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FocusYoshihiro Tatsumi: dalla letteratura Buraiha al fumetto gekiga

Yoshihiro Tatsumi: dalla letteratura Buraiha al fumetto gekiga

Può essere strano, per noi occidentali, il contare degli anni dei giapponesi, con la suddivisione in ere a seconda dell’imperatore e la conseguente numerazione. Il periodo Shōwa (1926 – 1989), che corrisponde al regno dell’Imperatore Hirohito, è paradossalmente traducibile come “periodo di pace illuminata”. Ben poche ere si sono così contraddistinte per brutalità colonialista e sradicamento culturale. Shigeru Mizuki ha raccontato questo periodo così complesso e disomogeneo nella sua integrità in Shōwa-shi (Storia del periodo Shōwa, pubblicato in seguito dalla Drawn and Quarterly in quattro grandi volumi).

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Negli anni ’20 in Giappone assistiamo allo sviluppo dell’ultranazionalismo, che presto sfocia in guerre di conquista. In seguito la sconfitta, i bombardamenti atomici, l’invasione. E ancora: la ricostruzione, nuovi valori democratici e la vittoria finale del capitalismo liberista. Ma soprattutto, proprio a metà del periodo Shōwa, la nascita del gekiga: un genere di fumetto dai contenuti maturi e drammatici per lettori adulti, qualche decennio prima della nascita del cosiddetto graphic novel (A Contract with God di Eisner è del 1978, mentre Tormenta Nera di Tatsumi è del 1956). Per capire come sia nato questo tipo di fumetto così tragico è indispensabile comprendere il suo contesto storico e letterario.

Nella storia recente, per ben due volte sono stati introdotti a forza nuovi sistemi di valori nella società giapponese: la prima fu la cosiddetta “rivoluzione dall’alto” nel periodo Meiji (1868-1912), in cui gli oligarchi modernizzarono in fretta e furia un Paese ancora feudale, la seconda fu dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, quando le forze di occupazione riorganizzarono il sistema politico, economico e sociale. Il nazionalismo del primo periodo Shōwa, esternato in crudele colonialismo, è diretta conseguenza di un complesso di inferiorità riscontrabile negli scritti di viaggio all’estero dei primi intellettuali. Se la permanenza a Londra di Natsume Sōseki (1902-1903) fu caratterizzata dalla depressione e da uno spleen esistenziale, in patria prendeva piede il principio di bunmei-kaika, modernizzazione, e l’emulazione dell’Occidente era considerata come l’unica possibilità per la sopravvivenza nazionale. Questo ideale di bunmei-kaika penalizzava le arti autoctone, proprio mentre venivano conosciute all’estero.1 Il primo incontro con l’Occidente, pieno di senso di inferiorità, si trasformò ben presto in cieco orgoglio nazionale. La “razza” giapponese, da inferiore in quanto orientale, ben presto divenne l’unica razza che aveva il dovere morale di difendere l’Oriente (dove difendere significa conquistare).

Nel caos identitario del periodo Shōwa, che come abbiamo visto è sia pre che post guerre, tra i generi letterari che dominavano c’era il cosidetto shishōsetsu, o Romanzo dell’Io, di derivazione naturalista. In questa sorta di romanzo confessionale, lo scrittore racconta eventi legati alla vita personale senza nessun filtro tra scrittore e lettore. Tra i capolavori da segnalare c’è Futon di Tayama Katai, romanzo-scandalo in cui senza compromessi veniva raccontata la vita interiore dell’autore, tra amori e gelosie nei confronti di una studentessa. Un gruppo di scrittori però, in parte legato allo shishōsetsu, riuscì a diventare molto popolare: erano gli scapigliati di una corrente definita Buraiha, la “scuola decadente”. Burai (無頼), letteralmente “inaffidabile”, si riferisce a chi trasgredisce le norme sociali e si inseriscono in questa corrente gli scrittori di romanzi che ritraggono le ansietà, la disperazione e la dissolutezza della società giapponese che si stava formando nel dopoguerra. Una dissolutezza letteraria che spesso corrispondeva alla decadenza della vita privata degli scrittori. La Buraiha non è una corrente omogenea e gli scrittori stessi non si identificavano in questa etichetta: in un certo senso «non è semplicemente un fenomeno letterario ma un qualcosa che riflette le circostanze storiche dei lettori giapponesi, che avevano bisogno di stabilire nuove norme sociali e criteri morali».

