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Planetary di Warren Ellis e John Cassaday, un tour guidato nella cultura pop

Piccolo disclaimer prima di iniziare: questo articolo contiene un sacco di riferimenti vaghi a quello che succede nel fumetto. Di solito non ho grossi problemi ad andare nel particolare, fregandomene abbastanza di svelare o meno l’andamento della trama. Questo perché chiunque abbia letto più di un pugno di libri nella sua vita dovrebbe essere in grado di sfuggire senza troppi patemi all’ansia da spoiler. Bene o male, come si mettono le cose lo si capisce quasi sempre alle prime battute di ogni racconto. Quello che conta davvero è come il narratore decida di farci arrivare alla conclusione. In Planetary invece il gusto della scoperta è parte integrante dell’idea creativa che lo anima, quindi proprio non ci sono riuscito a mettere tutto nero su bianco. Detto in altre parole: preparatevi a un sacco di roba fastidiosa del tipo “si vede un tizio che fa una cosa”. Per questa volta, così va la vita.

1999. Come al suo solito Warren Ellis è in piena grafomania. Scrive Transmetropolitan, Hellblazer, The Authority, Strange Kiss, Bad Signal. Sembra tanta roba, ma è già un lustro buono che l’inglese sceneggia a ritmi disumani per chiunque glielo chieda. Nel 1994, a soli ventisei anni, prende le redini dell’universo 2099 di casa Marvel e lo ribalta a suo piacimento. Poi passa alla Wildstorm dove, prima dei trenta, piazza un paio di serie abbastanza memorabili. Nel frattempo non si nega a nessuno e sul suo monitor passano anche lavori puramente alimentari – il tie-in di Starship Troopers – o toccate e fughe del tutto estemporanee come sulle pagine di Vampirella. Quindi niente di strano per lui nell’avere tutti quei titoli aperti.

Leggi anche: Ascesa e caduta di The Authority, da Warren Ellis a Mark Millar

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A questi infatti aggiunge subito, dopo un numero in anteprima pubblicato nel settembre 1998, Planetary. Forse il lavoro più complesso del mazzo, quello che va a sfidare direttamente i giganti del revisionismo del supereroe sul loro campo da gioco. Non pago della situazione spinosa in cui si è ficcato con le sue stesse mani, lo scrittore inglese si complica ulteriormente la vita e gestisce il lancio della nuova serie in maniera a dir poco spericolata.

I primi numeri della sua nuova creazione sono una sorta di lunghissima, frastornante, gratuita e spesso frustrante introduzione a quello che sarebbe arrivato da lì a poco. I personaggi sono poco più che macchiette, per nulla carismatici (tanto per capirci uno dei protagonisti parla con le macchine, ma siccome gira sempre con delle bacchette da percussionista in mano lo chiamano The Drummer), mentre le sceneggiature si susseguono vacue. Si percepisce la presenza di un disegno più grande, ma l’insieme è davvero troppo slegato per avere presa.

Ogni uscita è costruita attorno a un genere diverso – dal kaiju eiga all’heroic bloodshed di Hong Kong, passando per chiari omaggi alla British Invasion della Vertigo – e spesso si conclude in fretta e furia. Sembra di avere tra le mani un bigino di quell’immaginario pop con aspirazioni d’élite costituito da tutta l’evasione che non passava dai multisala o dai mediastore ultrageneralisti.

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Per essere divertente è divertente, ci mancherebbe. Il gusto di vedere come Ellis avrebbe reinterpretato in chiave pseudo-realistica una nuova variante del fantastico di nicchia bastava per rendere la lettura di questi primi numeri una sorta di divertissment per iniziati. Aspetto con cui, tra le altre cose, l’autore ha sempre giocato parecchio. Vedi l’episodio Setting Sun di Hellblazer, praticamente un remake del film Men Behind The Sun di Mou Tun-fei. Oggi lo si trova caricato su YouTube, ma all’epoca era il classico film maledetto recuperabile solo attraverso oscuri scambi di videocassette duplicate in casa. Sapere che un autore lo omaggiava apertamente in una serie popolare-ma-non-troppo ti faceva sentire parte di un club esclusivo, proprio come quando lo stesso Ellis ti rispondeva direttamente scrivendo dal suo forum.

In ogni caso, nella prima parte della serie c’è ben poco oltre a questo autocompiacimento. Ci sono il solito John Cassaday che unisce realismo e colpo d’occhio da kolossal, i dialoghi scolpiti nelle pietra, le pose da duri e le consuete esagerazioni messe lì a titillare l’eterno adolescente in noi. Tutto qui. Poi qualcosa cambia, uno dei personaggi trova la sua posizione e la trama incomincia a ingranare davvero. E Planetary diventa Planetary.

