De Crécy o la ricerca dell’umile (fumetto) nell’arte

Un romanzo a fumetti di viaggio, anzi doppiamente di viaggio, eppure in qualche modo statico. Prima Tokyo, capitale del Giappone, e poi Recife, grande metropoli del Brasile. La finzione e l’autobiografia, l’interrogazione della dimensione intima e il lavoro su commissione, il graphic novel e il reportage di viaggio e poi ancora quest’ultimo che scivola nel taccuino di viaggio a sua volta declinato in un agglomerato di riflessioni sul mondo circostante che diventano – infine – pensieri critici da artista-intellettuale che sembra sia concettualizzare che trasfigurare il divenire delle cose, compresa la stessa creazione artistica. In maniera preveggente, oltretutto.

Quella dell’artista-intellettuale è una casistica di autori ancora troppo poco presente nel fumetto rispetto ad altri mezzi d’espressione per non essere messa qui in evidenza. In breve, un romanzo a fumetti strutturato con due approcci grafico-narrativi che corrispondono a due climax quasi antitetici che pur collidendo tra loro in definitiva coabitano e cooperano. Una dualità che finisce per delinearsi come unitaria.

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nicolas de crécy diario di un fantasma

Uscito in Francia esattamente dieci anni fa, nel 2007, Diario di un fantasma del francese Nicolas De Crécy, il libro di cui stiamo parlando, con il senno di poi ci pare il titolo a fumetti più importante pubblicato in un estate dalle tante uscite di alto livello. Il merito spetta alle edizioni Eris. Un merito doppio il loro perché hanno portato in Italia un autore ormai acclamato da tempo nel proprio paese pubblicandolo con continuità.

Riconosciuto da tempo ma poco edito in Italia, dopo una fugace apparizione diversi anni fa con il suo libro d’esordio (Foligatto su sceneggiatura di Alexios Tjoyas, pubblicato a puntate sulla rivista Il Grifo) e la trilogia di Leon la came (tradotto come Leon lo Strambo e pubblicata a puntate su Comic Art) su sceneggiatura di Sylvain Chomet, successivamente regista di film d’animazione come Appuntamento a Belleville (2003) che devono molto all’universo e all’estetica di De Crecy.

Il respiro del disegno e il ruolo dei formati editoriali

Eris, in un secondo momento, ha ampliato i formati forse eccessivamente ristretti usati per la trilogia del Celestiale Bibedum uscita nel 2015 in un volume singolo (trilogia di cui auspichiamo, in futuro, una riedizione in grande formato su carta patinata, complementare all’attuale edizione, che permetta di meglio coglierne la vera e propria esplosione di estetiche e colori) come nel caso di La Repubblica del Catch (dal formato leggermente più alto dell’originale) il libro più recente di De Crécy, uscito in Francia nel 2015 e tradotto nel 2016.

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“La repubblica del Catch”, di De Crécy

Si tratta di una decisione editoriale importante perché il fumetto, che sia romanzo per immagini fisse oppure poesia sequenziale sempre a immagini fisse, esplora anche il linguaggio del disegno. Mezzo d’espressione visivo-sequenziale, il fumetto permette di contemplare il disegno nella sua fissità, di contemplarlo nella sua intrinseca bellezza che si sprigiona al meglio grazie anche a questa fissità. Una bellezza che ha bisogno di respirare.

Ci sono autori il cui segno grafico non perde le qualità che gli sono proprie nel passaggio dal grande formato a un formato più ristretto: l’Igort di Fats Waller, per esempio, funziona molto bene in entrambi i formati. Ci sono invece autori dove alcune qualità del segno si perdono, del tutto o parzialmente, ma altre vengono messe in valore. Qualcuno addirittura prende il suo senso pieno soltanto nel piccolo formato: lo Spiegelman di Maus.

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“Prosopopus”, di De Crecy

Tendenzialmente, però, moltissimi autori, anche quelli dall’approccio più minimale, hanno bisogno che il tratto grafico, spesso fin nei suoi movimenti interni, respiri, si ossigeni. Senza dimenticare come questa sinfonia dei movimenti del segno, piccoli e grandi, trovi la sua articolazione all’interno della contemplazione plastica globale della tavola (o, se si preferisce, della tabularità) che il lettore recepisce con un colpo d’occhio, ma non di rado in maniera invece subliminale, senza dargli consciamente importanza nell’apprezzamento della dimensione visiva.

