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FocusInterviste«Il racconto a fumetti è drammatizzazione». Intervista a Matthias Lehmann

«Il racconto a fumetti è drammatizzazione». Intervista a Matthias Lehmann

Con la collaborazione di HamelinBilBOlbul riportiamo la trascrizione di un incontro con il fumettista e illustratore francese Matthias Lehmann, che in Italia ha pubblicato i graphic novel La favorita e Le lacrime di Ezechiele, entrambi per 001 Edizioni. L’incontro è stato, moderato da Alessio Trabacchini, organizzato dal festival BilBOlbul presso la libreria Ubik Irnerio di Bologna, il 16 aprile 2018, in collaborazione con 001 Edizioni, Ratatà Festival e la Fondazione Nuovi Mecenati.

Le lacrime di Ezechiele intervista Matthias Lehmann

Nel tuo ultimo libro, Le lacrime di Ezechiele, si alternano due linee narrative. La prima è la storia di Bette, che ha trent’anni, un bar, e vive a Parigi. In occasione del funerale di uno zio, Bette ritrova il suo diario e comincia a ripercorrere la propria vita. È la storia di un alcolismo adolescenziale e di un trauma che ha toccato la sua famiglia e che scopriremo solo alla fine. Mentre segue i suoi ricordi, Bette riceve da un amico un DVD con un documentario su un misterioso fumettista che si chiama Adelphi Gaillac, di cui si sono perse completamente le tracce. Nel documentario, Adelphi racconta il suo lavoro su un libro lunghissimo, tutto realizzato in linoleografia.

Per cominciare, vorrei chiederti delle origini di questo libro e in cosa lo senti vicino o distante rispetto al precedente, L’Etouffeur de la RN 115, anche dal punto di vista della tecnica utilizzata.

È difficile tracciare l’origine de Le lacrime di Ezechiele. Possiamo dire che è una forma di mise en abyme del mio libro precedente, L’Etouffeur de la RN 115, che non è stato tradotto in italiano ma solo in inglese. Era il mio primo libro, ed è una sorta di poliziesco onirico lungo quasi 250 pagine e frutto di un lavoro durato circa otto anni. Ne Le lacrime di Ezechiele ho raccontato la storia di Adelphi Gaillac, un autore che sta cercando di finire un fumetto ma non ci riesce. In questo senso è una mise en abyme, anche se lui usa la linoleografia, mentre io ho usato lo scratchboard. Ma non so se si può dire che sia questa l’origine del progetto.

Un altro personaggio importante è Ezechiele, che compare accanto a Bette e ad Adelphi in diversi punti del libro e crea un legame tra loro. Ezechiele è un’allegoria della malinconia, della tristezza, della depressione, e forse il motore di questo libro è stato anche il desiderio di raccontare un periodo di depressione che ho vissuto. Prometto che cercherò di usare un lessico un po’ più allegro nel resto della conversazione…

Un altro aspetto importante è il racconto dell’adolescenza di Bette, che diventa alcolista a sedici anni. La morte di suo zio e il ritrovamento del diario sono un’occasione per esplorare il suo vissuto e ricordare un periodo difficile. Volevo inserire nella struttura del racconto periodi temporali paralleli, e due storie molto diverse tra loro. E questa è stata un po’ la difficoltà del libro.

Per quanto riguarda la tecnica, come dicevo prima, ho realizzato il mio primo libro interamente con lo scratchboard: si parte da un cartoncino nero che si gratta per far apparire il bianco, è un processo molto lungo. Oggi non sarei più in grado di lavorare a un livello così elevato di dettaglio, perché la mia vista è peggiorata. Così, nel libro successivo, ho cercato di rendere l’effetto dell’incisione, ma con una tecnica più semplice e dinamica. Ho usato della carta per stampa offset patinata, su cui ho disegnato direttamente con l’inchiostro, riprendendo poi alcuni dettagli con un cutter per rendere l’effetto grattato dell’incisione. Quindi il processo è stato più rapido: per finire L’Etouffeur ci ho messo otto anni e per questo ce ne ho messi tre o quattro, non perché ho lavorato lentamente, ma perché almeno uno di quei quattro anni l’ho passato a bere.

ratata matthias lehmann

Per me, Le lacrime di Ezechiele è un libro che riguarda soprattutto il nostro rapporto con il dolore. Ezechiele rappresenta sì il dolore, ma anche il crogiolarsi, il rimanere attaccati al dolore. C’è un’ambiguità nella malinconia che certe volte rende difficile liberarsene. Ti riconosci in questa nostalgia del dolore avvertibile nel libro?

