Corto Maltese, l’ambiguità narrativa di Pratt e il nostro sguardo

Questo articolo è un estratto del saggio Corto. Sulle rotte del disincanto prattiano, pubblicato da Armillaria.

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In un bel libro del 1970 intitolato Un romanzo d’avventura, Alberto Ongaro si inventa questa storia: nel cuore della notte, dopo una cena esagerata consumata nella sua casa veneziana, Hugo Pratt riceve una telefonata ambigua e inquietante che fa nascere in lui il sospetto che il suo amico Francesco, detto Paco (chiaro alter-ego dello stesso Ongaro), sodale di tante avventure vissute in giro per il mondo e collaboratore di altrettante storie inventate (a fumetti), si sia suicidato gettandosi nel Tamigi. Il romanzo dura una notte. Quella che Hugo trascorre a rivivere, quindi a raccontare a chi legge, quella amicizia. Durante la notte le ombre dei personaggi delle storie lette, di quelle vissute, di quelle raccontate fanno visita a Pratt in un serrato succedersi di realtà e finzione. Circondato da questi amorevoli fantasmi, Pratt cerca di giungere alla verità. Non tanto quella sulla morte di Paco, quanto quella sulla loro amicizia passata.

Va detto, per inciso, che Pratt non apprezzò come i fatti degli anni argentini vennero raccontati nel romanzo di Ongaro, e gli rispose pubblicando l’anno dopo Le pulci penetranti, con la sua versione dei fatti.

Comunque: non entrerò nel merito della veridicità dei fatti narrati, né svelerò al lettore affezionato quale sarà il risultato della lunga notte di ricerca e indagine; ma ci tengo a sottolineare come in questo romanzo, che invito assolutamente a recuperare, Ongaro descriva adeguatamente la natura dell’universo prattiano: un’equilibratissima mezcla tra la realtà e la fantasia.

La ricerca della verità, quindi della conoscenza, passa necessariamente attraverso l’incontro con le ombre, con i fantasmi delle storie che, narrate o vissute, ci sono comunque appartenute. Questa cosa avrebbe scandalizzato Platone, che considerava le ombre cattive e fuorvianti compagne degli uomini. Ma Pratt, a questo punto, Platone lo aveva già gettato nel cassonetto, sempre che gli avesse mai prestato attenzione (come vedremo molto prima di arrivare a Mu).

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Hugo Pratt

[…]

La storia [di Una ballata del mare salato] si apre con una tavola intera in cui è riportata la lettera di un certo Raul Obregon Carrenza (serie di nomi che, a indagarli, ci porterebbero a fare digressioni su Messico in Fiamme di John Reed, ma non è il caso ora, magari in un altro saggio…), sedicente nipote di Cain Groovesnore, che sostiene di avere affidato all’autore i diari di suo zio affinché Pratt ne raccontasse la storia.

Un espediente narrativo abusato, da Cervantes passando per Scott fino a Manzoni; solo che Pratt lo usa in modo assolutamente originale rispetto ai suoi modelli.

Tra le tante sciocchezze che insegnano alla scuola dell’obbligo c’è anche la convinzione che l’espediente del manoscritto ritrovato serva agli autori per attestare la veridicità e l’attendibilità di quanto raccontano. Gli autori, soprattutto autori di quella portata, sanno benissimo che non c’è bisogno di espedienti, che il patto sulla veridicità di quanto raccontato è stretto con il lettore nel momento stesso in cui il lettore decide di leggere la storia che raccontano. L’espediente del manoscritto serve ad altro. Serve a costruire lo spazio in cui, rispetto alla vicenda narrata, il narratore che la sta attualizzando può intervenire con la propria riflessione critica (Manzoni, per esempio, lo fa ripetutamente in modo magistrale) senza che, almeno in apparenza, questa riflessione influisca sulla vicenda. Il giudizio etico dell’autore interviene e indirizza l’agire dei personaggi ma lo si fa sembrare, invece, solo un commento al di sopra dei fatti.

Pratt, al contrario, usa la lettera in apertura per neutralizzarsi. Per impedirsi qualsiasi commento, qualsiasi intervento di carattere morale. Tutto quello che c’è da dire sulle azioni dei personaggi, su quelle di Rasputin per esempio, che viene definito ‘un maledetto assassino’, è in quella lettera. Nessuna voce narrante giudicherà ulteriormente quanto accadrà nelle tavole a venire. Infatti, nel momento esatto in cui la storia comincia, la voce che la narra è quella dell’oceano. E come si sa, l’oceano è indifferente.

Escludendo la pagina di apertura in cui è riportata la lettera, la prima tavola di questa incredibile storia ci tende subito una trappola da cui non potremo più uscire, una rete di sguardi che, tra le maglie di una sottile ambiguità, ci terrà prigionieri per tutto il racconto.

ballata mare salato

Cerco di spiegarmi. La prima vignetta, quella in cui l’Oceano Pacifico comincia il suo racconto in prima persona, è costruita in modo da far coincidere il nostro sguardo con quello della voce narrante: guardiamo da lontano con la stessa indifferenza con cui il mare, prima in tempesta, ha spazzato isole e navi, e con cui ora accarezza in tranquillità la carena del catamarano che a quella tempesta è scampato. Guardiamo da lontano e ci sentiamo al sicuro, sia dalla tempesta, sia da qualsiasi responsabilità per ciò che accadrà. E ciò che accade è già nella seconda vignetta. Lo sguardo del mare, sulla cui direttrice ancora ci appoggiamo, ci mostra i marinai del catamarano che avvistano e recuperano un relitto con due naufraghi. Due giovani, maschio e femmina. Ancora vivi.

A questo punto scatta la trappola. Neanche ce ne accorgiamo, quasi, ma nel giro delle ultime due vignette il nostro sguardo viene ribaltato nella semi-soggettiva del capitano Rasputin. Accompagnati dal movimento dei flutti ci ritroviamo alle sue spalle a guardare ciò che vede lui.

Quando, girata la pagina (nel fumetto è importantissimo il ritmo del girare le pagine), guardiamo la tavola successiva, è come se anche noi ci fossimo girati. Adesso siamo di fronte al capitano Rasputin. Diventiamo oggetto del suo sguardo, e della sua rabbia. La nave si è fermata per raccogliere i naufraghi senza un suo ordine, e questo lo ha fatto infuriare: per lui è una perdita di tempo. Invece, per noi lettori è l’inizio della storia, il motivo per cui non smetteremo di leggere.

In poche vignette, da indifferente il nostro sguardo è diventato implicato, responsabile. In fondo le cose stanno proprio così. L’incontro tra il catamarano di Rasputin e la scialuppa dei naufraghi è necessario alla storia che l’Oceano ci sta raccontando. È il nostro sguardo, quindi, in buona sostanza, la causa di quanto accade.