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Hubert, l’uomo che amava l’arte

Secondo Ben Gijsemans, giovane autore di origini belga, fare fumetti è un’opera di distruzione. Lo dimostra benissimo la sequenza iniziale di Hubert, il suo fumetto d’esordio. Il protagonista del graphic novel è Hubert Luyten, un uomo di mezza età dalla scarsa loquacità e abbastanza impacciato nei rapporti umani, tanto da preferire passare il tempo in giro per musei oppure in casa, dove riproduce copie di opere classiche. La materia narrativa è parca e monotona, così come la vita del copista, ma è in questa attenzione per la banalità e nelle piccole inconsuete fratture che ne smuovono il precario equilibrio che Gijesemans, con straordinario acume, incastra le sue riflessioni.

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Come si diceva, la sequenza iniziale è emblematica. Gijesmans distrugge l’opera di Constant Montald – La Fontaine de l’inspiration – suddividendola in piccole vignette che descrivono il moto dello sguardo di Hubert. Sin da subito vengono mostrate le carte in tavola. L’intento non è quello di parlare della solitudine, ma di riflettere, attraverso l’assorto silenzio del protagonista, la differenza di uno sguardo sul mondo. Una prospettiva che diventa uno strumento per scandagliare il rapporto tra arte e narrazione.

Si può dire che l’immagine – in questo caso un dipinto che supera, con la cornice, una superficie di 25 metri quadri – venga letta? Nella contemplazione di un quadro spesso si intersecano diversi momenti: dall’intuizione totale alla sua lettura nel senso classico – da sinistra verso destra – attraverso una scansione ritmica ormai prepotentemente radicata nella nostra esperienza di lettori. Hubert non coglie la totalità, ma – quasi in maniera autistica – si sofferma sul particolare, ne è attratto, estasiato, rapito. Lo sguardo dell’attempato pittore vaga con una logica tutta sua, che confligge con le regole di composizione e narrazione per scovare un attimo in cui raccogliersi.

La scomposizione dell’opera di Montald è atipica, poiché descrive uno sguardo che non ha necessità di relazionarsi con l’opera come se fosse la prima volta o se volesse leggerla, cercando di seguire le trame di quanto narrato attraverso l’attimo. Il lettore segue nella scansione della griglia lo sguardo di Hubert che si allarga a mostrare una porzione più ampia dell’opera. La decostruzione dell’immagine genera nelle intenzioni di Gijsemans una narrazione.

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Questo tipo di griglia, con la sua particolare tensione temporale, contrasta sensibilmente con quella a nove celle scelta per raccontare la monotona quotidianità di Hubert. Il tratto di Gijsemans è fortemente realista, nonostante tenda a connotare i protagonisti con un segno caricaturale. L’autore dimostra di aver acquisito la lezione della ligne claire, con un’attenzione meticolosa agli interni e alle architetture tipica di figure come Van Dongen o il Floc’h di Une Trilogie anglaise. La texture e la paletta cromatica, netta e precisa come nella migliore tradizione franco-belga, introducono un elemento di “novità”, ricordando l’espediente retrò usato da Oliver Schrauwen in Il mio bimbo (unica opera edita in Italia; il capolavoro del 2014 Arsène Schrauwen, invece, nisba).

Infatti, nonostante l’ambientazione urbana – il cui caos è tenuto fuori dalla tavola, tranne rari momenti – Hurbet sembra quasi cozzare con la contemporaneità, grazie a precise scelte cromatiche e a una gestione plastica della figura che deriva direttamente dalle tavole di Winsor McCay e Garrett Price. Tutti questi elementi creano un senso di spossatezza e lentezza, in alcuni punti tali da allungare a dismisura il tempo di lettura, nonostante l’assenza di apparati verbali. L’inquietudine e la lenta monotonia di Hubert si riverberano anche sui tempi di lettura.

Lo stile di Gijsemans potrebbe essere erroneamente accostato a quello contemplativo del Taniguchi de L’uomo che cammina o di un’opera tarda e, per chi scrive, inutile come I guardiani del Louvre. Ma siamo da tutt’altra parte. Se in Taniguchi il tono emotivo fondamentale resta la nostalgia, che colora di sfumature romantiche e patetiche la figura del flâneur, Hubert è invece agli antipodi del bighellone parigino immortalato negli scritti di Walter Benjamin. È un accumulatore seriale del solito, un entomologo della realtà: ritaglia e riproduce nel suo studio lacerti. In maniera meticolosa e pedante, Hubert riproduce figure femminili in maniera onanistica.

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Le sue Madonne strappate alle opere di Quinten Metsys o di Francesco Albani sono surrogati del suo desiderio carnale inespresso. A un certo punto anche le opere sembrano irretirlo e biasimarlo per una tendenza quasi patologica al voyeurismo. La sua è una forma di controllo quasi ossessivo-compulsiva, una forma di protezione dal mondo reale. Beccato a fotografare una vicina per usarla come modello, Hubert sperimenterà un senso di straniamento e perdita.

Il messaggio semplice dell’opera viene veicolato attraverso un dispositivo strano che sembra quasi far deflagrare la nozione cara a Eisner e McCloud di fumetto come arte sequenziale: anzi, a un certo punto, il messaggio di Gijsemans diventa esplicito. In un assonnato pomeriggio, mentre sorseggia un tè, Hubert guarda un vecchio film muto di Charlie Chaplin. La sequenza riprodotta è quella celebre della casa penzolante sull’orlo di un burrone tratta da La febbre dell’oro, del 1925. Sebbene la materia narrativa sia trattata nella stessa identica maniera, c’è un distanza tra la sequenza filmica e la vita di Hubert: da un lato, nonostante siano una sorta di cristallizzazione, le vignette hanno un moto uniforme di lettura e scorrono velocemente, perché rimandano a un tempo di fruizione diverso: bloccano il tempo e rendono “muti” i frame intrappolati sul piccolo televisore che fa compagnia al nostro protagonista.

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All’interno di una storia banale così come il suo imbranato protagonista, Gijsemans indaga quelle che sono le strutture del sistema fumetto. Le sezioni di Hubert sono un tentativo di inserire dei particolari esulati dal tutto in un dispositivo di fruizione più ampia. Il particolare rubato al suo contesto e inserito a forza come elemento di due diversi piani – quello del point-of-view del protagonista e quello del dispositivo narrativo – è un tentativo di esporre i codici all’opera, mostrando così l’estrema peculiarità del fumetto (distinguendolo tanto dall’opera d’arte pittorica quanto dal cinema).

Come ricorda Thierry Groensteen nel suo Il sistema fumetto:

Che si tratti della sua produzione o della sua lettura, l’immagine fumetto non è dunque quella del pittore. Il senso di questo lavoro sarà quello di cogliere e analizzare ciò che, tra l’immagine fissa unica (quadro o illustrazione) e l’immagine animata, appartiene intrinsecamente alle immagini fisse sequenziali.

In un fumetto «c’è un mormorio dei segni afoni (proprio come c’è un brulichio dell’immobile) dietro queste vignette sapientemente allineate», come ha detto Pierre Fresnault-Deruelle. Gijsemans si dimostra, pertanto, un narratore consapevole dei codici del fumetto, ci gioca e cerca di creare un’opera che funziona come un saggio teorico, mostrando questi stessi codici e il loro funzionamento nello scorrere pigro di una storia volutamente oziosa e abulica.

Hubert
di Ben Gijsemans
Dargaud, 2016
88 pagine a colori, € 19,99

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