In questi giorni il Giappone piange la morte di Isao Takahata, regista scomparso il 5 aprile all’età di 82 anni nonché figura fondamentale non solo per lo sviluppo degli anime, ma soprattutto per la loro diffusione in Occidente. Le sue opere, apprezzate da giovani e adulti, hanno fatto crescere intere generazioni di appassionati in tutto il mondo, contribuendo in maniera decisiva all’evoluzione dell’animazione giapponese e offrendole uno stacco netto dallo stile americano.
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Gli esordi
Sono gli anni Sessanta e Walt Disney domina la scena dell’animazione mondiale, mentre il Giappone – appena uscito distrutto dalla guerra – riesce solo a fare capolino in questo universo. Risale al 1958 il primo anime distribuito fuori dal Paese, La leggenda del serpente bianco di Taiji Yabushita, fondatore della Toei Doga (oggi Toei Animation).
Le scenografie giapponesi sono ancora fiabesche, con i colori saturi e pesanti tipici dell’animazione disneyana, ma in questo studio milita anche un giovane regista di nome Isao Takahata, fresco di studi in letteratura francese alla Todai, l’università più rinomata del Giappone. La sua passione per la regia nasce e cresce proprio grazie all’influenza di artisti provenienti da tutto il mondo: rimane folgorato dal cinema d’animazione francese (e da film come La pastorella e lo spazzacamino, opera incompleta di Paul Grimault e Jacques Prévert) e frequenta colleghi del calibro di Yurij Norstejn o Michael Ocelot (Kirikù e la strega Karabà).
Nel 1968 Isao Takahata esordisce come regista con La grande avventura del piccolo principe Valiant, che racconta la lotta del giovane Hols contro il mostruoso signore dei ghiacci Grunwald. Nonostante i toni epici e la lentezza della narrazione, già in quest’opera possiamo notare alcuni elementi formali tipici dello stile moderno del regista nipponico, come un target più adulto, il desiderio di realismo e la conseguente attenzione posta sull’introspezione. Inoltre, ad affiancarlo nella realizzazione, troviamo un giovane disegnatore di Tokyo che da lì a breve sarebbe diventato il più grande esponente al mondo dell’animazione nipponica, Hayao Miyazaki.
Questo dà il via a un rapporto di collaborazione che innesca anche una profonda e amichevole rivalità. Tant’è che Takahata guadagna il soprannome “Paku-san” (lett: colui che corre a lavoro con il toast in bocca) per l’abitudine di mangiare di corsa in ufficio.
In questi anni però c’è anche il boom della televisione. Il nuovo messo porta Takahata a lavorare a ritmi più serrati su opere come Le avventure di Lupin III (1971), per la quale dirige alcuni episodi, e Heidi (1974), anime sulla bimba svizzera che con le sue Alpi, il nonno e quell’invitante formaggio fuso riscuoterà un grande successo in Italia e nel mondo.
Proprio in questi anni realizza il film Goshu il violoncellista (1982), trasposizione animata di un racconto di Kenji Miyazawa che parla di un giovane musicista poco dotato. Nel 1985, un anno dopo il primo capolavoro di Miyazaki Nausicaä della Valle del vento (di cui Takahata è produttore), fonda lo Studio Ghibli.
L’arte e la tecnica di Isao Takahata
Come evidenzia il videomaker statunitense Andrew Saladino, all’apparenza non c’è un vero motivo per cui i suoi film debbano essere animati: le sue sono fiabe che parlano di emozioni, infanzia e solitudine, temi che spesso si prestano ad altre tecniche cinematografiche. Allora cosa rende tanto azzeccata la scelta dell’animazione? Innanzitutto, se guardiamo ai micro-elementi, il più importante è sicuramente il character design.
Possiamo dire che nei film di Isao Takahata l’emozione è subordinata all’arte dell’animazione. Quei personaggi dai volti plastici e dai classici occhi enormi, probabile retaggio della saturazione caratteriale disneyana, diventano mano a mano sempre più espressivi. Questo aspetto si lega a un’altra caratteristica fondamentale: l’uso della makura kotoba (lett: parola cuscino). Una figura retorica normalmente usata nella poesia giapponese per introdurre una nuova serie di parole, qui si trasforma in una scena di transizione e riflessione, un momento di pausa in cui non succede nulla fra ciò che è appena avvenuto e ciò che sta per accadere. Come Seita (Una tomba per le lucciole) che si sistema i vestiti e pettina sua sorella Setsuko.