Sì, è in qualche modo ciò che succede con la depressione. Non sono uno specialista né uno psichiatra e preferirei evitare di dire scemenze, ma nella mia esperienza personale mi è sembrato, a un certo punto della mia vita, di essere quasi drogato di depressione e di malinconia. Avevo bisogno di assecondare una pulsione distruttiva, la tristezza assoluta… E in effetti i personaggi del libro che incontrano Ezechiele hanno una sorta di attaccamento bizzarro alla tristezza. Soprattutto Adelphi Gaillac. Infatti, Ezechiele compare più volte nel suo documentario, lo segue, torna a casa con lui, vuole parlargli ed essere presente al suo fianco. E nel momento in cui Ezechiele sparisce, Adelphi non capisce più cosa succede, lo cerca, ma non può ritrovarlo. Lo stesso succede a Bette. Quindi è un’allegoria della malinconia, ma anche del fatto che a volte ci aggrappiamo a quel sentimento.

A Macerata, nei giorni della mostra, abbiamo parlato di Cesare Pavese e de Il mestiere di vivere, uno dei libri che ho più amato: leggendolo ho avuto l’impressione che Pavese provasse una sorta di attaccamento alla sua malinconia, il bisogno di continuare a scavarci dentro.

Sento il bisogno di rassicurarvi che questo è anche un libro divertente: c’è dell’ironia, che serve anche a potenziare l’effetto drammatico del libro…

L’ironia è il superpotere dei francesi!

In che modo nei tuoi fumetti viene filtrato l’aspetto autobiografico? Hai fatto anche una piccola serie di albi autoprodotti, Lampiste, che si suppongono autobiografici e sono delle storie brevi d’infanzia.

Sicuramente c’è sempre un aspetto autobiografico, ma poi si prendono degli elementi qua e là e si costruisce una sorta di allegoria. Alla fine, la scrittura è un po’ questo: prendiamo delle cose e le ricomponiamo. Dunque sì, ne Le lacrime di Ezechiele ci sono sequenze puramente autobiografiche, parti del mio vissuto che ho utilizzato tali e quali. E così ne La favorita, anche se non ho mai vissuto esperienze tanto drammatiche come quelle dei personaggi. Credo che la narrazione a fumetti sia una sorta di drammatizzazione, nel senso teatrale del termine. Non intendo la volontà di far piangere il lettore, anche perché io cerco di essere il più sobrio possibile, ma parlo di una forma di messa in scena, di ritmo.

la favorita Lehaman
Una tavola da La favorita

Mi è venuta in mente un’altra cosa che riguarda il passaggio da L’Etouffeur a Le lacrime: una cosa che cambia molto da un libro all’altro è la messa in pagina. Dal tutto pieno e dalla composizione molto regolare de L’Etouffeur, ne Le lacrime si passa a immagini che emergono dal bianco. Cosa ti ha portato a questo cambiamento così radicale?

Sono cambiate le mie letture e i miei centri d’interesse artistici, e poi volevo proprio cambiare la composizione. Non volevo più far esplodere la pagina usando lo scratchboard, perché con quella tecnica ogni elemento bianco sulla pagina ho dovuto grattarlo via, anche lo spazio tra una vignetta e l’altra, ed era troppo complicato. L’Etouffeur è un libro sistematico, con una scansione delle pagine molto rigida, e forse anche l’aspetto grafico contribuisce alla sensazione di soffocamento intorno a cui ruota la storia, quindi quella tecnica aveva un senso. Mentre con Le lacrime di Ezechiele avevo voglia di lavorare sul ritmo, perché ne L’Etouffeur siamo immersi in un mondo che ricorda le incisioni su legno del XIX secolo, sono immagini su cui ci si sofferma più che qualcosa che avanza, che è in movimento. Con Le lacrime di Ezechiele era il ritmo a interessarmi più di tutto il resto.

E come in tutte le storie che funzionano, la tecnica corrisponde alla narrazione…

Ha funzionato così bene che non lo ha comprato quasi nessuno!

In realtà i tuoi libri hanno venduto sempre di più uno dopo l’altro.

Sì, ma quello che ha venduto di più ha venduto settemila copie…

Il trend è positivo!

Con il prossimo faccio il botto!

In questa progressione c’è anche un continuo cambiamento di tecnica. La favorita è disegnata con pennino e pennello, anche se continua a rifarsi all’estetica dell’incisione.

Mi interessa sempre far corrispondere la tecnica al racconto. L’incisione su legno è una tecnica che mi piace molto e volevo conservarla, però forse La favorita tende più verso l’illustrazione per l’infanzia. È una storia d’infanzia e volevo che il disegno incontrasse l’incisione.

Parlando di illustrazione, il tuo stile è sempre molto ricco nel ricostruire gli ambienti, che non sono mai sfondi ma luoghi abitabili – i boschi sono boschi dove uno potrebbe entrare, le case sono piene di oggetti che non servono alla narrazione ma sono lì, e verrebbe quasi da prenderli in mano -, vorrei che ci parlassi del lavoro che avevi fatto per il Festival BilBOlbul due anni fa. Avevi realizzato dei poster, in collaborazione con Cheap, che erano stati affissi in una via del centro di Bologna, ed erano continui sfondamenti immaginari su altre strade del mondo. Ci parli del tuo interesse per le strade, le piazze, e i personaggi che le popolano?

