La storia dietro “L’uomo senza talento”, il manga dell’io di Tsuge Yoshiharu

Pubblicato tra il 1985 e il 1986 sulle pagine di COMIC Baku, L’uomo senza talento (Munō no hito, questo il titolo in giapponese), recentemente editato in Italia da Canicola nella bella e limpida traduzione di Vincenzo Filosa, è senza ombra di dubbio l’opera più rappresentativa della maturità artistica di Tsuge Yoshiharu.

L'uomo Senza Talento Yoshiharu Tsuge

Tsuge è una figura di valore, oserei dire “imprescindibile” per l’evoluzione del manga, pur se quasi totalmente sconosciuta ai più. Nel saggio Storia del fumetto giapponese (Musa, 1998), la studiosa Maria Teresa Orsi lo presentava così:

Nato a Tōkyō, Tsuge trascorre i primi anni a Ōshima, una delle sette isole di Izu: il paesaggio marino, legato ai momenti dell’infanzia e alla presenza del padre e dei fratelli, avrebbe costituito non solo uno dei suoi primi richiami ma anche il soggetto di molti suoi disegni. Trasferitosi nella capitale durante gli anni di guerra, e rimasto orfano di padre, il ragazzo frequentò saltuariamente la scuola, iniziando nel 1948 un complesso itinerario come apprendista in piccolissime e malsane officine di galvanostegia; l’esperienza di quel tempo – compresi gli avvelenamenti, le malattie respiratorie e le penose condizioni di vita degli operai – riaffiorerà più volte nelle sue opere.

Successivamente fu impegnato in piccoli lavori saltuari, mentre si avvicinava ai gruppi di giovani disegnatori di fumetti; dopo un lungo e faticoso periodo di tirocinio e tentativi per entrare nel mondo dell’editoria, riuscì a collaborare, senza troppo successo, alla rivista Meiro, che veniva distribuita attraverso i kashihonten. Fondata nel 1958 a Tōkyō, sull’esempio di Kage e Machi, nate rispettivamente a Ōsaka e Nagoya, (…), Meiro si presentava con maggiori pretese di raffinatezza ed impegno intellettuale, rispetto alle sorelle di provincia. Nel dicembre del 1958, sul secondo numero, ospitò anche un breve racconto di Tsuge, Aru hitoya («Una certa notte»).  Svolto senza elementi superflui, stringato, essenziale e quasi privo di dialoghi, Aru hitoya evidenziava alcuni caratteri che sarebbero rimasti inalterati nelle opere più mature dell’autore: la malinconia della vicenda, la dimessità delle situazioni e dei gesti, il sostanziale senso di inutilità che permea la storia.

Tutti gli elementi poco sopra evidenziati da Orsi si riscontrano anche in L’uomo senza talento, terzultima opera realizzata da Tsuge prima del suo definitivo allontanamento dal mondo del fumetto. La sua produzione artistica può essere grossomodo suddivisa in tre periodi: gli esordi con i negozi di libro a prestito e le storie realizzate per riviste di bambini (1954-1964); il periodo come assistente di Mizuki Shigeru e la popolarità raggiunta su Garo (1965-1972); la maturità con racconti velatamente autobiografici, ricchi di riferimenti al suo malessere interiore e ai suoi sogni (Yume no sanpo, 1972). Il commiato dai suoi lettori avviene nel 1987 con un racconto dal titolo emblematico: Betsuri (Separazione).

Quando si parla di Tsuge Yoshiharu si fa spesso riferimento ad alcuni lavori pubblicati sulle pagine di Garo, storica rivista fondata nel 1964 da Nagai Katsuichi. Si tratta di una serie di racconti brevi – astratti, psichedelici, introspettivi, inquietanti, malinconici – che ancora oggi vengono riconosciuti come i suoi lavori più rappresentativi: Numa (La palude, 1966), Chīko (Chīko, il fringuello di Giava, 1966), Hatsutakegari (A caccia di funghi, 1966), Ri-san ikka (La famiglia del signor Li, 1967), Akai hana (I fiori rossi, 1967) e Nejishiki (La chiavetta, 1968).

nejishiki yoshiharu tsuge
Una tavola da “Nejishiki”

Quali possono essere stati i motivi del suo ritiro? Realizzare mensilmente racconti sulle 20/30 pagine era forse la condizione lavorativa migliore per Tsuge, non solo in termini di qualità del lavoro, ma soprattutto di tempo a disposizione per ideare e creare una storia. Con l’avvento delle riviste settimanali, cambiavano però anche i ritmi e le esigenze degli editor: in altre parole, un fumettista avrebbe dovuto realizzare più storie nel minor tempo possibile.

