C’è un luogo che è da sempre un topos letterario a cui scrittori e poeti sono particolarmente affezionati: il mare. Sarà per il suo essere misterioso e sconfinato o perché unico percorso dato per esplorare il mondo prima dell’epoca degli aeroplani.
Sul mare, come grosse isole, navigano imbarcazioni enormi e piccolissime, che dalla terraferma sembrano immobili. In realtà si tratta di micro mondi abitati da multiple etnie, efficienti e organizzati, con i loro codici. Un ruolo importante nel codice della navigazione lo gioca l’omissione di soccorso: teniamola presente, perché è un punto fondamentale.
Dalla terraferma ci si interessa poco della vita di mare tranne quando qualcuno, purtroppo a volte per motivi propagandistici o politici, grida all’emergenza.
I numeri delle persone che cercano di attraversare il Mediterraneo (da sempre protagonista di fenomeni migratori) cresce esponenzialmente negli ultimi anni. A grandissime linee, dopo i fatti della primavera araba e dopo le guerre e gli sconvolgimenti nei paesi arabi e africani. Il tema diventa centrale nelle campagne politiche e nei governi di tutta Europa e viene affrontato con appositi piani difficili da riassumere in poche righe: il dato che ci interessa è che nel 2017 in molti hanno gridato vittoriosi alla diminuzione numerica degli sbarchi e delle operazioni di soccorso. Il risultato però è stato conseguito stringendo accordi con uno dei governi attualmente presenti in Libia, riconosciuto dall’ONU, quello di Fayez Al-Serraj. Il governo libico si impegnava a contrastare i flussi illegali, in cambio di aiuti economici.
Come questi flussi vengano contrastati è al centro delle più aspre critiche da parte di molti enti e da parte della società civile. È ormai accertato che molti migranti vengano detenuti in carceri, sorta di lager gestiti da milizie improvvisate.
Le operazioni di salvataggio dei migranti operate dalle ONG sono al centro di polemiche e pretesto di scontro politico ed elettorale, spesso senza che ci sia una reale e corretta informazione dietro al fenomeno. Le ONG sono state accusate di favorire, a diverso livello, i flussi illegali e in alcuni casi addirittura di accordi diretti con i contrabbandieri di essere umani.
Le operazioni SAR (Search and Rescue) sono tutte le operazioni di soccorso che hanno come obiettivo quello di salvare persone in difficoltà. In mare, secondo il codice della navigazione, tutte le imbarcazioni presenti sono tenute ad effettuare soccorso dei mezzi in difficoltà con obbligo giuridico. In questo modo le ONG, che sono entità che non fanno capo a stati o entità governative, possono svolgere operazioni di soccorso semplicemente trovandosi nelle aree interessate. La Guardia Costiera italiana ha un Centro di Coordinamento dei Soccorsi, la MRCC Roma, a cui fanno riferimento tutti i mezzi, militari, civili o privati coinvolti nei salvataggi.
Nel Mediterraneo operavano nel 2017 dieci organizzazioni non governative, numero in calo a causa dell’introduzione del Codice Minniti, un codice di condotta che ha lo scopo di monitorare e controllare la presenza dei mezzi di salvataggio in mare, con regole più rigide.
A bordo di una giovane ONG tedesca, ma con branche in altri stati europei, la SOS Méditerranée, a novembre del 2017 sono saliti due fumettisti che hanno scritto e disegnato un reportage a fumetti per Feltrinelli Comics, in uscita a maggio 2018, intitolato Salvezza. Parliamo in particolare di graphic journalism, un genere che è in grande crescita ma che non sempre prevede proprio l’esperienza diretta sul campo, come hanno fatto invece Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso.
Abbiamo parlato direttamente con loro, per farci raccontare come ci si prepara e come si vive un’esperienza simile, e di quello che succede dopo, quando il fumetto diventa reportage.
Come mai avete scelto proprio la ONG SOS Méditerranée e la sua nave Aquarius per il vostro reportage?
Rizzo: Ci siamo arrivati tramite un contatto in comune, Francesca Mannocchi, una giornalista de L’Espresso e LA 7 che era stata a bordo, che sta seguendo anche adesso la situazione in Libia e che conosco e ammiro.
Il contatto con l’ONG è arrivato l’estate scorsa, nel pieno dell’esplosione del codice Minniti [un codice di condotta che le ONG sono tenute a firmare e che ha limitato le libertà di manovra dei soccorritori, NDR], e molte ONG se ne stavano andando. Se n’erano andati MOAS, Save the Children… SOS Méditerranée era giovane e relativamente poco conosciuta, però avevamo le testimonianze di colleghi che erano stati a bordo, inclusa Palmira Mancuso e altri, e a bordo c’è Medici Senza Frontiere che è ben nota come un nome di garanzia.
Voi raccontate appunto come la stampa sia sempre presente nelle missioni di SOS Méditerranée, ed è parte della stessa mission dell’organizzazione.
Rizzo: A bordo sono sempre presenti dai due ai quattro giornalisti, per una questione di trasparenza. Per l’ONG è un modo per dimostrare che non nascondono nulla. Tieni presente che sono relativamente giovani, l’organizzazione ha iniziato la sua prima missione nel febbraio 2016 da subito hanno avuto giornalisti da tutto il mondo.