L’aspetto supereroistico dei protagonisti diventa ancora più gratuito e fastidioso, mentre la loro vera essenza – rimarcata più volte da loro stessi – viene a galla. Anche se si vestono come dei pagliacci in costumi imbarazzanti, in realtà si tratta di archeologi. Ricercatori dell’impossibile impegnati a raccogliere e schedare informazioni su tutte le stranezze di questo mondo. Eventi bizzarri di cui avreste potuto sentire qualcosa anche voi.

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Per esempio si parla di quattro astronauti ritornati da una spedizione cosmica totalmente cambiati, oppure di super-investigatori inglesi, di ricchi annoiati impegnati a combattere il crimine, di enormi formiche a spasso nei deserti statunitensi, di giustizieri a cavallo che sparano solo per ferire, di amazzoni, di vampiri, di scienziati avventurieri dal corpo da atleti olimpionici, di spie infallibili. Leggere Planetary è come farsi un tour guidato nell’escapismo narrativo dalla fine del 1800 a oggi, ma con una grossa differenza in confronto a gran parte delle opere post-moderne che arrivavano sul mercato. Rispetto al consueto art’s for art sake e agli infiniti giochini-meta che ne sono derivati, Ellis ribalta la prospettiva e si mette a giocare con il reale.

Nell’immaginazione dello scrittore noi viviamo in un multiverso a forma di fiocco di neve frattale, composto da un numero esagerato di dimensioni bidimensionali dove gli abitanti hanno l’illusione della tridimensionalità. Quando si incomincia a parlare di questi argomenti Planetary cambia radicalmente e la situazione si complica in maniera folle. La narrazione si fa frammentata, i testi si allungano a dismisura arricchendosi di un lessico via via più complesso, le pose da pupazzetto in pvc sono sostituite dal tipico pragmatismo badass dell’autore. Quelli che abbiamo davanti sono scienziati, ricercatori, gente ben più intelligente di noi.

Allo svelamento di questa cosmogonia segue un numero sempre più importante di riferimenti a volumi, libri, pagine. Parlando di un personaggio scomparso dal suo piano della realtà il protagonista se ne esce con un «È probabile che ora viva in altre storie, che si sia infilato tra le pagine». La stessa organizzazione Planetary si occupa di compilare ogni anno un tomo in cui registrare tutti gli eventi bizzarri dei dodici mesi appena passati. Tutta la presunta tridimensionalità del nostro mondo viene compressa in quelle pagine, ridotta alle due dimensioni che il grande fiocco del multiverso ci concede. Ma se una superficie piatta può contenere una vita dotata di profondità come la nostra, cosa può impedire che succeda la stessa cosa nei monitor su cui godiamo di serie TV in streaming o nelle pagine dei volumi infilati nelle librerie di milioni appassionati lettori? È forse questo il motivo per cui nel mondo di Planetary storie tipicamente considerate bidimensionali dimostrano invece di essere dotate di uno spessore impossibile da ignorare? Dove finisce un universo e dove ne incomincia un altro?

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L’intersezione tra realtà e finzione ha una numero spaventoso di possibili interpretazioni. Grant Morrison ama raccontare di come, mentre scriveva The Invisibles, vi era «cosi connesso da produrre effetti voodoo olografici e far accadere roba (nella realtà) solo scrivendone». E a questa cosa ci credeva tanto da spiegare in questo modo un suo ricovero in ospedale e la conseguente dimissione («Poi il protagonista è morto e, nel giro di pochi mesi, sono finito all’ospedale per via di un avvelenamento del sangue e un’infezione da staf aureus. Mentre stavo morendo, ho tirato fuori dai guai il mio personaggio e in qualche modo sono sopravvissuto»).

A sua volta, parlando del suo Batman psicotronico, lo scrittore ci ricordava come «il mondo reale è un luogo abbastanza strano dove molte cose inspiegabili succedono per tutto il tempo. […] Il mondo reale è pieno di storie di fantasmi, di non sequitur, di misteri inspiegabili, di morti e di assurdità, e penso che sia bello condire le nostre comode fiction con almeno un po “di sapore di ciò che è l’autentica realtà”». Questi ragionamenti fanno di Planetary probabilmente il lavoro più morrisoniano tra quelli non scritti da Morrison – e infatti un numero è dedicato direttamente a lui – ma Ellis si distanza in fretta dalla filosofia da sciamano dello scozzese per rifugiarsi nel suo consueto amore per la scienza più visionaria e speculativa.

Anche in questo caso abbiamo un sacco di esempi tra cui scegliere per dimostrare come certe sue intuizioni siano ben più radicate di quanto si pensi. Nick Land della Cybernetic Culture Research Unit spiegava come l’idea di cyberspazio fu introdotta da William Gibson nel suo Neuromante (1984). Prima non esisteva nulla del genere. Basandosi su un’idea contenuta in un racconto di finzione, molta gente ha cominciato a lavorarci, e adesso quella visione nata da un libro di fantascienza è nella nostra realtà, costituendone parte integrante. Anche limitandoci alla nostra esperienza è chiaro come una storia non sia solo un foglio stampato, qualche fotogramma o un pugno di linee di codice. Assorbire narrazioni fittizie di ogni forma ci influenza e ci plasma nel mondo reale. Modifica il nostro modo di pensare e forse rischia perfino di renderci persone migliori.

