Kuro e Shiro sono due ragazzini senza genitori. Vivono in una macchina abbandonata e sognano di mettere da parte abbastanza denaro per comprarsi una piccola casetta al mare. Il loro migliore amico è un senza tetto e ogni giorno vivono a stretto contatto con yakuza e umanità di ogni tipo. Il loro mondo si limita a Takaracho, enorme e fatiscente distretto di una città immaginaria di qualche epoca storica sospesa tra passato e futuro, da cui non sono mai usciti. Attenzione, però, non pensiate neppure per un attimo che si tratti di povere vittime: i due fratellini – o meglio, i Gatti – sono i difensori del loro quartiere. Portatori di una violenza folle, in grado di volare letteralmente da un palazzo all’altro, osservano tutto dalle loro postazioni privilegiate fino a quando non decidono di agire. Lasciando, inevitabilmente, qualche malcapitato a terra. Tutti li temono e nessuno ha idea di come fermarli.
Sono uno l’antitesi dell’altro e fino a quando non vengono separati il loro equilibrio è perfetto. La spensieratezza di uno completa la serietà dell’altro e viceversa. Amano le loro strade fatte di risse e sporcizia, non hanno paura di nessuno e la vita scorre nel migliore dei modi possibili. Almeno fra quelli a loro noti. Tutto fino a quando il Serpente, uno spietato malavitoso con mire imprenditoriali, non decide di aprire un enorme sala giochi nel cuore di quel labirinto di vicoletti e lamiere dando il via a una gentrificazione selvaggia. Un processo disumanizzante da portare avanti a ogni costo, poco importa degli sconvolgimenti che questo potrebbe significare.
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Questa a grandi linee la trama di Tekkon Kinkreet, a oggi ancora il lavoro più noto (risalente al 1993-1994) di quel Taiyō Matsumoto che da lì a qualche anno ci avrebbe portato titoli blasonati come Ping Pong o Sunny. I motivi di un tale successo, nonostante da lì in avanti l’autore non abbia fatto che maturare e affinare i propri strumenti, sono sotto gli occhi di tutti. Pur trattandosi di una storia semplice e lineare, Tekkon Kinkreet riesce a toccare una serie di punti che difficilmente lasciano freddi: i grandi sogni dell’infanzia rispetto alla mediocrità della vita adulta, il desiderio ardente di lasciarsi tutto alle spalle, i cambiamenti del mondo e l’incapacità di capirli alla giusta velocità, la ricerca di equilibrio e tutte le difficilissime prove che dobbiamo passare per trovarlo, l’importanza dei legami al di fuori della famiglia tradizionale.
Sono tutti temi che toccano ognuno di noi nel profondo e per di più Matsumoto ce li presenta imbellettati in una sorta di bildungsroman folle e visionario dove ci si perde volentieri, sia che si parli dei vicoli di Takaracho o dei pensieri dei due fratellini. La delicatezza e la sensibilità del mangaka sono evidenti, lo si nota ancora di più nei lavori successivi, e la scelta di intraprendere una sorta di minimalismo narrativo lo premia su tutta la linea. Eppure, nonostante tutta questa grazia, il vero motivo per cui Tekkon Kinkreet rimane a oggi il suo lavoro più celebre è prevalentemente il suo aspetto visivo, mai più così esasperato e privo di compromessi.
Quello che colpisce di più è come, a quasi 25 anni dalla sua prima pubblicazione sul magazine Big Comic Spirits, Tekkon Kinkreet risulti ancora attuale soprattutto dal punto di vista estetico. Si tratta di un lavoro che l’editore avrebbe potuto tenere nel cassetto fino a qualche settimana fa per spacciarlo oggi come novità assoluta e nessuno se ne sarebbe accorto. Lo stile grafico che Matsutomo è riuscito a infondere in quelle pagine pare la prosecuzione di tutto il discorso tematico alla base della storia: il bilanciamento tra i due estremi Kuro e Shiro. Così il tratto è al contempo istintivo e delicato, crudo e infantile, spettacolare e intimista. Un tour de force straordinario che cristallizza tutta l’opera in una sorta di armonia perfetta, dove forze antitetiche spingono in direzioni diverse mantenendo i pericolanti palazzi di Takaracho in un equilibrio miracoloso.
