Teoria della classe disagiata fumettistica italiana

Ho letto anche io uno dei libri di saggistica più chiacchierati del momento, cioè Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura, da poco pubblicato da Minimum Fax dopo una lunga esistenza “carbonara” in forma di ebook.

Perché ne parlo su Fumettologica? Perché questo libro ha come missione programmatica di rivolgersi proprio a tutti i membri della classe disagiata (cioè principalmente i lavoratori dell’industria culturale e del terziario avanzato) di cui anche chi si occupa di fumetto inevitabilmente fa parte. Per farsi un’idea di cosa stiamo parlando consiglio l’intervista a Ventura su Bastonate e, meglio se a lettura avvenuta, un articolo di Valerio Mattioli su Che Fare.

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Per farla brevissima, potremmo dire che il tentativo del saggio è di ricostruire, attraverso una disamina economica e sociologica che si appoggia su numerosi pensatori e autori del passato (da Marx a Debord, passando per Molière, Cechov e Goldoni), la storia e i percorsi che hanno condotto fino al presente. Ovvero a una società occidentale segnata da precariato lavorativo e umano estremo, dovuto essenzialmente, secondo il pensiero di Ventura, a un endemico surplus di offerta di lavoro, a fronte di una domanda limitata – soprattutto se parliamo di lavoro iperqualificato – connaturato a un sistema capitalistico ormai maturo, se non ormai in fase irreversibilmente discendente.

Il saggio giustifica la propria esistenza a partire da un paio di concetti:

Abbiamo creduto di poter ignorare la contabilità e inventarci una vita all’altezza delle nostre aspirazioni: troppo ricchi per rinunciare alle nostre ambizioni ma troppo poveri per realizzarle, oggi ci troviamo a contemplare l’estensione del nostro fallimento.

Nella classe disagiata coincidono i caratteri di entrambe [le classi che discendono e quelle che cercano di emergere], poiché essa è contemporaneamente convinta del destino di disfatta che l’attende eppure condannata a dare tutto in una competizione disperata.

Ventura cerca di dare la propria spiegazione e interpretazione a questo stato di cose, a come il famigerato disagio sia, oltre che una condizione emotiva dovuta alla mancanza di certezze, un vero e proprio “dis-agio”, cioè la progressiva perdita di ruolo e potere di un’intera classe.

Una teoria del presente. E il futuro?

Pur non volendo essere questo un articolo che riflette sul libro in sé, trovo che la Teoria di Ventura abbia dei limiti. Da una parte proprio nella definizione di classe (argomento che non viene pressoché mai affrontato, in tutto il testo) e dall’altra nel fatto di essere del tutto priva di una dimensione predittiva, soprattutto in relazione alle nazioni più o meno emergenti in giro per il mondo, limitandosi così a fotografare – con una messa a fuoco micidiale, va detto – il qui e ora.

La mia è una perplessità abbastanza ‘canonica’: una teoria non dovrebbe essere in grado di rintracciare una struttura, uno schema, un modello, e applicarlo al futuro? A tal proposito il commento migliore è proprio quello di Valerio Mattioli:

«A soli pochi giorni dalla sua uscita, Teoria della classe disagiata sta conoscendo un consenso pressoché unanime. Il che mi rende felice per Raffaele, ma al tempo stesso mi preoccupa. Perché, mi chiedo, così tante persone si riconoscono in una lettura tanto disfattista e al tempo stesso tanto consolatoria della realtà in cui vivono? Una lettura che non apre a possibilità altre che non siano o l’accettazione passiva di una vita di merda, o la guerra civile pura e semplice?».

Quello di Ventura, insomma, mi pare un libro che condensa lo zeitgeist, perfetto per il pubblico che orienta e anima l’industria culturale del nostro ‘piccolo’ paese. Un libro in cui ci si può specchiare in maniera cristallina, che spinge persino a farsi un esame di coscienza, che incita al coming out, soprattutto nel momento in cui ci si trova a scriverne.