Tsuge iniziava ad avvertire un senso di rifiuto nei confronti degli shimekiri (scadenze di consegna), tanto da affermare in un suo scritto che «non esiste al mondo cosa più paurosa delle scadenze». Tre giorni prima della consegna, veniva sempre colto dagli stessi sintomi: mancanza di appetito, senso di disperazione e di rifiuto nei confronti di ogni cosa. «Il giorno della consegna» aggiunge Tsuge, «ero completamente pazzo». Pallido in viso, digiuno e senza aver dormito, Tsuge avvertiva dolori allo stomaco e si sentiva quasi prossimo alla morte. Al momento della consegna, continuava a sentirsi male sapendo di aver già accettato un altro lavoro.

Questo stile di vita lo turbava e lo rendeva sempre più preda di ansie e paure. Così, dal 1972 al 1987, Tsuge decide di continuare a scrivere storie autoconclusive o in pochi episodi, realizzate però in tempi per lui più congeniali. Nel mentre, cercava di “vivere” alla giornata, viaggiando con la famiglia, ideando nuovi progetti di attività commerciali e, soprattutto, facendo i conti con le sue continue crisi esistenziali.

In quindici anni realizzerà una trentina di racconti cui vanno aggiunti i sei capitoli de L’uomo senza talento, un’opera giustamente identificata come un watakushi manga (manga dell’io). Si tratterebbe di una rivisitazione in chiave fumettistica dello shishōsetsu o watakushi shōsetsu (romanzo dell’io), una narrazione in cui confluiscono elementi della vita personale dello scrittore nella “presunta” finzione letteraria.

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Da “L’uomo senza talento”

Leggendo i sei capitoli de L’uomo senza talento riusciamo tranquillamente a sovrapporre la vita di Tsuge a quella del suo personaggio, triste, malinconico, bistrattato dagli affetti più cari e isolato dal mondo. Un personaggio che, come per altri descritti da Tsuge, sembra essere animato da particolari sentimenti e da un rapporto quasi conflittuale con la società. Per Orsi, descrivere i personaggi di Tsuge soltanto in termini di “malinconia” sarebbe errato, perché la “malinconcia” si collega sempre ad altri aspetti della loro vita come «l’asocialità, il timore dei rapporti con gli altri, l’inutilità delle azioni quotidiane, e ancora e soprattutto l’isolamento dell’individuo».

Attraverso un esplicito rifiuto della menzogna, Tsuge si ritrova “nudo” davanti ai suoi lettori, alle prese con una disperata, quanto difficile e autentica, rivelazione del suo io più profondo. Per capire quanto di “personale” ci sia in quest’opera, varrebbe la pena di presentare alcune considerazioni scritte dall’autore al momento della pubblicazione di cinque dei sei capitoli. Raccontare, quindi, la genesi di queste storie attraverso ricordi, impressioni o semplici annotazioni.

Ne sintetizzo brevemente i contenuti:

• Vendo pietre.

L’idea per questo episodio nasce durante una piccola escursione presso il fiume Tama. Nonostante il freddo e il vento, Tsuge si imbatte in un vecchietto intento a raccogliere pietre. I due iniziano a parlare e Tsuge scopre qualcosa sulla vita di quell’uomo che, da più di quarant’anni, raccoglie e colleziona pietre. Questo suo esoso hobby lo aveva portato a setacciare i greti di settanta fiumi sparsi in tutto il Giappone. Perché spendere tutti questi soldi soltanto per cercare delle pietre? Dove sta il guadagno? Se è vero che queste pietre si vendono a caro prezzo nei grandi magazzini, allora perché, si domanda Tsuge, i cercatori di pietre e i collezionisti che partecipano alle aste hanno sempre quell’aria afflitta, triste e da uomini ridotti in miseria?

• L’uomo senza talento.