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Una tavola da “Città arida” di Yoshihiro Tatsumi

Gli intellettuali burai avevano in comune il rifiuto delle altre correnti letterarie, che fossero quella più vicina all’estetica occidentale del Shirakabaha o quella della letteratura del proletariato («scrittori sicuri che potevano spiegare tutte le attività umane secondo la dottrina marxista»).

Figli di buona famiglia, i Burai, più che agli operai e ai contadini, erano vicini ai derelitti delle città.

I tre scrittori più rappresentativi di questa corrente furono Osamu Dazai, Ango Sakaguchi e Sakunosuke Oda. Dazai è quello più conosciuto internazionalmente. Nato ad Aomori nel 1909 in una ricca famiglia di proprietari terrieri, si dette a vita dissoluta descrivendo nei suoi romanzi le seduzioni di donne da strada e l’utilizzo di alcol e droghe. Venne diseredato dal padre a causa di uno shinjū, doppio suicidio d’amore. Dazai tentò più volte di terminare la sua vita in questa maniera: se ne contano cinque includendo l’ultimo tentativo, quello mortale, nel 1948, lo stesso anno della pubblicazione di Ningen shikkaku, Lo squalificato, il suo romanzo più rappresentativo. Il romanzo supera il mero racconto autobiografico grazie a strutture metanarrative (Dazai aveva fatto sua la lezione di Gide): il protagonista in un turbinio di droga e perdizione si “estromette” dall’essere un umano. Questa esclusione dall’umanità è causata dall’insoddisfazione, una infelicità che lo porterà alla distruzione di tutti i valori. L’attacco ai costumi e alle tradizioni viene mostrato come con una lente di ingrandimento sulla figura dell’escluso, del drogato, del reietto.

Fu lo stesso Osamu Dazai a proporre nel 1945 il termine Buraiha, cercando un equivalente al francese libertin, e facendo particolare riferimento alla dissolutezza del poeta francese del ‘400 François Villon. La parola entrò nella terminologia letteraria solo dal 1955, grazie al critico Takeo Okuno che scrisse nel saggio Buraiha no Bungaku (La letteratura della scuola Burai): «La parola accentuò il suo significato di decadente, anticonvenzionale, ribelle […] sensibilità esasperata, tendenza all’autocritica e accentuato interesse per la realtà del Giappone contemporaneo».

Questo slittamento di significato avvenne grazie ad Ango Sakaguchi nel suo Darakuron (Saggio sulla decadenza) dell’aprile 1946. Tra le macerie di una Tokyo distrutta Sakaguchi scriveva:

«Gli eroi delle truppe speciali d’attacco non sono altro che fantasmi. La storia dell’uomo non inizia forse nel momento in cui i sopravvissuti cominciano a lavorare al mercato nero? Anche le vedove di guerra, martiri fedeli alla memoria del coniuge scomparso, sono fantasmi. La storia dell’umanità non comincia forse nel momento in cui esse accolgono in sé l’immagine di un altro uomo? Anche l’imperatore è un fantasma e solo nel momento in cui diventa null’altro che un essere umano può cominciare la sua vera storia. […] I sessanta o settanta generali che non eseguono il suicidio rituale, ma tutti insieme vengono trascinati in un tribunale, possiedono un’umanità solenne che solo la fine della guerra ci ha permesso di scoprire; il Giappone ha perso la guerra e il bushidō è crollato, ma l’uomo è nato per la prima volta da questa matrice di verità che io chiamo decadenza. Non credo ci possa essere un’altra scorciatoia per salvare l’uomo al di fuori questo processo. Io non amo lo harakiri».