Io stesso, che sulla carta d’identità qualche anno fa ho fatto scrivere orgogliosamente “operatore culturale”, sono costretto a mettere in discussione quella scelta: ho forse peccato di arroganza? Di miopia? Di assenza del principio di realtà? O magari devo ritenermi un privilegiato che riesce a mantenersi con la “cultura”? Peraltro, siamo certi che “mantenersi con la cultura” sia esso stesso un privilegio, di questi tempi? E può essere considerato un privilegio vivere a 35 anni con poco meno di mille euro al mese, barcamenandosi tra tre lavori, condividendo casa in affitto con altri giovani lavoratori, senza possedere nessun bene di particolare valore (se si escludono un portatile, uno scanner e una tavoletta grafica, libri e fumetti)?

In qualche modo la Teoria impone di esplicitare la propria posizione, nel momento in cui se ne parla, sia per affermare con spirito solidale la propria appartenenza, che per marcare quasi con sdegno le singolari differenze. E qui assume un senso parlare, anche, di fumetto.

Il fumetto come classe disagiata

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“Il sognatore”, di Will Eisner

L’argomento va affrontato sicuramente da due versanti: quello dei produttori di contenuti (gli autori) e quello dei distributori degli stessi (gli editori). Si potrebbe aggiungere una terza categoria intermedia, ovvero l’indotto di questo sistema culturale, di cui fanno parte i “mediatori” come le scuole, i festival, la critica, l’informazione e qualsiasi altra realtà che tragga il senso della propria esistenza dal fumetto.

Se c’è un tabù, tra i fumettisti, è proprio il valore economico, il “denaro”. Quanti si mantengono effettivamente grazie ai fumetti? È una domanda che mi faccio tutti i giorni, scorrendo i feed dei social network, e vedendo quanto producono quotidianamente molti autori (lo scrivo con una malcelata invidia, considerando che purtroppo fare fumetti non è al momento la mia attività principale). Ma so bene – ed è impossibile non saperlo, frequentando questo mondo – che, escludendo gli autori di fumetto popolare da edicola, e pochissime altre eccezioni di successo, in Italia di solo fumetto non si vive.

Gli anticipi erogati dagli editori non coprono mai l’effettivo tempo di produzione di un graphic novel. Uno dei saggi su cui si regge l’impalcatura della riflessione di Ventura si intitola Teoria della classe agiata, scritto dall’economista americano Thorstein Veblen nel 1899. In questo saggio Veblen teorizza l’esistenza di consumi posizionali che, controintuitivamente, crescono al crescere dei prezzi, perché non contano in quanto tali, ma per quello che rappresentano, cioè degli status symbol. Ciò che conta è il loro valore di scambio simbolico. Qual è il problema dell’effetto Veblen? Ventura lo tratteggia così, schietto e quasi spietato:

A furia di spendere una quantità crescente di risorse per affermare il nostro status, il rischio è semplicemente quello di rovinarci e passare, in un batter d’occhio, da classe agiata a classe disagiata.

Per un fumettista, un graphic novel non è solo il prodotto del proprio lavoro, ma un vero e proprio bene posizionale, uno status symbol che anzi permette di creare ex-novo il proprio status. Non importa quale sia il prezzo da pagare: se ci pensate, anche sponsorizzare la propria pagina Facebook, per ottenere like e visibilità, che a loro volta porteranno all’interessamento di un editore, e all’auspicabile conseguente pubblicazione, ricade nello stesso meccanismo (e se anche non si tratta di sponsorizzazione, è pur sempre tempo produttivo investito nell’accrescere la propria rete sociale).