Nel maggio del 1985, Tsuge decide di trascorrere una giornata a Okutama in compagnia della famiglia. L’ultima volta che ci era stato risaliva all’agosto del 1966. Erano passati diciannove anni da allora, ma la bellezza del posto era rimasta intatta. Tsuge si era commosso di fronte a tanta bellezza e ne era quasi sopraffatto.  Sulla strada del ritorno, però, Tsuge deve fare i conti con la moglie – con la quale non fa altro che litigare – e con un piccolo incidente con la macchina. Eppure, Tsuge non riesce a non pensare alla parte più bella di questo viaggio: la passeggiata che attraversava i boschi e le gole nei pressi della stazione di Mitake. Quando si era messo alla ricerca di qualche pietra, si era sentito dire dalla moglie: “Trovane qualcuna decente, così ci paghiamo un albergo!”. Alzatosi improvvisamente il vento, Tsuge se ne era tornato a casa senza aver raccolto neanche una pietra.

• Il signore degli uccelli.

Nel 1985, Tsuge compiva 48 anni. Sebbene non volesse invecchiare, si apprestava, con un po’ di rammarico, a familiarizzare con persone più grandi di lui. Ciò che più lo affascinava di tutto questo, era il poter conoscere da vicino l’animo degli anziani. E per farlo, avrebbe dovuto far finta di interessarsi alle pietre, di condividere con loro questa passione. Più gli anni passavano, più Tsuge si accorgeva di quanto fosse per lui difficile lavorare stando seduto davanti a una scrivania. Si stancava subito, perdeva interesse e voglia: disegnava due/tre vignette, poi si stendeva per riposarsi un poco. E continuava così per tutta la giornata. Così facendo, però, riusciva a realizzare al massimo una/due tavole al giorno. Il progetto del terzo capitolo prevedeva 36 pagine, realizzate in 28 giorni. Invecchiare significava anche questo? Tsuge sembra rimpiangere i tempi passati quando disegnava più velocemente o quando dava una mano all’amico Mizuki Shigeru in qualità di assistente.

• In cerca di pietre

Il volto della moglie del protagonista non compare mai nei primi episodi: Tsuge la ritrae sempre di spalle, pronta a schernire e a umiliare il marito. Perché Tsuge non le da un volto? Non c’è in realtà un motivo preciso. A Tsuge non andava di disegnarlo. Tutto qui. In questo quarto episodio, però, non poteva non disegnarlo, altrimenti la storia sarebbe sembrata illogica, quasi innaturale.

I problemi di salute iniziano nuovamente a farsi sentire durante la realizzazione di questo episodio: forti tremore alla mano, stati d’ansia, insicurezze sul proprio lavoro. Tsuge rivela che questi sintomi – così come la mancanza di fiducia in se stesso –  lo accompagnano da tempo, non solo quando disegna manga, ma anche in altri momenti della giornata.

• Svanire.

Nel progetto iniziale, questo capitolo si sarebbe dovuto comporre di due parti: la prima doveva essere incentrata sul tema dello “svanire”, sull’uomo che decide di allontanarsi dalla società e dal mondo che lo circonda. Abbandonare tutto e svanire nel nulla.

Il progetto, però, prende una strada diversa e Tsuge sintetizza in un’unica storia alcuni elementi che avrebbe voluto sviluppare su più pagine. La storia e le leggende legate al poeta Inoue Seigetsu, vengono riprese a piene mani dal volume curato da Takatsu Saijirō. Come per il protagonista del racconto, anche Tsuge non conosceva affatto l’esistenza di quel poeta eremita.

***

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Da “L’uomo senza talento”

Leggendo queste piccole annotazioni è oltremodo facile riuscire a estrapolare gli elementi della vita dell’autore sovrapposti alla “finzione letteraria”: i continui battibecchi con la moglie; i viaggi; gli incontri; le fallimentari imprese commerciali; il passato da fumettista; il presente in bilico tra timore e angoscia; la voglia di allontanarsi da tutto e tutti. Un po’ come Seigetsu, il vecchio poeta errante.

L’uomo senza talento è una sintesi perfetta della poetica di Tsuge, essenziale, spoglia, diretta. Una scrittura-confessione in cui si intrecciano frustrazioni e aspirazioni negate, solitudine e isolamento. Un protagonista consapevole della propria mediocrità, reietto di una società che sembra deriderlo ed escluderlo.  Lui stesso ne è consapevole, soprattutto quando si paragona a una pietra del fiume Tama: «Le pietre del Tama non compaiono in nessun libro. Non so quanto valgono. È strano, ma non ne ho mai vista una nei negozi specializzati ai grandi magazzini. Sono come me… non le nota nessuno».

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