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Una tavola da “Città arida” di Yoshihiro Tatsumi

Negli anni tra il 1945 e il 1960 la problematica di quale fosse, tra le rovine, l’identità giapponese coinvolse storici e sociologi, ma anche letterati, scrittori e critici. «Da un punto di vista intellettuale, per la prima volta, e forse addirittura per l’ultima, nella storia del Giappone moderno una generazione che raggruppava discipline diverse discusse insieme un problema comune: come modellare il futuro del Paese». Pare ingiusto tralasciare il mondo del fumetto, che proprio negli anni ’50 decise di prendere parte, abbandonando il candido ruolo di intrattenimento per bambini, alla ridefinizione della nazionalità. Inoltre bisogna considerare che il manga era già «una forma riconosciuta, oggetto di analisi erudite, come quella in Nihon manga-shi (Storia del fumetto giapponese, 1924) di Seiki Hosokibara». Le vite squallide dei reietti, le speranze e perversioni degli squalificati, sono alcuni dei temi che ritroveremo nel gekiga di Tatsumi.

Tatsumi Yoshihiro nacque il 5 giugno 1935 e crebbe a Toyonaka, a nord di Osaka. Avido lettore, già a quindici anni scriveva yonkoma (manga a quattro vignette) che spediva a varie riviste e quotidiani. Vinse perfino un premio sotto falso nome come migliore autrice casalinga8. Il primo libro pubblicato nel 1954, Kodomo jima (L’isola dei bambini), edito da Tsuru Shobō, era di chiara impronta “tezukiana”.

Con Tempesta Nera si inaugura il gekiga: un nuovo tipo di fumetto cinematografico, realistico nelle ambientazioni e nei personaggi, totalmente privo di umorismo. Come il buraiha, il gekiga elabora un messaggio radicale, propone una critica sociale forte, al limite con l’iconoclastia (Il cannone umano), facendo dei reietti e degli antieroi i protagonisti delle vicende.

A proposito del carattere cinematografico del gekiga di Tatsumi, da Una vita tra i margini, documento importantissimo per comprendere la storia del gekiga, sappiamo che il mangaka conosceva Sakunosuke Oda, il terzo esponente della scuola burai, non per il romanzo, ma per la visione di un film tratto da una sua opera, La zuppa della coppia, di cui il giovane Yoshihiro amava citare le battute. Di Oda non è ancora stato tradotto niente in italiano, ma considerando che nel 1983 per il settantennale della sua nascita è stato istituito un premio letterario a suo nome, possiamo sottolineare la sua influenza.

Lo sviluppo del gekiga, per come ci viene raccontato, non può essere inquadrato in una scuola o in una corrente: molto diversificate appaiono le opere sui ninja di Sanpei Shirato, i gialli di Masahiko Matsumoto e Golgo 13 di Takao Saitō. Nonostante questa eterogeneità, è comune il messaggio anticonformista e provocatorio. Se nelle storie di samurai di Sanpei Shirato, nel descrivere le lotte contadine, è presente una critica sociale di stampo marxista, nelle denunce sociali di Tatsumi è poco riscontrabile il carattere politico. Seppur lontane da una ideologia, le denunce del fondatore del gekiga sono sempre dirette e coraggiose: prendiamo come esempio Shōfu no Senki (Diario di una prostituta), che ha come protagoniste le prostitute di guerra. Il tema delle comfort women è ancora oggi tabù e ancora oggi negato dal governo. Sempre nell’autobiografia di Tatsumi, lo vedremo lasciarsi trascinare nelle manifestazioni contro i Trattati di mutua collaborazione tra Usa e Giappone. L’autore ci dichiara che non conosceva con precisione le questioni politiche, troppo concentrato sulla rivoluzione nel mondo del fumetto che stava portando avanti, ma che, trascinato dalla folla, comprese che la rabbia era l’energia del gekiga.