Però poi affitto e bollette vanno pagati e quindi, prosaicamente, per un autore da dove saltano fuori i soldi? Nel migliore dei casi da attività collaterali attinenti (vendita di originali, commissioni, illustrazioni commerciali, insegnamento…). In tutti gli altri o da lavori “comuni” o da risorse familiari pregresse e indipendenti (ma è impossibile saperlo dal fumettista stesso, perché questa ammissione metterebbe in discussione lo status simbolico faticosamente conquistato). Suggerisco a tal proposito la lettura dell’articolo della scrittrice Ann Bauer, citato dallo stesso Ventura, che molto onestamente racconta come possa fare la scrittrice a tempo pieno unicamente perché mantenuta dal marito, oppure lo sfogo della fumettista britannica Hannah Berry, che spiega, partendo da premesse simili ma giungendo a risultati opposti, perché smetterà di realizzare graphic novel.

Sebbene questo sia un assunto tutto sommato abbastanza noto, la domanda resta pertinente e di attualità: come mai ci sono sempre nuovi autori a bussare alla porta di un mercato economicamente così asfittico, e chi ci è dentro, tranne rari casi, non molla mai la presa?

Ventura, tra le motivazioni principali, cita il “bias del sopravvissuto”: tendiamo a ricordare, e rimanere impressi, solo dalle storie di chi ce l’ha fatta, mentre ci dimentichiamo (o non veniamo neppure a sapere) delle vite di tutti quelli “caduti” lungo il percorso.

L’altro grande assunto di Teoria della classe disagiata presuppone l’esistenza di un mercato duale: da una parte un segmento ampio del mercato del lavoro caratterizzato da estrema precarietà e contratti bassi, dall’altra un segmento ridotto altamente protetto, dove vigono contratti e salari adeguati e forti garanzie. Cosa spinge chi si introduce nel primo segmento ad accettare condizioni tanto svantaggiose e una competizione sfrenata per un tempo più o meno lungo? Il sogno, prima o poi, di accedere al segmento protetto. Il sogno si motiva e alimenta proprio grazie al “bias del sopravvissuto”.

Ma esiste nel fumetto un segmento protetto, e dei sopravvissuti, fuori dall’editoria con tirature da edicola? Oppure il “compromesso creativo”, cioè la necessità di sviluppare un indotto rispetto alla propria attività principale, è una condizione consustanziale per chi vuole mantenersi grazie al fumetto?

Viene da pensare che nel caso di alcuni autori si ambisca allo status per lo status, più che ai benefici (scarsi) che ne deriverebbero (non ne faccio una questione di vocazione/maledizione a raccontare le storie, che per molti che accettano questa situazione è più forte di qualsiasi ostacolo materiale). Senza considerare che, in un ambito creativo, non è scontato che uno status acquisito si mantenga immutato nel corso degli anni: cambiano i gusti, le mode, e per un autore non è sempre facile evolvere la propria poetica col passare del tempo e di conseguenza mantenersi a galla.

Mi sembra dunque più che mai valido questo brano della Teoria di Ventura:

Si crea in questo mondo una vera e propria bolla, popolata da individui che tentano di convincersi reciprocamente del proprio relativo successo attraverso la produzione ipertrofica di segni, ma in fondo soprattutto impegnati a posizionarsi nella speranza che qualcuno possa issarli verso una vita migliore.

Il disagio (fumettistico) ai tempi dell’euforia (editoriale)

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“Il sognatore”, di Will Eisner

Certo è che il periodo sembra fertile e positivo, in controtendenza rispetto ad altri settori dell’industria culturale. Si moltiplicano le case editrici che pubblicano fumetti, le iniziative legate agli stessi, la copertura promozionale dei media. Il sospetto, però, è che questo aumento segua lo sdoganamento del fumetto in libreria, andando ad attingere pubblico soprattutto tra i lettori di narrativa, senza creare effettivamente una nuova audience. Probabilmente non siamo ancora giunti alla saturazione, ma la stessa non sembra neanche troppo distante. Il bello è che l’editoria a fumetti, pur avendo davanti a sé il cattivo esempio dell’editoria di varia, sembra stare ripercorrendo gli stessi identici passi.