Inutile dire come un risultato simile sia il frutto di una commistione di influenze lontanissime tra loro. A livello prettamente fumettistico è evidente quanta scuola francese ci sia in quelle vignette panoramiche e in quel mondo di pura invenzione. Complici diverse sortire in Europa fin dalla seconda metà degli anni Ottanta, Moebius e Enki Bilal sono finiti immediatamente tra le letture preferite del nostro. Nonostante non capisse una sola parola di quelle storie così affascinanti – per stessa ammissione dell’autore – è chiarissimo quanto di quelle pagine gli sia rimasto dentro. Le linee così chiare e definite, i tratteggi, la fascinazione per decadenti conglomerati urbani che paiono pericolanti pile di costruzioni giocattolo.
Siamo lontanissimi dal feticismo clinico e leccatissimo per il particolare di classici del manga di fantascienza come Akira, Ghost in the Shell o Alita. Qui tutto è più sognante e sospeso in una bolla di incredulità. Non mi sognerei mai di vedere Matsumoto aggiungere a una tavola un box fitto di spiegazioni, alla Yukito Kishiro insomma, su come sia organizzata questa sua bizzarra città. Le cui architetture richiamano sicuramente qualche oscuro futuro imminente, ma i cui mezzi di trasporto sono indissolubilmente legati agli anni dell’infanzia dell’autore, acquisendo così un evidente valore metaforico.
Altra influenza potentissima sullo stile di Tekkon Kinkreet potrebbe essere stata l’imminente – rispetto alla prima pubblicazione dell’opera – l’esplosione della bolla dello street style nipponico di metà anni Novanta. Effettivamente i due fratelli protagonisti sfoggiano vignetta dopo vignetta una serie sempre nuova di outfit che Shoichi Aoki avrebbe potuto benissimo pubblicare sul suo Fruits da lì a due/tre anni. Strani copricapi, accessori fuori di testa, sneaker, t-shirt dallo spiccato gusto grafico. Il tutto riletto con uno stile più ruvido che kawaii, come a rivendicare la propria origine stradaiola. Dopotutto lo stesso titolo dell’opera è la trascrizione di una pronuncia sbagliata di “cemento armato” in giapponese.
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Una ricerca del particolare e della contemporaneità così attenta che pare anticipare di anni quanto fatto successivamente da opere come Jet Set Radio, The World Ends With You, FLCL o Pure Trance di Junk Mizuno. Tutti tentativi, anche riusciti, di traslare una certa coolness nipponica in chiave videoludica, animata o più tradizionalmente manga. La differenza tra questi lavori e il lavoro di Matsumoto è che si parla di prodotti arrivati sul mercato quando un certo tipo di estetica era già stata sdoganata e di cui si si incominciava a parlarne a livello davvero di massa (almeno fuori dal Giappone, in patria non ho idea di come fosse percepita la cosa). Le avventure di Kuro e Shiro invece si svolgono prima di questa esplosione, prima delle raccolte di fotografie delle vie di Harajuku pubblicate da Phaidon. E infatti tutto risulta più ruvido, più sgraziato, indeciso se porsi come pop o underground.
Per certi versi non è sbagliato paragonare Tekkon Kinkreet con quanto fatto da Jamie Hewlett con il fumetto inglese. La sua Tank Girl pescava a piene mani dal quel sottosuolo alternativo che da lì a poco sarebbe esploso a livello planetario, divenendone uno dei simboli e conquistandosi il trono di serie cool per eccellenza. Forse il sensibile Matsumoto non aveva certo questo in testa mentre tratteggiava le tormentate lotte interiori di due orfani abbandonati in un mondo di spietati assassini, poliziotti mediocri e yakuza falliti. Eppure il suo saper leggere con una precisione straordinaria il momento storico che stava vivendo – provate a tornare ai punti cardine della storia elencati nel primo paragrafo e ditemi se non sono i pilastri di tutta la narrazione tipica della generazione X, da Friends in avanti – gli ha permesso di consegnarci un’opera che è diventata subito iconica.
Tekkon Kinkreet Omnibus
di Taiyō Matsumoto
Traduzione di Rebecca Suter
J-Pop, novembre 2017
Cartonato, 624 pp in b/n
€ 25,00