Reinventare i Fantastici Quattro: l’avventura senza limiti di Jonathan Hickman

Non riesco neppure a immaginare la faccia di Jonathan Hickman il giorno in cui si è trovato a firmare il contratto per cui sarebbe diventato lo sceneggiatore dei Fantastici Quattro. A soli tre anni dal debutto sotto l’egida della solita Image Comics eccogli servita su di un piatto d’argento l’occasione della vita. Una serie con un disperato bisogno di rilancio, perfetta per la sua idea di fumetto e così ricca di storia da contenere in sé tutti gli ingredienti necessari a tornare enorme. Ed ecco quindi l’allora sceneggiatore di Secret Warriors vedersi sventolato sotto il naso il biglietto d’oro per la sua personalissima fabbrica di cioccolato. Delle fondamenta perfette per mettere in piedi una delle sue spericolate architetture narrative senza doversi preoccupare troppo di finire sopra le righe. Perché questo è sempre stato Fantastic Four: un fumetto d’avventura senza limiti, con una mitologia fuori scala e un nucleo intimamente familiare a farne da contrappeso.

Tutto quello che occorreva era qualcuno innamorato alla follia di questi ingredienti e in grado di sfruttarli per scrivere qualcosa di grandioso. Hickman non solo ci riuscì – parliamo di un fumetto del 2009 – ma mise la sua firma su un ciclo di storie come non se ne leggevano da tempo. Forse la cosa più enorme prodotta dalla Marvel dai tempi del Thor di Walt Simonson, tanto per capirci. Esagerato? Neanche per scherzo.

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Non fatevi ingannare dai primi sei albi contenuti dall’Omnibus – legati al megavento Marvel Comics di turno, in questo caso Dark Reign, e quindi imbrigliati in passaggi obbligati – e passate in maniera abbastaza rapida al numero 570. Prima uscita dei Fantastici Quattro in cui Jonathan riesce a sganciarsi dagli obblighi dell’Universo condiviso e può cominciare a muoversi come meglio crede. L’avvio della sua gestione è particolare, quasi da antologico. Piccoli archi narrativi, spesso di un singolo numero, si susseguono in maniera piuttosto rapida. L’impressione è di avere tra le mani un fumetto di fantascienza con radici saldamente old-school, seppure sotto una dose massiccia di steroidi. Ogni numero ha una sua identità ben precisa e si prosegue nella lettura per il gusto di vedere cosa si inventerà il Nostro nell’uscita seguente.

Si tratta di un’ottima serie, ma nulla di che. L’ennesimo fumetto di fantascienza edito negli Stati Uniti, con tutto quello che ne consegue. Grandi idee, ritmo perfetto, dialoghi a prova di bomba a compensare un’incapacità cronica di pianificare come si deve corsi narrativi più lunghi di quelli contenuti in un trade paperback. Sebbene i singoli frammenti appaiano cesellati di fino – come ci si aspetterebbe da ottimi artigiani –, paiono solo adagiati all’interno di una narrazione orizzontale appena abbozzata. Poi qualcosa cambia, e ci si rende conto di essere finiti in qualcosa di molto più grande di noi. Nulla di quello letto fino a ora era ciò che pensavamo.

Al giorno d’oggi non siamo più abituati al concetto di respiro della storia. Tantomeno se si va a cadere nell’epico. Ci si accontenta di singole scene particolarmente grandiose, di qualche trovata roboante o ci si meraviglia se all’interno di un contenitore dalla grandezza limitata (una serie televisiva, un film o un arco narrativo di 5/6 numeri) troviamo più di un paio di grosse trovate narrative. Da questo punto di vista Hickman è l’Elon Musk del fumetto statunitense contemporaneo. Mentre gli altri imprenditori illuminati ci imboniscono con gadget elettronici e app sempre più antropocentriche, facendoci credere che si tratti degli ultimi ritrovati dell’ingegno umano, lui parla di colonizzare Marte. Alla stessa maniera, quella che stiamo leggendo non è un’ottima serie fatta di ottime storie, ma un’unica, imponente epopea di oltre mille pagine dove ogni singola vignetta ha un ruolo ben preciso nell’economia di tutta la narrazione. Un tour de force narrativo e organizzativo che lascia senza parole.