Se tocchiamo questo discorso, però, non è soltanto per attenzione alla qualità dell’edizione – una questione comunque importante che più il mercato del fumetto in libreria si amplia e più sarà inevitabile porre – ma perché verte anche sulla fruibilità del libro di De Crécy.

Densità dello schizzo, fluidità della lettura

Diario di un fantasma nella prima parte, quella in Giappone, soffre un po’ di una qualche inutile lentezza nel découpage, accentuata dalla trama del lettering, un po’ smussata nell’edizione italiana, che ha come qualcosa di “mosso”, elettrico, rendendo inutilmente faticosa la lettura.

Certamente il lettering volutamente rispecchia l’approccio grafico elettrico, fuligginoso, da schizzo-schizzato potremmo dire, che vuole essere l’antitesi del liscio e del levigato del pop giapponese. Forse, però, un contrasto nitido tra il disegno e un lettering avrebbe giovato alla forza espressiva dell’opera.

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“Diario di un fantasma”, di De Crécy

Non sempre le regole di leggibilità del fumetto popolare vanno accantonate. Se le difficoltà sono dovute a simbologie, metafore o a tecniche grafiche e di narrazione che dopo aver provocato un iniziale disorientamento nel lettore accrescono invece i significati dell’opera e la sua forza espressiva, questo rappresenta un fatto positivo.

Di contro, avere semplicemente difficoltà o addirittura male agli occhi nel leggere il testo, non solo non accresce il senso dei contenuti ma anzi ne attenua la forza per il semplice motivo che la mente del lettore non viene impegnata a cercare di interpretare ma semplicemente a leggere, a decifrare i caratteri che, in quanto tali, non hanno nulla da rivelare.

Per quanto riguarda invece il découpage, la narrazione a tratti accumula in eccesso dati e informazioni quasi come una lista della spesa, senza che nulla venga a vivacizzare l’insieme. Anche qui, un po’ della leggerezza del montaggio della tavola del fumetto non solo popolare ma propria alla tradizione del fumetto nipponico avrebbe giovato al Diario.

Igort nei Quaderni giapponesi, dei quali sta per uscire l’atteso secondo tomo, compie un’altro genere di viaggio attraverso il Giappone, più di memorie semiologico-poetiche, ma parzialmente avvicinabile a quello di De Crécy come vedremo più avanti.

Quaderni giapponesi
“Quaderni giapponesi”, di Igort

Dal canto suo, Igort riesce in un’operazione straordinaria, mai tentata prima: fin dalle prime tavole enuncia – e sintetizza – il percorso compiuto dal fumetto lungo la sua storia, un viaggio tra loghi prossimi all’estetica industriale che si confondono alle maschere teatrali popolari e stilizzazioni raffinate prossime alla miglior arte occidentale che si confondono a loro volta alle arti popolari più grezze. E, prattianamente ma prima ancora caniffianamente parlando (e andando ancora più lontano, potremmo aggiungere topfferianamente, se non corressimo il rischio di stancare qualche lettore), è un viaggio nell’arte del fumetto come ideogramma, come disegno-scrittura.

Qualcuno ha richiamato giustamente il Barthes de L’impero dei segni, titolo che pare un perfetto riassunto della storia del fumetto anche sotto le più diverse latitudini. E proprio Igort, il quale ha avuto una seconda educazione al mezzo d’espressione durante il soggiorno professionale nel Sol Levante, dimostra nei Quaderni un’indubbia leggerezza e fluidità narrativa – quella leggerezza e semplicità nella profondità spesso propria ai grandi e sulla quale torneremo sopra – la stessa che ha connotato, piaccia o non piaccia, la direzione editoriale della Coconino, dove ha sempre pubblicato nel catalogo, fossero produzioni autoctone o acquistate, libri la cui lettura risultava talmente scorrevole da giungere alla fine quasi senza accorgersene, anche quando la fogliazione era imponente, a ulteriore dimostrazione di una casa editrice figlia di una visione d’artista.

Tutto questo sottolinea ulteriormente, non c’è dubbio, la parziale assenza della fluidità di narrazione nel Diario rispetto ai Quaderni, quest’ultimi intensi quanto immediati.

