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RecensioniNovitàGli uomini senza 'Niente da perdere' di Lemire

Gli uomini senza ‘Niente da perdere’ di Lemire

A queste latitudini soffia un vento gelido che punteggia la faccia di ghiaccio. Lamine di neve tagliano la pelle e incidono l’anima. È il grande nord, nella forma e nella sostanza di quel Canada spesso bistrattato dai vicini statunitensi. Jeff Lemire, tra i più prolifici fumettisti nordamericani degli ultimi anni, è nato e cresciuto qui. E del Canada porta spesso il ricordo e le atmosfere nelle sue pagine.

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Ambiguo terreno di grandi racconti, il Canada. David Foster Wallace aveva messo in scena quella che, forse, rimane la caricatura ultima di quel Paese. Aveva trasformato parte di quel territorio nella Grande Concavità: un conglomerato d’immondizie, discarica mutata che aveva frazionato i canadesi e dato vita a gruppi separatisti. Troy Parker e Matt Stone, con somma grazia, hanno germinato a forza di aerofagia il simbolico duo comico Trombino e Pompadour in South Park. Lemire, ormai diventato a tutti gli effetti un solido architetto dell’edificio del fumetto mainstream attuale (DC, Marvel, Image e Valiant lo hanno visto tutti passare per le loro fila), preferisce però ricondurre tutto a casa. Letteralmente.

Tagliata ogni sorta d’ironia, in Niente da perdere (tradotto da Bao Publishing e originariamente intitolato, con grande efficacia, Roughneck) riallaccia quindi alcuni di quei nodi lasciati in sospeso sin dalle primissime righe scritte per Essex County. Torna in quelle terre, nel Canada che gli ha dato i natali tra il cliché dell’hockey e la vita pseudo rurale delle piccole comunità.

La storia vede il protagonista Derek, ex campione di hockey, tornare a casa – appunto – nella cittadina dalla quale era fuggito in cerca del successo e della gloria. Un uomo grande, grosso e a pezzi, scappato a gambe levate dalla provincia troppo tetra, enormemente stretta. Il tipo di essere umano ricolmo di solitudine, rimpianti e senso di colpa, che troveranno naturale sfogo nell’arco della vicenda. Derek si trova difatti ben presto alle prese con un gorgo drammatico sempre più consistente, di quelli che prendono alla gola. Torna sulle scene la sua famiglia, e la sua vita è rimessa in discussione ancora una volta.

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Come dopo la ramanzina più dolorosa della vita, nelle pagine scorre tangibile una sensazione di disfatta e disagio: il puro e semplice fallimento umano, senza scusanti e senza approdi. Quel tipo di autocoscienza che somiglia molto alle sensazioni che alimentano film The Wrestler di Aronosfky, The Warrior di Gavin O’ Connor o Whiplash di D. Chazelle. Storie nelle quali sport, lavoro e passione coincidono con il dare anima e cuore in nome di una singola idea, una singola regola di vita, rimettendoci il cuore e gli affetti, quando non proprio la salute psicofisica, in caso di sconfitta.

Questo lo sfondo emotivo e psichico all’interno del quale muove il personaggio. All’idea, Lemire aggiunge una buona dose di suburbia. Nella commedia umana che si svolge tra la terra inondata di neve e i bar riscaldati male a gasolio e molto alcol, c’è tutta la miseria e il livore dell’uomo. Facce e caratteri rudi e stantii quanto l’aria che respirano nelle loro bettole. Perenni (s)nodi irrisolti in cerca di un taglio deciso che tarda ad arrivare.

Qui il liquore scorre a fiumi fino a condurre tra le braccia dell’incoscienza. La donna è poco più che un oggetto di piacere o una valvola di sfogo. La droga una conditio sine qua non del vivere civile. Quelle che dovrebbero essere le forze dell’ordine diventano poco più che un parapetto all’altezza del ginocchio, giusto a dare l’idea che si possa evitare di cadere nel vuoto assoluto. Non lontano da qui vivono e si muovono i boschi di Twin Peaks o la bruttura banale del male che si agita in Fargo. Dipendenze emotive, chimiche e relazionali punteggiano il panorama quanto i fiocchi di neve.

Leggi anche: Jeff Lemire: «Non penso ad altro che ai fumetti»

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Lemire torna e riprende le fila di Essex County, o del recente Royal City. Sono famiglie disfunzionali e popolate dalla violenza quelle che risiedono in questi spazi dell’anima e della Terra. Uomini e donne feriti e mutilati nel cuore, in cerca di un appiglio o della conclusione ultima e definitiva. Personaggi e temi che hanno popolato la letteratura russa e americana, o quella europea del Dopoguerra, come moltitudini di solitudini senza scampo.

Lemire le dipinge (anche letteralmente, visto il ritrovato ed espressionista uso dell’acquerello) con il suo solito tratto spigoloso e un poco traballante. Descrittivo ed espressivo il giusto, perfetto per quelle lande desolate di neve. I toni esistenziali, i silenzi e le parole spezzate o masticate a mezza bocca, con rabbia, la fanno da padrone. I colori sono spenti, solo raramente illuminati dalla memoria o da scampoli di visioni che durano qualche soffio.

Lemire offre un bozzetto antropologico – losers immersi in un ambiente ostile, alla mercé del loro stesso passato – in sé non originale, ma che riesce a far vibrare la lettura grazie alla sua forza umana, sentita, lineare e diretta. Un Lemire davvero essenziale per forma e per sostanza. Certo, Niente da perdere tratta di violenza, inclusa quella – assai attuale – di genere, ma in fondo la storia si affaccia a domande e dubbi ancora più universali. Derek e i suoi sodali, in fondo, non sono altro che uomini e donne che, tra rabbia e paura, cercano di restare in piedi durante la tormenta delle loro vite.

Niente da perdere
di Jeff Lemire

Traduzione di Leonardo Favia
Bao Publishing, ottobre 2017
Cartonato, 256 pp in bicromia
€ 23,00

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