Come molti disegnatori, a volte disegno per strada. È un buon esercizio di osservazione di tutti quei segni che si possono trovare in uno spazio pubblico: i segni dell’epoca, della moda, dell’architettura e tutti quegli elementi che diventano iconici nelle immagini e nel fumetto. Quando mi hanno chiesto di realizzare i poster per BilBOlbul, avevo bisogno di farmi venire un’idea in fretta e ho pensato che sarebbe stato molto semplice usare questo espediente: i poster sarebbero stati affissi per strada e potevo disegnare immagini di altre strade. E poi avevo già un po’ di immagini di quel tipo. Ho immaginato i poster come se fossero aperture verso altre strade, finestre aperte su luoghi diversi. Ma quello che mi interessa davvero è osservare i segni che costituiscono la semiologia dello spazio pubblico e riutilizzarli per dare ritmo all’immagine e sfruttare la forza evocativa delle scene, nelle quali l’osservatore si può riconoscere perché corrispondono a situazioni quotidiane.

Il passaggio dalla tecnica dello scratchboard, che è una tecnica di sottrazione, all’inchiostro su carta usato ne La Favorita, che comporta un processo di addizione, è stato naturale o è stato un percorso graduale?

C’è una differenza anche mentale tra il lavoro di sottrazione e il lavoro di addizione. Quando lavoro con lo scratchboard ho l’impressione di trovarmi davanti a una stanza buia e di dover grattare via il nero per rischiararla. Il mio lavoro è illuminare la stanza e far apparire ciò che sta nell’oscurità. Quando lavoro con l’inchiostro succede il contrario, perché devo disegnare le ombre e i contorni. Quindi da una parte c’è un lavoro che consiste nel rivelare la luce e dall’altra uno che consiste nel rivelare l’oscurità. Ma non so se il passaggio dalla prima alla seconda tecnica mi ha richiesto uno sforzo particolare, perché lavoro sempre in bianco e nero. Al contrario, lo scratchboard non è affatto una tecnica naturale, ci ho messo degli anni per padroneggiarla.

lampiste lehmann

Questa idea di rivelare la luce dal buio e il buio dalla luce ha avuto delle conseguenze sulla narrazione?

L’uso di queste tecniche non è stato davvero concomitante allo sviluppo della storia, perché prima di disegnare scrivo sempre la sceneggiatura. Quindi prima di tutto c’è la scrittura, ma quando lavoro alla sceneggiatura immagino la storia anche dal punto di vista visivo. Per esempio, se lavoro con lo scratchboard so che le immagini saranno fatte in un certo modo, ed è una cosa a cui penso molto durante la scrittura, ma comunque il disegno viene dopo. In questo senso penso che la tecnica non influenzi tanto la narrazione quanto la lettura. Ma questa è la mia impressione del momento, domani potrei non essere più d’accordo con quello che ho detto.

Ci racconti cos’è Lampiste?

Lampiste è una fanzine a cui sto lavorando, finora ne sono usciti tre numeri. È una serie, ogni numero è lungo circa venti pagine e racconta un aneddoto della mia infanzia. Trovo che sia un esercizio divertente, perché si tratta di costruire un racconto utilizzando elementi che molto spesso sono bizzarri. Il fatto di raccontarli risveglia in me qualcosa che ha a che fare con l’autoanalisi. In ogni numero ci sono degli ospiti, e ogni copertina è realizzata da un autore diverso, a cui chiedo di disegnare me da piccolo. Spero di pubblicarne almeno una quindicina e di riunirli poi in una raccolta. Vorrei che fosse qualcosa di intimo, per questo vendo le fanzine direttamente ai miei lettori, e spesso loro mi scrivono che leggendo le mie storie si sono ricordati di episodi della loro infanzia. In parte è una cosa generazionale, spesso le persone che lo leggono hanno la mia età.

L’idea di fare una fanzine è nata anche dal mio rapporto con l’editoria, con il circuito del libro. Ho cominciato a fare le fanzine da giovane, e all’epoca avevo il controllo totale dei mezzi di produzione. Questo aspetto di autogestione mi interessa molto anche come autore. Quando ho fatto La favorita ho sentito un rapporto un po’ anonimo con i lettori. Ne ho incontrati molti, ma il libro si è diffuso a un livello a cui non ero abituato e ho avuto l’impressione di aver perso il legame con i miei lettori, che di solito sono tre o quattro persone. Pubblicare una fanzine molto piccola – Lampiste è stampata in non più di 300 copie – e venderla direttamente alle persone che mi scrivono, mi ha permesso di ritrovare quella dimensione di autogestione e microeconomia che credo sarà il futuro dell’umanità.

Volevo chiudere con una citazione di Borges ma non me la ricordo più. Era in un’intervista in cui parlava di questo tipo di rapporto anonimo con i lettori e diceva che, quando un suo libro aveva venduto solo 200 copie, gli era venuta voglia di andare a conoscere quelle 200 persone una per una. Più sono le persone e meno ha senso quello che si fa.

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