“American Gods”: una nazione in conflitto. La prima stagione

Chi ben conclude porta l’opera a casa. O più semplicemente, semina il terreno per le stagioni a venire. Con Come to Jesus siamo dunque giunti alla fine della prima stagione di American Gods.

L’impressione è di aver davvero sfiorato gli Dèi, ma senza ostentare seriosità. Attraverso una struttura – quasi – ricorsiva che invita con naturalezza a riflettere sulla serialità televisiva. Ragionando, poi, su quello che la nostra epoca sta facendo all’idea di “divinità”, svuotata di senso in virtù del consumismo, banalizzata nelle sue sfumature di significato e relegata al ruolo di sponsor per qualsivoglia ordinamento politico e sociale. La tesi? Viviamo sempre più per essere distratti, anziché ispirati.

Per illustrarcelo Bryan Fuller e Michael Green ci hanno fatto scivolare senza soluzione di continuità tra il registro grottesco e l’umorismo nero, con parentesi gore, altezze liriche e melò, elucubrazioni filosofiche o teologiche, scontri dialogici e metafisici, sesso, blasfemia e via degenerando.

Per fortuna, nell’arcana tessitura di eventi e personaggi, la carne nuova impiantata nel vecchio tessuto è fiorita a nuova vita. Il libro è stato ringalluzzito dalla sua versione televisiva e, “aggiornandolo” rispetto a 16 anni fa, gli autori hanno inserito rimandi all’attualità e sviluppato nuovi temi, dall’immigrazione alla sorveglianza di massa, fino allapost-verità”.

american gods recensione

[Da qui in poi: SPOILER]

Sotto il profilo narrativo, la modernizzazione del libro è poi sottolineata proprio dalla dichiarazione di guerra ufficializzata nell’ultima puntata, presso la villa di Ostara. Che si tratti di antiche divinità ribelli, oppure della modernità globale e tecnologica, tutte le religioni sono intente a esaltare, sacrificare, o semplicemente limitare la nostra specie. In guerra per dominare la mente dell’uomo. Quasi si trattasse di tornare tra le braccia delle grandi narrazioni che la categoria del post-moderno aveva invano tentato di superare. Per ricordare a tutti quanto, ancora oggi, la religione e la cultura modellino la cronaca quotidiana e le questioni geopolitiche mondiali.

Non è inoltre casuale che sia proprio Ostara (interpretata da una brillante e leggiadra Kristin Chenoweth) a mostrare il prezzo da pagare quando ci si dimentica degli Dèi. Gli ospiti della Dèa, Shadow, Mr. Wednesday, i Nuovi Dèi, Laura Moon e Mad Sweeney, l’esercito dei molteplici Gesù, sono allo stesso tempo attori e testimoni. Il dazio è il mancato rinnovo della primavera: la carestia; la negazione stessa del consumismo. La figura di Ostara, così particolare e in apparenza superficiale, sottolinea lo stile della serie e decreta l’intento degli autori: muoversi tra il kitsch e il manierismo più sfrenato per mettere in scena lo scontro essenziale tra le diverse idee e concezioni del mondo. Nientemeno.

Per eseguire il compito, niente di meglio che scegliere un protagonista “neutro”, a tratti insignificante, nelle reazioni e nella posa. Se già nel libro originale l’ex carcerato risultava appunto essere poco più di un veicolo adatto a trascinare il lettore nel gorgo degli eventi, nella versione filmata lo statuto del personaggio viene, almeno per ora, confermato in toto. Shadow, e con lui l’attore che lo interpreta, Ricky Whittle, non brilla certo per carisma o personalità. Eppure è proprio questa sua caratteristica ad attecchire nello spettatore, il quale riesce ad affiancarsi all’uomo e alle sue reazioni, tra l’anodino e il catatonico fatto e finito, con maggior disinvoltura. Quasi che il senso del suo sognare stia solo nell’accompagnarci, come un moderno psicopompo, tra inferi, daimon e sincretismi religiosi di varia natura. La guida che la serialità televisiva moderna si merita, insomma.

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È quindi importante ricordare quanto American Gods tenda a fregarsene, in direttissima, di piacere allo spettatore ed esaurire lì la sua funzione. A Fuller e Green interessa sperimentare forme narrative diverse, legate soprattutto a tradizioni ed esperienze estetiche che vengono dal cinema autoriale e dalla videoarte, prima che dalla serialità televisiva spicciola.

Il duo appare peraltro ben contento d’affidarsi alla giusta cialtroneria che accompagna il narratore, mai così frammentato, inattendibile, allo stesso tempo eterodiegetico ed omodiegetico (esterno e interno ai fatti raccontati) e, per forza di cose, onnipotente. Tra le pieghe della lingua biforcuta di Mr. Wednesday e dei suoi sodali, oltre il Pensiero e la Memoria, risiedono le bugie veritiere narrate dalla serie. La verità e le sue sfumature diventano dunque una letterale questione di fede. Un tema centrale della serie, quanto mai attuale in tempi di fake news e post-verità.

Lo si nota in fretta nella quinta puntata, Lemon Scented You (diretta da V. Natali, già regista del cult Cube), dove viene presentata in diretta la triade dei Nuovi Dèi, fresca, pop e vitalee composta da Media (la splendida e divertita Gillian Anderson), Technical Boy e Mr. World (un Crispin Glover al solito sopra le righe, eccezionale nella resa e nell’interpretazione borderline). Il dialogo tra il triumvirato, Mr. Wednesday e Shadow ha tutti i crismi dello scontro retorico-teologico, fatto e finito. Chiarifica in fretta qual è la natura, e quale sarà il costo, della divina tenzone, i cui preparativi sono condotti a forza di lusinghe e menzogne.