Ciò è possibile e forse inevitabile grazie alla “coda lunga”: i costi di produzione si sono ridotti a tal punto che l’editore non punta tanto a vendere migliaia e migliaia di copie di un singolo volume, quanto a spalmare le vendite su più titoli possibili del proprio catalogo, cercando di soddisfare le richieste delle varie nicchie di pubblico. Forse allora non è una questione di seguire un cattivo esempio, è proprio l’espansione incontrollata che appare come unico orizzonte percorribile, dove a rimetterci è (solo?) l’autore, che riceve compensi molto bassi, commisurati in effetti al reale venduto del proprio lavoro.

Il paradosso è che poi sono gli autori stessi a contribuire al mantenimento di questo sistema, essendo tra i principali acquirenti di fumetti (domanda che ogni autore dovrebbe porsi: sono di più i soldi che ho speso o i soldi che ho guadagnato, grazie al fumetto?). Si sviluppa insomma un’economia del “dono”, che è anche una proprietà degli estremi della coda lunga: qui i beni non vengono solo venduti, ma scambiati e offerti. I produttori diventano (o semplicemente sono) consumatori, e i consumatori produttori. Sempre secondo Ventura:

Se oggi i membri della classe disagiata passano il tempo a regalarsi i frutti del reciproco ingegno, replicando il modello del potlach rituale in uso presso le popolazioni primitive, è nel contesto di una competizione per l’inserimento professionale e il posizionamento sociale; competizione esacerbata dalla minaccia di declassamento che incombe su questa classe.

Gli autori sono il fulcro del sistema (e non potrebbe essere altrimenti, visto che creano le storie che poi vengono commercializzate), ma al contempo anche la categoria più penalizzata. Tra i pochi modi per rifarsi c’è, forse, approfittare dei viaggi pagati dai festival (ma è più il fumettista a guadagnarci, o il festival, che grazie agli autori stessi si garantisce il proprio pubblico?) ed “esigere un obolo” dai giovani aspiranti autori, almeno quelli che cercano l’inserimento nel mondo del fumetto attraverso le scuole.

Non vuole essere questa una polemica contro le scuole e i corsi di fumetto, visto che rispondono a un doppio bisogno in costante crescita: da un lato formare, sicuramente al meglio, chi ambisce a entrare in questa famigerata classe disagiata, e dall’altro allocare un surplus di forza lavoro (i fumettisti che devono garantirsi quelle entrate che i fumetti stessi non assicurano). A dire il vero di questi tempi tutti sognano di veder trasformato il frutto del proprio sudato lavoro in un film o in una serie tv, ma un’occorrenza così rara e fortunata non può certo diventare un modello economico a cui tendere.

Si potrebbero fare molti altri esempi di come i fumettisti siano a tutti gli effetti un sottogruppo con delle regole proprie della classe disagiata (alcune che confermano i ragionamenti di Ventura, altre che forse divergono, sebbene mai in meglio). E si potrebbe obiettare che mi sono occupato solo di una particolare categoria del settore, cioè quello degli “autori da libreria” che in termini di fatturato e diffusione hanno ancora una rilevanza limitata rispetto all’insieme dell’industria del fumetto. Ma è evidente che l’attuale interesse intorno al medium è dovuto proprio a questo particolare settore, mentre il fumetto popolare mantiene dei numeri che, sebbene in lenta e progressiva erosione compensata dagli aumenti dei prezzi e dalla moltiplicazione (anche qui) dell’offerta, permettono ancora di ricompensare gli autori secondo altri principi, che sono di contabile quantità e non a forfait (e non è comunque un caso che tra i due sottoinsiemi ci sia sempre più osmosi e permeabilità).

Voglio infine offrire un paio di idee che il libro mi ha suggerito.