Una riflessione sul fumetto e sull’arte

Comunque sia, Nicolas De Crécy firma nell’insieme un’opera indiscutibilmente splendida e inattesa, al tempo stesso sintesi e rilettura di un’intero processo storico del fumetto come dell’arte popolare. Alla fin fine dell’arte tout court.

Al tempo stesso polemico e affettuoso verso la schiavitù dell’eterna ripetizione del personaggio di successo, frequente soprattutto nel fumetto popolare, De Crécy lungo la sua carriera ha concepito varianti continue del medesimo personaggio come nel caso della già citata trilogia surreal-dadaista Il celestiale Bibendum oppure dell’ilare dittico di Salvatore (Panini comics), o di quello minimale di Monsieur Fruit (inedito in Italia e dal formato piccolo ma perfetto), del viaggio nell’arte (congelata) concepito per il Museo del Louvre di Période glaciaire (inedito in Italia), o ancora del lungo racconto muto Prosopopus (anch’esso inedito in Italia) e questo per citare soltanto le opere più salienti tra quelle connotabili con la presenza di questo personaggio informe o difforme difficile dirlo, certamente eretico.

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“Diario di un fantasma”, di De Crécy

Invece che serialità immobile del medesimo personaggio, variazioni mobili come la plastilina di una stessa idea di personaggio, un personaggio insomma declinabile nelle modalità più diverse ma sempre riconoscibile nella sua mutazione continua. Un personaggio (in maniera più o meno accentuata a seconda dei casi) un po’ animale, un po’ umano, un po’ logo, un po’ maschera, una morbida patatona definibile e indefinibile come il piccolo fantasma di questo Diario, sperduto nel suo viaggio in Giappone, paese dove manga e personaggini-logo industriali sono onnipresenti, paese che vive con intensità ma in modo acritico il fascino della modernità.

Bozzetto forse perpetuo, forse (pre)destinato a svanire nel nulla o nel limbo del biancore della pagina del libro (come del foglio da disegno), nella seconda parte in Brasile il mini Barbapapà dal segno fragile, incerto e mutevole viene sommerso da un color seppia dalla valenza onirica. Si dissolve allora il transfert ironico, la rassicurante e umoristica coperta di Linus dell’autore per lasciare il posto direttamente all’artista o per meglio dire al suo ego. Si entra nell’autobiografia (simulata?), introspettiva e insieme giornalistica, inserendola in un interrogazione sapiente sulla correlazione tra il (saper) vedere (leggasi: mantenere o ritrovare la purezza dello sguardo) e, inversamente, i processi industriali di produzione dell’arte, come quelli capitalistici del turismo di massa, depauperanti l’autenticità dell’arte popolare e depauperanti, di conseguenza, l’identità popolare.

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“Rebetiko”, di David Prudhomme

Qualcosa di similare ma accennato, e tuttavia significativo perché situato nel finale che amplia in profondità le chiavi di lettura del libro, lo troviamo nell’eccellente affresco storico Rebetiko di David Prudhomme (Coconino Press 2010, ma pubblicato nel 2009 in Francia da Futuropolis, lo stesso editore di Diario di un fantasma), dove uno stanco suonatore di Rebetiko è ormai soltanto l’ombra, una vestigia del passato grandioso della musica popolare, greca nella fattispecie ma estensibile al blues, al jazz, al fado portoghese e a tanto altro, musica del popolo per il popolo purtroppo divenuta, nel finale di Rebetiko, un simulacro postmoderno all’interno di una tappezzeria di gadget turistici svuotati di qualsiasi autenticità, intensità, interiorità. In una parola, di qualsiasi “senso”.

Viaggio non dichiarato e parzialmente semiologico di riflessione poetica sull’arte popolare – nel suo passaggio da artigianato a industria culturale fino alla caduta, per tanta produzione, nel buco nero della creatività da pubblicitari e al dominio del marketing – Diario di un fantasma non a caso raggiunge il culmine, in termini di analisi ma anche di empatia con gli ambienti e più semplicemente in termini di vera poesia, nella seconda parte in Brasile al momento della visita in un museo dove scopre piccoli, minuti, fragili pupazzetti in terracotta ma di straordinaria bellezza, diretta emanazione delle credenze e dei processi storici popolari del paese.

