglia d’acqua che perde. Ho avuto una squadra eccezionale che lavora con me, ma sono arrivato a capire che l’animazione non faceva per me. Si tratta di un processo lento, meticoloso che richiede grande resistenza. La poca pazienza che ho si applica ai fumetti. Il mio lavoro con Resnais era totalmente diverso. Mi misi al servizio dell’artista. È stato come lavorare all’interno dell’atelier di un vecchio pittore. E apparire nel film è divertente, un piacere infantile. Posso giocare e io non sono responsabile di quello che dico. È liberatorio e, nonostante il nervosismo, paradossalmente rilassante.

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Quali sono state le sfide e le soddisfazioni nel lavorare su Peplum, il tuo primo graphic novel esteso?

Adattare il Satyricon, il romanzo di Petronio, ha bisogno di tempo sufficiente per cercare di ricreare la portata del suo affresco ed evocare nelle pagine almeno un po’ della della sua epopea. Ho iniziato con Fluide Glacial, una rivista di storie brevi, e ho sognato di lavorare per (A Suivre), una rivista per la serializzazione di storie lunghe. Peplum è una reazione alla mia carriera iniziale come autore. Ho sempre desiderato fuggire da me stesso, rompere le abitudini e la routine. Per conoscersi mai del tutto, e iniziare sempre da capo.

Cosa ti ha spinto al tema romano e all’ambientazione romana, cosa ti hanno offerto?

Ho voluto immaginare e descrivere un mondo pre-cristiano. Siamo alla fine della Repubblica Romana. Un mondo grezzo, non lontano dalla preistoria, dove gli esseri umani non hanno ancora superato gli altri animali, sono loro simili, che vivono sullo stesso terreno. Un mondo confuso, quasi astratto, tagliato fuori completamente dalle nostre concezioni, un po’ come un pianeta alieno con i suoi abitanti inquietanti. Volevo evitare qualsiasi ricostruzione storica sfarzosa. Peplum è l’opposto di Alix (il giovane eroe romano di Jacques Martin NDR), lontano da Ben Hur. Mi piace molto Mankiewicz e sono stato molto più ispirato dal suo Giulio Cesare che della sua Cleopatra. Come fonti, ho attinto soprattutto da Fellini (Satyricon), Pasolini (Medea) e Welles (Otello, Falstaff). E, naturalmente, ho letto gli scrittori latini Svetonio e Tacito, ma anche George Bernard Shaw, Roger Caillois e Tardi. La folle società umana nel suo Polonius si può ritrovare nel mio approccio.

Cosa c’è dietro la serializzazione irregolare di Peplum, prima su (A Suivre) e poi completato in libro per Cornelius?

Per qualche motivo, (A suivre) aveva considerato il mio lavoro non adatto alle pagine della rivista, per questo avevano pubblicato una versione troncata della mia storia. Per fortuna, Cornélius ha salvato il mio lavoro e ha permesso a Peplum di prendere la sua vera forma che volevo.

peplum5Hai cambiato poi di nuovo raccontando le esperienze personali ma universali dell’infanzia in Il piccolo Christian, in parte serializzato su Charlie Hebdo. Cosa ti ha spinto a esaminare il mondo dei bambini?

Era un’estensione di un lavoro che avevo fatto da studente. Ho iniziato Il piccolo Christian nel 1988 in forma di gag di una sola pagina, come esercizio. Inoltre, questo è diventato parte della mostra per il diploma, l’anno successivo, alla Scuola di Arti Decorative di Strasburgo. Quindi stiamo andando indietro di quasi 30 anni, e a essere onesti il mio passato professionale difficilmente mi interessa. Mi dimentico subito il passato e passo a qualcos’altro. Che cosa stava succedendo nella mia testa da voler descrivere la vita di questo bambino? Penso che stessi cercando qualcosa di leggero e divertente da raccontare. E l’infanzia è qualcosa che noi tutti conosciamo e vogliamo affrontare, in modo che i lettori si riconoscano nelle avventure del mio piccolo eroe. La mia infanzia era ancora abbastanza vicina, allora, i ricordi erano vividi, i testimoni erano lì, i luoghi intatti, ho cercato di tornare su tutto. Oggi Il piccolo Christian sta svanendo nella nebbia.