1. La prima riguarda l’assenza di soluzioni per uscire da questa situazione (soluzioni che evidentemente per l’autore non esistono), che per quanto mi riguarda potrebbero forse passare per una maggiore cooperazione tra i soggetti interessati (sindacati? Associazioni di categoria? Scioperi collettivi? Un ritorno di massa all’autoproduzione, che in parte sta comunque avvenendo?). È possibile? Stando a Ventura, la necessità di guadagnarsi il proprio posto al sole prevarica qualsiasi fine collettivo. È il famoso “dilemma del prigioniero”, caro alla teoria dei giochi: “un gioco non-cooperativo nel quale gli attori, tentando di scavalcarsi reciprocamente, producono un effetto che scontenta tutti quanti”.

Se ne è avuta la prova giusto pochi anni fa, in seguito al caso Charlie Hebdo. Lungi da me giudicare l’operato dei singoli autori che hanno subito il furto delle vignette per l’instant-book del Corriere della Sera, resta il fatto che, come si è saputo da vari fonti, invece di muoversi collettivamente, come gruppo unitario, i fumettisti coinvolti hanno operato singolarmente, chi sfilandosi, chi facendo causa al quotidiano in maniera autonoma, chi riunendosi in piccoli gruppi. Se le singole decisioni erano senz’altro giuste e condivisibili, a pagarne il prezzo è stata la categoria intera, che non ha saputo, o voluto, imporsi come soggetto attivo del dialogo.

2. Secondo problema, più di natura narrativa che economica: se nello scrivere storie il pubblico a cui guardo è esso stesso una nicchia ben definita (di cui gli autori stessi fanno parte), che va via via irrigidendosi, questo non influenzerà anche le storie che vengono e verranno scritte? Se miro al successo, necessariamente devo tenere presente il mio pubblico di riferimento, che ha dei gusti e interessi ben definiti, e dargli in pasto qualcosa in cui possa riconoscersi. Quante storie potenzialmente bellissime non verranno mai realizzate perché piuttosto che puntare a nuovi lettori si satura l’offerta per quelli che già esistono?

È chiaro che la ricerca e soprattutto l’educazione di un nuovo pubblico è un processo lento, che non dà risultati immediati, e che questo pubblico va probabilmente cercato al di là della classe disagiata (penso ai giovanissimi in generale, ma anche ai nuovi immigrati e agli italiani di seconda generazione), ma è anche l’unica strada possibile, perché una delle caratteristiche della classe disagiata è anche che tende invariabilmente all’estinzione, schiacciata dall’insostenibilità economica e dal crollo della natalità.

Non è che in definitiva è sbagliata l’idea che alla base muove questo articolo e anche il saggio di Raffaele Alberto Ventura? La cultura non può e non deve essere valutata secondo principi economici, e “industria culturale” è solamente un ossimoro. Si dovrebbe piuttosto sperare in nuovi mecenati, che investano negli autori per il puro piacere di regalare della bellezza a sé stessi e al mondo. Magari i papi contemporanei, gli Zuckerberg e i Bezos, dovrebbero destinare parte dei propri ingenti patrimoni proprio ai fumettisti (che poi tanto a un certo punto li riverserebbero comunque nei servizi che i primi offrono).

Tenendo inoltre fede a questa ipotesi interpretativa, forse non bisognerebbe considerarsi prigionieri di nessun dilemma, quanto piuttosto liberi come poche altre categorie al mondo: meno soldi equivalgono senza dubbio a meno pressioni. Gli autori sono liberi di proporre, osare, di essere ambiziosi e sbagliare, comunque di creare mossi quasi unicamente dalla volontà e del desiderio. Ridurre tutto alla categoria del lavoro porta insomma al rischio di valutare un’intera classe secondo principi certo corretti, ma anche molto limitanti.

O forse questo stesso articolo, che mi ha portato via due pomeriggi di lavoro non retribuito, è esso stesso un “bene posizionale”, che pongo sul mercato nella speranza che ottenga riscontro di pubblico e faccia girare il mio nome, garantendomi un rafforzamento di status, che poi magari (magari…) generi delle opportunità che possano trasformarsi anche in un compenso economico. Nonostante le evidenze, coltivo il sogno come tutti.