Questa tecnica, secondo il critico cinematografico Roger Ebert, fornisce ai suoi film un ritmo preciso e una sorta di raccoglimento. Fondamentali affinché lo spettatore riesca a comprendere ed apprezzare fino in fondo il messaggio della scena appena rappresentata. In questo modo, nei film di Takahata le scene di vita quotidiana – punto focale della sua narrazione – raggiungono una fluidità e un livello tale di realismo da trascorrere senza che lo spettatore se ne accorga.
Passando invece ai macro-elementi, al centro c’è sicuramente la sua tecnica narrativa, che gli permette di mostrare allo spettatore la sua personale visione del mondo. Utilizzando uno stile tipico della letteratura fantastica, Takahata non distingue mai nettamente il mondo reale da quello meraviglioso e onirico, concentrandosi invece sulla rappresentazione cinematografica delle emozioni.
Un lampante esempio è quello di Una pioggia di ricordi (1991), film che The Guardian ha definito «assolutamente incantevole». Incentrato sull’importanza dei valori tradizionali, narra la storia della giovane Taeko che, combattuta fra la carriera e la vita in campagna, raggiunge l’epifania ripercorrendo con la mente i suoi ricordi d’infanzia. Qui troviamo due storie separate che procedono di pari passo: da una parte c’è il presente, graficamente rappresentato in maniera nitida e lucida, dall’altra abbiamo il mondo dei ricordi, dove i fondali richiamano un quadro pittorico dal tratto confuso e annebbiato, come in un sogno.
Questa sua tecnica esprime alla perfezione anche la rappresentazione visuale di metafore, come in I miei vicini Yamada (1999), dove il matrimonio viene rappresentato come una coppia che si lancia a tutta velocità su uno slittino.
Giustizia, natura e tradizione
Durante la sua lunga e prolifica carriera Takahata ha sempre messo in mostra un ammirabile rispetto per i valori da lui ritenuti importanti. Il suo profondo amore per la natura è ad esempio legato a doppio filo a un grande senso di giustizia. Basti pensare a Pom Poko (1994), film incentrato sullo scontro con la moderna urbanizzazione, nel quale dei tanuki (creature del folklore giapponese) lottano disperatamente contro l’uomo per riconquistare il loro territorio, la collina circostante Tokyo destinata a un complesso residenziale.
Questo concetto viene esplicitato anche nel suo capolavoro registico, Una tomba per le lucciole (1988), un film dalle note autobiografiche che racconta la triste storia di due fratelli che, rimasti orfani durante il bombardamento americano sul Giappone nella Seconda guerra mondiale, devono cavarsela da soli. Tenero e angosciante al tempo stesso, esprime una forte critica al militarismo statunitense e alla società giapponese, che appare fredda e meschina.
La collaborazione con Miyazaki gli permette inoltre di omaggiare la tradizione, anche attraverso rappresentazioni che rendono onore all’arte e alla pittura giapponese. Con La storia della principessa splendente (2013), il suo ultimo film animato, candidato all’Oscar nel 2015 come miglior film d’animazione, Takahata è tornato alle origini: adattando un antico racconto popolare, sembra essere finalmente riuscito a realizzare il suo sogno di ricreare una Heidi tutta giapponese, con un disegno realizzato a mano che offre un nitido realismo all’animazione e con tenui colori ad acquerello che si sposano perfettamente con la delicata atmosfera della fiaba.
Isao Takahata non si è mai sposato, non ha avuto figli e non è mai stato al centro dell’attenzione mediatica. Ha dedicato la vita intera alla propria passione, con intransigenza e dedizione tali da rifiutare l’invito della Academy agli Oscar del 2015, per impegni di lavoro. Forse anche per questo la notizia della sua morte dalle nostre parti è passata in sordina, ma non in Giappone. Lì Takahata è “l’altro Maestro”, e i suoi connazionali si prestano a porgere l’ultimo saluto al sognatore, genio e poeta che Miyazaki stesso ha definito come «la persona di cui posso fidarmi di più».