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Ellis celebra questa cosa creando a sua volta una narrazione piena di speranza e di senso di meraviglia, in totale controtendenza con il cinismo del post-moderno. Non omaggia banalmente, ma dimostra che ogni storia esiste solo in funzione di tutte quelle venute prima e di quelle che verranno. In questo senso la sua sceneggiatura funziona alla perfezione, dando un senso a tutto – anche ai primi numeri che così poco mi erano piaciuti – prima della chiusura dell’ultimo arco narrativo.

A dare forma a questa serie di complessi ragionamenti abbiamo il texano John Cassaday, chiamato a giocare letteralmente con il fuoco. Planetary è una di quelle serie dove ogni disegnatore è sbagliato: se la pensi interpretata da qualche visionario alla J.H. Williams III ne uscirà quasi per certo un pasticciaccio kitsch dove l’aspetto terreno e tangibile viene completamente meno e il senso generale ne è così completamente stravolto. Se, in tutta risposta, cerchi di fare completamente a meno dell’aspetto immagnifico spingendo sul realismo nudo e crudo, finisci per tradire la sceneggiatura in un altro modo. Come uscire da un simile cul-de-sac? Mettendo su carta un immaginario senza limiti, disegnato però in maniera più realistica possibile. Ci voleva qualcuno nato e cresciuto nella parte più pragmantica degli Stati Uniti per arrivare a una soluzione simile.

Scherzi a parte, su queste pagine Cassaday esplode letteralmente e riesce a dare forma e sostanza a ogni delirio di Ellis. Il suo non è un tratto particolarmente ricco di personalità, di quelli che si infilano tra gli interstizi della scrittura per dire la loro a ogni costo. Non piega la narrazione alle sue esigenze di illustratore, ma è forse uno dei registi più efficaci del fumetto seriale statunitense. Spettacolare come pochi nelle scene più concitate, risulta sempre diretto e leggibile in ogni passaggio, limitando gli eccessi barocchi ai momenti in cui vengono giustificati dalla trama.

Anche nelle lunghissime sequenze di dialogo non si risparmia e infila sempre la giusta quantità di dettagli nella vignetta, evitando che il lettore si concentri solo sui testi come succede di solito. Ci sono un paio di passaggi – tra cui la visita a un’enorme astronave alla deriva nello spazio – che sono di una potenza incredibile, senza mai perdere di vista la direzione artistica di tutta la serie. In particolare, la rilettura di un noto personaggio Marvel in questa chiave così concreta ne svela tutta la sua essenza grottesca, in risposta a quattro decadi di ingentilimento coatto.

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A fare da contraltare a tanta gloria mi risulta ancora strano, seppur a distanza di anni, che un interprete di tale caratura non sia riuscito a dare una migliore lettura del design dei protagonisti, forse la cosa più scialba di tutta Planetary. In tutta sincerità penso che sia l’ambito supereroistico in cui prende piede tutte la vicenda a influenzarne il lavoro in chiave negativa. Senza l’obbligo di tutine o divise avrebbe sicuramente saputo muoversi meglio. Questo rimane comunque uno dei pochissimi errori di un disegnatore che ha dimostrato di avere le spalle abbastanza larghe da sorreggere uno dei lavori più complessi di uno sceneggiatore di per sé non proprio banale.

Il controllo della materia portato avanti da Cassaday è assoluto e non c’è mai un minimo accenno di autocompiacimento. Pensate che robaccia ne sarebbe uscita se gli fosse passato per la testa di interpretare ogni episodio in uno stile diverso, tanto per rincorrere la sceneggiatura. Meglio lavorare su piccoli accenti, in maniera tanto discreta quanto elegante, in modo da non minare mai la compattezza di un titolo già di per sé fragile come un castello di cristallo.

Sceneggiatura geniale e interpretazione grafica blindata, ecco gli ingredienti per una delle migliori serie uscite a cavallo tra i Novanta e gli anni Zero. Oltre a, naturalmente, un amore sconfinato per le storie e il loro incredibile potere. Una ricchezza da sempre alla portata di mano di chiunque. Come ci ricordano i protagonisti di Planetary ora, a più di dieci anni dalla sua conclusione, sta a noi portare avanti la missione. Dobbiamo fare in modo che questo patrimonio infinito sia preservato, conservandolo nei nostri ricordi e non perdendo mai l’occasione di buttarci in nuove avventure. Vere o finte che siano.

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