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“Diario di un fantasma”, di De Crécy

Pupazzetti dovuti a un piccolo artigiano che seguendo la propria interiorità e dotato di reali capacità, raggiunge risultati prossimi all’arte vera e propria. Seguendo la sua interiorità, l’artigiano che non intendeva fare arte raggiunge risultati vicini all’arte riconosciuta, all’arte cosiddetta alta e dal tasso (più o meno) alto di visibilità.

Alla ricerca dell’essenza

L’intero percorso artistico di De Crécy, a ben vedere, non è altro che la trasfigurazione dei pupazzetti stilizzati dell’industria del fumetto popolare come pure di tutti quei Puffi rimasti allo stato grezzo, di quei pupazzetti delle arti popolari che non di rado restano nell’anonimato rischiando quindi l’oblio anche quando un museo cerca di preservarli.

In estensione il segmento in questione del Diario metaforizza anche l’arte da murales, dei marionettisti, dei pupari siciliani. Come pure dei musicisti di Rebetiko e di tutta l’arte popolare, compresa quella primitiva.

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“Diario di un fantasma”, di De Crécy

Un’opera emblematica e insieme paradigmatica di un intero percorso delle arti del Novecento – da Picasso a Mirò – e del percorso storico compiuto dal fumetto. Un poetico condensato concettuale mediante esserini fragili, fuligginosi, ectoplasmici. Esserini dagli occhi imperscrutabili come la statuetta di una divinità pagana, buona e cattiva unitariamente, o impauriti come un bambino di fronte alla visione del vasto mondo.

L’emblema o il paradigma dell’arte popolare che crede in quello che fa si salda con “La credenza in un arte sincera” come affermato in un momento chiave del libro (e non “la credenza è un’arte sincera” come erroneamente tradotto: traduzione nell’insieme di buon livello ma che incespica in un momento fondamentale). Concetto valido per tutta l’arte anche se nel caso specifico sembra riferirsi a quanto nell’arte è stato raggiunto con il massimo della profondità nella semplicità, quest’ultima tra le imprese più ardue dell’intera storia dell’arte del Novecento.

Interrogandosi sulla (propria) creazione artistica De Crécy, con Diario di un fantasma, indirettamente si salda al lavoro dei disegnatori del periodo iniziale dell’industria del fumetto statunitense, certo anche alla magia di autori come McCay – agli occhi dell’eterna meraviglia del piccolo Nemo – ma forse soprattutto a disegnatori che esibiscono minor virtuosismo, agli Opper, ai Dirks, agli Outcault, a disegnatori sapienti e insieme più grezzi. O ancora al fumetto europeo degli inizi nella sua grande diversità (con didascalie o con balloon), a quello cioè più grezzo ma dalla grande forza espressiva degli Attilio Mussino, dei Benjamin Rabier, degli Alain Saint-Ogan, del primo Tintin. Al fumetto delle origini per un ritorno alle origini, al primordiale. All’infanzia dell’arte, per riprendere la formulazione dadaista, unitaria a quella del fumetto e delle arti popolari, in particolare l’arte popolare dei poveri, degli umili.

Ripercorrendo la carriera di De Crécy – disegnatore virtuoso partito esibendo un virtuosismo (ispirato) – si coglie infatti una ricerca di quel che è umile, poco considerato, ma che nelle sue espressioni migliori giunge all’essenzialità. All’essenza. Come abbiamo cercato di spiegare, ma ci sarebbe tanto altro da dire analizzando da vicino le sequenze, questo è vero in modo particolare in questo Diario di un fantasma che segue Monsieur Fruit (1995-1996), Prosopopus (2003), Période glaciaire (2005) e precede e segue per l’esatta metà i quattro volumi della miniserie di Salvatore (2005-2010).

Davvero un bel paradosso per un’opera nata su commissione.

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“Diario di un fantasma”, di De Crécy

Uno dei momenti dove si giunge al massimo dell’essenza – ultimo piccolo paradosso – lo troviamo nella prima parte in Giappone, quando sorge una lunga sequenza onirica fuori da Tokyo, nella foresta notturna, dove piccoli balloon ectoplasmici e il nostro fantasmino si confondono, e quest’ultimo pare un’evanescente macchia bianca di gesso deambulante come un sonnambulo in un groviglio di rami al carboncino, come all’inseguimento di autentici fantasmi o spiriti giapponesi in una notte perenne del sogno profondo.

Notti e foreste dove il sogno-segno ha ancora un “senso”.