Puro darwinismo religioso, tra progresso e violenza concettuale, commercio teologico e ispirazione creativa.

Non è diverso il contenuto della sesta, A Murder of Gods, dove lo sguardo, i personaggi e l’itinerario si allargano fino ad arrivare ad uno tra gli snodi principali della stagione. Nella comunità di Vulcan – peraltro assente dal libro originale, ma sulla quale pare abbia dato un contributo lo stesso Gaiman – scopriamo la “verità” sull’anima di Wednesday. Mentre la settima, A Prayer for Mad Sweeney, si rispecchia nella quarta puntata, e ci riporta allo sguardo e all’esperienza di Laura Moon, moglie non-morta di Shadow: l’ironia greve che l’accompagna rimane, ma spuntano nuove falsità e tensioni che, a sorpresa, non mancano di rivelare le inaspettate motivazioni sentimentali ed emotive di qualche personaggio. Permettendo peraltro ad Emily Browning di approfondire le interessanti sfumature del suo personaggio, oltre e al di là del suo eterno broncio.

Ad ogni modo, tra un narratore e l’altro, qualche bugia e una parvenza di mezza verità, la prima stagione si conferma come poco più che un prologo. Anche per questo, American Gods non sempre riesce nel proprio intento. E gli eccessi vengono talvolta pagati dallo spettatore. La scarsa chiarezza espositiva, la frammentazione della narrazione e dei punti di vista, la polifonia di forme e modi del racconto non possono difatti che deprimere e allontanare quanti cercano soltanto un buon prodotto o intrattenimento semplice e di buona fattura. Lo stesso vale per i ritmi altalenanti dei singoli episodi, le lungaggini e le ripartenze improvvise. Senza parlare della complicata logorrea che a tratti affligge i personaggi. “Difetti”, questi, che è probabile i due autori ritengano qualità purissime.

Altrove, ben più di un elemento è pronto a sfolgorare. Intanto, la dilatazione dei tempi e del confronto tra i personaggi, se non proprio della loro gestualità, permette di sguazzare a dovere nei “tempi morti”. Possiamo godere d’immagini degne dei tableaux vivants, dei ralenti barocchi, dell’eccesso di color correction o del manierismo urlato ad ogni nuovo costume, ripresa o set. Una scelta di campo precisa, insomma. Il corretto biglietto da visita per quest’universo che ci presenta una nuova, più moderna, cosmogonia.

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Inoltre, la possibilità di narrare personaggi e storie collaterali permette di ampliare a dismisura le tematiche. L’insistenza con la quale gli autori si soffermano a raccontare le implicazioni di ordine personale e narrativo delle vite degli Dèi, e di quanti girano loro attorno, ha del commovente, soprattutto perché insistono sul versante sociale, politico e civile che riguarda tutti noi. Si pensi al tassista Salim, alla sua complessità e all’amore disperato che gli è toccato in sorte. Oppure ai momenti dedicati alla visita presso la comunità di Vulcan, magistralmente satireggiata ma valida come grottesca anamnesi di parte della società americana. O, ancora, la splendida sequenza rivolta alle traversie di Bilquis, dall’antichità agli anni Settanta della disco, passando per i capitomboli iraniani e l’arrivo dell’AIDS: una complessa, straordinaria, ode al sesso e al femminino sacro.

O ancora il gioco a rimpiattino tra Emily Browning e Pablo Schreiber, che non solo racconta la nascita della nazione americana con un fascinoso punto di vista folclorico, ma ribalta alcune prospettive narrative sin qui date per assodate. Senza contare poi la potenza glamorous di Anansi/Mr Nancy, che tra gestione della rabbia e migrazioni forzate di nuovi schiavi africani non lesina né chiarezza espositiva né bravura recitativa (sempre sia lodato Orlando Jones), né indignazione. In ultimo, tra presunte verità e nuove e vecchie immigrazioni, sfolgora a dovere la critica condotta contro il giogo delle religioni, attuali e passate: repressione e normalizzazione sono il loro unico credo, oggi come ieri.

Non mi pare si tratti di poca cosa. Una volta appurato che anche le musiche, le canzoni originali e la costruzione sonora di American Gods rispecchiano la complessità della serie, rimane solo da sottolineare quanto il lavoro di Bryan Fuller e Michael Green sia in sintonia – e comparabile – con quello dei responsabili di diverse altre fra le più recenti serie tv americane, come Twin Peaks o Legion. Serie costruite da autori, registi e showrunner, coscienziosi visionari concentrati nell’offrire nuove sperimentazioni.

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Tra i molti che nell’ultimo paio di anni procedono su traiettorie non dissimili da American Gods troviamo, in primis, David Lynch e il suo ritorno all’ovile in Twin Peaks. Legion di Noah Hawley o The Leftovers, e volendo persino Westworld.

Si tratta in tutti i casi di narrazioni a bassa intensità e destrutturate. Oggetti visivi non identificati, spesso estetizzanti e stilizzati all’inverosimile. Storie che potrebbero essere narrate con un minutaggio ridottissimo ma che esplodono al rallentatore, decomprimendosi per ritrovare il gusto del mood oppure una tessitura meno convenzionale. Nei passaggi più felici, piccole epifanie visive e narrative.

Che si tratti, in fondo, di nient’altro che un’evoluzione, il segno di una ricerca all’interno della serialità contemporanea? Quale che sia il caso, fate attenzione: ogni minuto dedicato a questi media – nel senso che incarna, non a caso, il personaggio/metafora che proprio ‘Media’ si chiama – è un sacrificio, sacro e ripetuto, del nostro tempo e della nostra attenzione. Gillian Anderson e i suoi vegliano sul mondo. E potrebbero anche chiedere di noi per la prossima campagna acquisti.