5 motivi per leggere “Scalp” di Hugues Micol

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Nella rubrica ‘BBB Consiglia’, ogni mese, il festival bolognese BilBOlbul seleziona un’opera a fumetti di particolare valore e interesse, offrendo una lista di buone ragioni per leggerlo. Questo mese parliamo di Scalp, un fumetto diHugues Micol pubblicato da Oblomov Edizioni.

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Scalp è il primo libro tradotto in Italia di Hugues Micol, e la pubblicazione di uno degli autori più interessanti e talentuosi del panorama francese sarebbe già motivo sufficiente per consigliarne la lettura. Ambientato in un West fosco e violento, racconta le vicende di John Glanton, fuorilegge, soldato, cacciatore di scalpi e massacratore di indiani, a partire dalle testimonianze di Samuel Chamberlain (Donne Sciabole e Cavalli, Feltrinelli, 1957), anche pittore, che si unì alla sua banda per un periodo. Della medesima fonte si è servito Cormac McCarthy per uno dei suoi romanzi più belli, Meridiano di sangue.

1 | Una storia come un abisso

Non è facile seguire le vicende di Scalp, perché l’autore ci lascia spesso soli a ricostruirne le fila, non obbedendo a un ordine cronologico e costringendoci, anche all’interno dello stesso capitolo, a scatti in avanti e indietro, senza porsi apparentemente il problema della nostra comprensione. Ellissi, digressioni, flashback, cambi di narratore costruiscono un mosaico impazzito e allo stesso tempo un coro di voci, inseguendo l’oralità che è alla base della nascita delle leggende. Ci si sente persi e storditi durante la lettura, trascinati dalla foga violenta di Glanton e dalla trappola narrativa di Micol verso un abisso, una sorta di maelstrom in cui tutto diventa caos e in cui conta uscire vivi, più che distinguere i singoli episodi.

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Un’allucinazione visiva

Un simile stordimento si prova anche, e soprattutto, di fronte all’impatto espressionistico del segno, del contrasto tra bianco e nero, della costruzione delle singole tavole. Libere fin dall’inizio da una gabbia tradizionale, e in questo memori della lezione di Eisner, esse si trasformano progressivamente in masse indistinte, in grumi di figure goyesche, in cui non è più possibile distinguere tra le scene di una battaglia, di un’orgia nel saloon, di una folla esultante alla vista della quantità di scalpi accumulati dietro alle selle. È un approccio formale, quello di Micol, che riesce mirabilmente a tenersi in equilibrio tra la lucidità del progetto e lo slancio gestuale, e a far sentire la violenza in tutta la sua viscerale allucinatorietà.

Una parabola senza risposte

Esplicite nella loro efferatezza, la vicenda e la figura di John Glanton rimangono ammantate di mistero. Alla fine del libro, di lui abbiamo solo la memoria del volto, della sua fissità, del suo abbruttimento implacabile. Non una parola sentiamo pronunciata da lui, i racconti e le voci degli altri gravitano attorno al suo silenzio e ne sono in qualche modo assorbiti, come i tratti di china si aggrumano nel nero. Il lettore rimane interdetto, privo di consolazione, anche di quella che nasce dalla tragedia di un eroe maledetto. Micol ci tiene sull’instabile crinale tra la fosca leggenda e la banalità del male, senza dare alcuna risposta.

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Un implicito discorso politico

L’impatto potente delle immagini e della violenza che mettono in scena, così ingombrante, rischia di (o forse mira a) far dimenticare un discorso apparentemente marginale, nel senso proprio di lasciato ai margini: il Glanton della leggenda è anche e soprattutto una pedina di governanti, generali, persino della Chiesa. Nato in un periodo storico e in un paese con grandi contraddizioni e fratture, spazi di fuga e libertà d’azione poi impensabili, il protagonista è macinato da una forza più grande di lui, quella della Storia. Che sia questo l’abisso ultimo che ci vuole suggerire Micol? A pensarlo in questo modo il fumetto sembra una versione cupa e priva di spiragli del Piccolo grande uomo di Arthur Penn.

Sublime americano

Scalp si può leggere anche come l’ennesimo tassello di un immaginario che ha percorso e percorre il cinema come il fumetto, la letteratura come la musica: l’America come mito europeo. Sembra in realtà essere ben lontano da una celebrazione questo libro, che piuttosto sembra far sua la lezione di William Carlos Williams che vedeva paura e violenza come fondamenta delle “vene dell’America”.  Eppure sarebbe riduttivo leggere Scalp come denuncia. I grandi sfondi paesaggistici ne sono un indizio: i deserti picchiettati dai cactus, le distese rocciose, il corso inerpicante dei fiumi hanno una forza espressiva che ricorda la stessa fascinazione per il sublime americano di quei pittori che nell’Ottocento ritraevano scenari sconfinati, gravidi di promessa e minaccia insieme. Penso ai quadri di Frederick Church e di Albert Bierstadt, alle inquadrature di John Ford. Ancora una volta Micol spiazza, lasciandoci soli di fronte alle contraddizioni.