E prenderesti in considerazione l’idea di fare un altro graphic novel autobiografico, ma adulto? Se sì, che cosa coprire e quanto si dovrebbe cambiare o camuffare, come avevi fatto con Il piccolo Christian?

Per me non è una questione di mettersi letteralmente al centro del palcoscenico letteralmente centrale. Sarebbe di interesse limitato. Meglio procedere dietro una maschera. Inoltre, Il piccolo Christian è una falsa autobiografia. Per essere un po’ pretenzioso, potrei dire che nulla è vero, ma tutto è preciso.

L’editore Futuropolis ti ha offerto la preziosa libertà di ampliare la vostra proposta attraverso la trilogia C’était le bonheur, La Volupté e La Beauté. Quali erano le tue ambizioni con queste tre opere e come hanno influenzato i tuoi progetti successivi?

È stato un po’ lo stesso principio sulla serie Mitchum: con carta e matita, tutto è possibile. Il gusto per la sperimentazione, la trasgressione: in quel momento volevo liberarmi dalle vignette e lasciare respiro alle mie immagini. Sentivo limitato nella pagina a fumetti, volevo liberare il mio disegno, rimanendo legato ai contenuti di un libro. Io sono e rimarrò un disegnatore, e per niente un artista visivo.

Se posso essere sincero, per quanto ho ammirato ciò che hai mostrato, ero un po’ deluso dal fatto che si è scelto di non mostrare alcun tuo fumetto nella mostra personale per il Grand Prix di Angoulême, nel 2010. Quali sono state le ragioni ? Sei ancora riluttante a esporre gli originali dei tuoi fumetti?

Ho sempre pensato che una pagina di fumetto non sia fatta per stare appesa a una parete. Non è abbastanza spettacolare per questo. Una pagina è solo una fase del processo, il cui scopo sta nel libro. Fondamentalmente, è una forma d’arte industriale.

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Tra i tuoi altri interessi ci sono anche la musica, il jazz in particolare, e la danza. Cosa ti forniscono questi interessi nella realizzazione di fumetti?

Apprezzo la musica per le sue qualità astratte, visto che il disegno è terribilmente concreto. La musica riposa gli occhi e, naturalmente, mi stimola. C’è sempre qualcosa da imparare e riprendere da essa, nelle varie forme che il genio umano assume. La vita in generale e l’arte in particolare influenzano costantemente il mio lavoro. Sono curioso per natura.

Quale altro genere o progetto a fumetti hai ancora da provare e vorresti intraprendere? Hai parlato di un po’ di rammarico per non aver ancora realizzato fumetti per i bambini.

Forse un fumetto erotico o proprio pornografico. Per chiudere la questione, una volta per tutte. D’altra parte, rielaborando la storia di Tif & Tondu, ho voluto affrontare la gioventù. Prima di tutto, la mia, perché abbiamo davvero amato gli album di Will presenti in casa mia. Ecco perché ho chiesto a mio fratello di scrivere una nuova storia per il duo. Siamo stati sedotti dalla fantasia poetica mescolata con il romanzo noir degli scrittori Rosy e Tillieux. Ma sono combattuto, non voglio soffermarmi su questo argomento, ho paura che commentare un lavoro in corso faccia volare via il mistero. Da bambino, usavo l’espressione ‘rifare’. Da quando disegno, ho sempre copiato immagini che mi emozionano. È emozionante come essere un musicista jazz e interpretare uno standard, reinterpretarlo e farlo mio. Sto suonando ancora una volta i pezzi che amo.

Questa intervista è stata pubblicata nel 2016 in inglese sul blog di Paul Gravett.