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Una tavola da “Città arida” di Yoshihiro Tatsumi

Sappiamo che le letture che più sconvolsero Tatsumi e formarono la sua poetica furono le opere hard-boiled di Chandler, Spillane e Hammett, Il conte di Montecristo, i drammi di Shakespeare e i romanzi del mistero di Edogawa Ranpō. Dal Buraiha il gekiga ha assimilato il messaggio anticonformista, legato ad una critica sociale più o meno vicina a posizioni radicali o socialiste, l’accentuato interesse verso la realtà del Giappone contemporaneo (partendo anche dalle biografie degli autori, come nel caso di Yoshiharu Tsuge), il capovolgimento degli ideali e la loro negazione. Inoltre, come per il Buraiha, il successo del gekiga è espressione della necessità e delle circostanze storiche nelle quali si trovò la popolazione giapponese. Scrittori e intellettuali hanno commentato con parole significative la ricostruzione: appare però eclatante la lucida analisi degli autori gekiga nel descrivere la disperazione, le insoddisfazioni di una società che doveva rinnegare gli ultimi quarant’anni di storia e ricostruirsi tra le macerie.

L’assoluta solitudine dei personaggi di Tatsumi ricorda quelli dei racconti di Ango Sakaguchi e analogo ne è il pessimismo: non vi è salvezza o consolazione possibile. «Se le cose stanno così, ciò che chiamo solitudine dell’esistenza, ovvero il nostro paese d’origine, è dunque una realtà tanto crudele e disperata? Penso sia proprio così, crudele e senza speranza. Questa oscura solitudine non permette una via di scampo […] non credo possa esistere una letteratura qualora non vi sia coscienza, consapevolezza di questo paese d’origine», dichiara Sakaguchi nel saggio Bungaku no Furusato (Il paese d’origine della letteratura). Il paese d’origine della letteratura di Sakaguchi è lo stesso del gekiga. La rabbia iconoclasta dei burai si è convertita nell’inchiostro dei gekigaka.

L’anticonformismo per Tatsumi, rispetto ad altri fumettisti più scapigliati, non si esplicitò nella condotta di una vita dissoluta, ma nelle scelte artistiche e narrative. Da Una vita tra i margini possiamo notare che nessuno dei giovani artisti ribelli conduceva un’esistenza libertina. Masahiko Matsumoto si trovava in difficoltà nella vita comunitaria con gli altri autori e Takai Saitō, seppure dal carattere più sfrontato, non ebbe mai sconvolgimenti dettati da uno stile di vita decadente. Probabilmente il vero bohémien fu solo il curatore della rivista Kage, Kuroda, il più grande dei gekigaka, avvezzo all’alcol e alle prostitute. «Ogni volta che vomiti, diventi più forte nel reggere liquori», consigliò una volta al giovane inventore del gekiga, che voleva controllare meglio l’alcol.

Lo stile di vita di Tatsumi ricorda più quello di Jun Ishikawa, altro scrittore annoverato tra i buraiha: la sua condotta non fu mai così autodistruttiva da travolgerne la vita irreversibilmente, ma la sua opera è difficilmente classificabile, tra l’erudizione classica e l’insofferenza ad ogni autorità costituita.

L’opera di Tatsumi trasuda e odora del rispetto del mezzo comunicativo, di studio ed entusiasmo, nonché di una certa malinconia. Come ci dice Ryan Holmberg nella postfazione di Inferno, le prime pubblicazioni gekiga furono per i kashihon, librerie a prestito. Tranne per pochi racconti, la maggior parte delle storie pubblicate sulle riviste Kage e Machi rimangono ancora un mistero nascosto nelle biblioteche giapponesi. Immaginandomi questi kashihon, andati via via scomparendo nel momento in cui la gente iniziò ad acquistare i libri, vorrei concludere proponendo l’immagine del giovane Tatsumi circondato dai libri illustrati come fosse il protagonista dell’haiku di Masaoka Shiki:

pioggia di primavera
riparato dall’ombrello guardo
i libri illustrati del negozio di stampe

春雨や
傘さして見る
絵草紙屋


*Questo articolo è la postfazione al volume Città arida di Yoshihiro Tatsumi, pubblicato a gennaio 2018 da Coconino Press.

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