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«Sono abbastanza portato per la pianificazione. Non appena ottenuto il mio primo incontro alla Image mi sono sentito dire: “Jonathan, ci piacerebbe pubblicare Nightly News”, allora ho detto grazie e ho lasciato il mio lavoro per fare fumetti a tempo pieno. Si trattava di imparare a nuotare o affogare. Poi mi sono seduto e ho scritto un piano d’azione che coprisse cinque anni della mia vita», raccontava a Comics Alliance. Se, come me, fate parte di quella larga fetta di popolazione che non riesce neppure a organizzare in maniera degna un week end, dovreste provare come minimo ammirazione. Scoprire come i numeri più deboli siano quelli necessari a capire quello che succederà dopo 600 pagine – quindi anni – lascia senza parole. Tempo di arrivare alla fine di questo primo volume e non potrete che condividere appieno la scritta”Il fumetto più straordinario del mondo” che campeggia in apertura. E siamo solo a metà del gigantesco arco narrativo messo in piedi per noi dallo sceneggiatore.

Fantastic Four è fumetto d’evasione nella sua forma più nobile e raffinata. Intelligente, complesso, stimolante e senza limiti. Dentro queste pagine troverete di tutto. Civiltà sepolte, viaggi nel tempo, paradossi, omnimenti, dimensioni parallele, apocalissi, creature mostruose, umorismo e dramma. Tutto su una scala enorme. Eppure una delle scene più ricorrenti e significative della run è la colazione della famiglia Richards. Mano a mano che ci addentra in questo groviglio di linee narrative vedremo sempre più persone condividere cereali e succo d’arancia su quel tavolo nella cucina del Baxter Building. Troveremo piccoli cloni di geni criminali, droidi riprogrammati, pupilli di altre razze, l’Uomo Ragno, giovani studenti della Fondazione Futuro. Buffo come un quadretto tanto surreale – e spesso comico, visto che i nostri protagonisti non riescono a sfilarsi le loro imbarazzanti tutine neppure a tavola – riesca a essere davvero familiare. Un insistere su di un’aspetto così banale e terreno non è una scelta casuale, ma la maniera di Hickman di farci capire quanto al centro di tutto non ci siano solo macchinari incomprensibili, incontri diplomatici tra razze neppure appartenenti allo stesso pianeta o lunghe discussioni su branche della scienza che oggi ancora non esistono. Per Jonathan il nucleo rimangono i personaggi e il calore che riescono a trasmettere. Tutto questo primo Omnibus verte sulla paternità, sulla famiglia e sul peso delle proprie scelte all’interno di questo microcosmo a cui tutti – volenti o nolenti – apparteniamo. Senza dimenticare il fatto che non sempre gli altri sono tenuti a condividerlo.

Le vicende vissute dai Nostri potranno anche essere al di là di ogni più vivida fantasia e i loro quozienti intellettivi doppiare senza troppi problemi i nostri – per lo meno il mio – ma tutti i personaggi che appaiono su queste pagine hanno una profondità umana cesellata con amore palpabile. Sono tangibili, non trovo altre parole per definirli. E lo si vede da una serie di piccoli particolari. In un universo dove anche lo scemo del villaggio pare possa vantare come minimo un dottorato in fisica computazionale e una specializzazione in qualche altra materia altrettanto complicata, i dialoghi non possono che vivere di riflesso tale caratteristica. Difficilmente da geni della scienza ci si aspetterebbero sparate da b-movie anni Ottanta. E infatti, in questo fumetto, tutti sono pacati, educati, corretti. In grado di mettere in piedi discorsi estremamente complessi con la scioltezza con cui i personaggi di Elmore Leonard si esprimono per one-liner lapidarie. Anche nei momenti di maggiore ira si ha l’impressione che qualcuno se ne possa uscire da un momento all’altro con un ragionevolissimo «Non potremmo prima parlarne?».

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Una scelta con ripercussioni ben più profonde di quello che si potrebbe pensare, capace di dare maggiore compattezza alla costruzione dei personaggi e al contempo cancellare in un colpo solo 15 anni di sbruffonate millariane. Sono ingredienti come questo a rendere speciale questo fumetto. Le splash page sono ridotte al minimo, tornando a essere qualcosa di davvero carismatico che si manifesta solo nei momenti di maggiore pathos, mentre le grandi scene si consumano anche con piccoli gesti. In questo senso, Destino si conferma il personaggio preferito di Hickman. Il più complesso, fragile e credibile nella sua follia. Mentre il paternalista Reed Richards si ostina a trattare la figlia Valeria come una bambina, Von Doom ne riconosce la grandezza, le parla alla pari e arriva addirittura a inginocchiarsi pur di stringerle la mano guardandola negli occhi. In una sola pagina impariamo a conoscere un personaggio sotto una luce completamente nuova, e non ci è mai parso così autentico.

Se questo articolo finisse qui, sembrerebbe quasi di avere tra le mani il Citizen Kane di casa Marvel. Peccato che non si sia ancora parlato di come questi Fantastici Quattro appaiano graficamente. Aspetto che, trattandosi di un fumetto, ha una certa dose di importanza. Per farla breve, dal punto di vista dei disegni si tratta di un lavoro semplicemente sbagliato. Sia chiaro, nessuno dei disegnatori coinvolti è scarso o denota lacune in qualche modo penalizzanti allo svolgersi della storia. Lo storytelling è sempre cristallino, i picchi emotivi vengono sempre veicolati a dovere (seppur in maniera piuttosto basica, con i soliti primi piani a tutta vignetta o l’apertura improvvisa dell’inquadratura) e le splash page colpiscono forte e chiaro. È proprio il tono muscolare dato dai nomi coinvolti a essere fuori registro. Rispetto al resto della produzione supereroistica statunitense qui gli scontri fisici sono ridotti al minimo e si passa più tempo a discutere in strani laboratori o a viaggiare tra pianeti e dimensioni. Che senso ha quindi rendere Reed Richards un campione di crossfit e non prendersi neppure un attimo a tratteggiare in maniera più caratterizzante tecnologie e scenografie? Con l’esclusione di un paio di momenti – che evito di citare per non rovinare la sorpresa – tutto il sense-of-wonder di questo volume è affidato ai testi di Hickman e mai alla potenza delle tavole.

L’unico che riesce a smuovere qualcosa è Dale Eaglesham, ma solo perché ha la fortuna di avere molte sequenze spettacolari e la colorazione squillante di Paul Mounts a rafforzare l’insieme riempiendolo ulteriormente. C’è da dire che il suo è anche il contributo più grottesco, con i corpi dei nostri eroi innaturalmente gonfi di muscoli. Se penso a cosa sia riuscito a fare Goran Parlov su una sceneggiatura di Mark Millar in Starlight il confronto è impietoso. Ma si potrebbe citare anche il Matteo Scalera di Black Science o un tesoro ancora nascosto come Xurxo G. Penalta (visto di recente su 8house di Brandon Graham). Senza contare Dustin Weaver, che già aveva lavorato con Hickman sulle pagine di S.H.I.E.L.D. Provate a pensare al team del nuovo Prophet al lavoro su queste pagine. Il senso di questa serie era massaggiare il cervello dei lettori, non trattare il tutto come una sorta di Avengers qualsiasi. Non metto in dubbio che dietro a tale scelta ci siano anche direttive editoriali con giustificazioni ben radicate nel mercato, ma rimane il fatto che testi e matite debbano per forza viaggiare alla stessa velocità, se si vogliono raggiungere risultati davvero preziosi.

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Per rimanere in casa Marvel, dà quasi fastidio citare per l’ennesima volta il terzetto Daredevil – Hawkeye – Silver Surfer, ma la verità è che tali picchi di qualità non sarebbero stati lontanamente raggiungibili se quelle sceneggiature non fossero state interpretate proprio da quei disegnatori. In questi lidi invece si sarebbe potuto fare molto di più. Magari semplicemente curando in  maniera più eccentrica lo styling o, preferibilmente, inventandosi soluzioni di narrazione nuove e sorprendenti. Tra le pagine di queste volumone non troverete numeri incredibili come l’anello di Moebius di Mike Allred e Dan Slott o  il numero narrato dal punto di vista di un cane di David Aja e Matt Fraction. Il picco di sperimentazione lo si raggiunge con la classica uscita muta messa in coda alla morte di qualche personaggio centrale alla serie. Nulla che non sia già stato fatto decine di altre volte.

Perfino un precisino della sceneggiatura come Alan Moore, uno che di trovate simili ne ha tirate fuori dal cappello in continuazione, si è sempre appoggiato a disegnatori in grado di interpretare al meglio le sue idee più astruse. Hickman non ha avuto questo lusso, e da un certo punto di vista le ali gli sono state tarpate da un narrazione spesso troppo in linea con quanto previsto dalla tradizione del fumetto popolare statunitense. Pensate cosa sarebbe potuto essere. Nel frattempo non siate sciocchi e recuperate al più presto queste storie.

Marvel Omnibus – I Fantastici Quattro di Jonathan Hickman vol. 1
di Jonathan Hickman e disegnatori vari
Panini Comics, 2017
800 pagine a colori, € 65,00