L’ONG come ha accolto la presenza di fumettisti, assieme a giornalisti e ai reporter?
Rizzo: All’inizio a bordo erano straniti ma anche molto curiosi. Parliamo di una realtà giovane e dinamica che ha tre branche, in Francia, in Germania e in Italia. Anche per una questione culturale, la parte francese di SOS Méditerranée era molto interessata, ma la stessa presidente italiana ha sempre detto di essere una lettrice di fumetti. Non c’era nessun pregiudizio, anzi conoscono benissimo il potenziale del fumetto come linguaggio che può anche avere un certo appeal verso i più giovani e che quindi può arrivare a determinati lettori che hanno interessi e riferimenti diversi.
Parliamo di un volume a fumetti ma più in particolare di un libro di graphic journalism. Avete all’attivo già diversi lavori di questo genere, ma mi sembra sia il primo con un’esperienza diretta sul campo.
Rizzo: In SOS Méditerranée erano un po’ indecisi per questioni formali, per ogni testata devono avere un solo giornalista a bordo per dare spazio anche ad altri. Io, da giornalista con tesserino, ero più avvantaggiato per le pratiche burocratiche e gli sembrava strano che ci fosse un’altra persona. Ho spiegato loro che era come se avessi un cameraman! Che poi Lelio abbia una sua sensibilità, il suo modo di interagire con le persone e quindi sia un punto di vista in più, è fondamentale. Lo abbiamo detto in tutti i modi e hanno capito chiaramente che questo è un lavoro che si fa a quattro mani.
È stata un’occasione unica anche per questo, spesso il giornalista parte da solo e poi si fa un adattamento a fumetti della sua esperienza. Io e Lelio assieme avevamo fatto piccole cose sul campo, ma una cosa così strutturata ancora no… noi avevamo alle spalle un editore come Feltrinelli ed eravamo sicuri che la ONG si sentisse garantita.
Bonaccorso: Per me non era proprio la prima esperienza sul campo. Nel 2012 conobbi un italiano, Fabio Brucini, che vive parte dell’anno nel Sinai. Siamo diventati amici e abbiamo deciso di raccontare quella zona, una terra poco conosciuta, e abbiamo fatto questo reportage sui beduini e sulle loro usanze [Sinai, La Terra Illuminata dalla Luna – Becco Giallo, 2017]. Il periodo in cui ho fatto questo reportage era lo stesso in cui hanno ucciso il povero Giulio Regeni, delle stragi dell’ISIS, quindi quando sono partito tutti mi dicevano che ero matto e mi chiedevano perché ci andassi con tutta quello che succedeva. Io sono andato anche per questo, per vedere se le cose erano realmente come le raccontavano in TV e mi sono accorto che non era così. Chiaramente l’Egitto non è un paese democratico come il nostro dove puoi uscire e andare dove vuoi, hanno un impostazione da regime militare, ma non è nemmeno pericoloso uscire di casa, ecco.
La SOS Méditerranée quindi ha percepito come il fumetto abbia un valore a sé, anche dal punto di vista giornalistico. C’è qualche vantaggio intrinseco in questo medium?
Rizzo: Dal punto di vista creativo l’importanza delle immagini non si limita solo alle vignette. Noi abbiamo riempito il fumetto quanto possibile di informazioni, grafiche, infografiche, tabelle, mappe, schemi, schede, che sono parte anche del giornalismo contemporaneo.
Oggi, questi sono elementi frequentissimi sui grandi quotidiani, se pensi all’ultimo restyling de La Repubblica, hanno deciso di dare risalto alle immagini: i testi sono connotati in modo da farti leggere la notizia e se vuoi approfondire i commenti sono scritti a parte con corpo anche più piccolo. Nel fumetto questa attenzione all’immagine c’è da sempre, ma non ci sarà nessun medium che possa rappresentare l’esperienza completa. Posso dire che questa esperienza è stata devastante per noi. A molte cose non eravamo preparati, ad esempio ai suoni e agli odori, nei TG o nei giornali non hai quella percezione, magari c’è il voice over sulle grida delle persone… il fumetto però ha questa capacità naturale di legare diversi codici. Nel nostro libro ci sono quattro stili diversi, uno per i frontespizi, uno per la narrazione lineare, uno stile per i flashback e uno stile realizzato interamente al PC per le infografiche.
Questa è una potenzialità che pochi altri media hanno. Tra l’altro credo che siamo riusciti ad avvicinarci al graphic journalism anche con le tempistiche perché uno dei problemi di questo genere è stare a ridosso di quello che stai raccontando come potrebbe succedere con un articolo di giornale dettato al telefono dal fronte. Noi in quattro mesi abbiamo fatto un libro da 120 pagine…
Come avete gestito questi tempi?
Rizzo: Lavorando anche su una sceneggiatura abbastanza dettagliata, con una mole di materiale pazzesca che abbiamo cominciato ad utilizzare già mentre eravamo a bordo: scenari pieni di dettagli, scene di folla, imbarcazioni e navi, tutta cose da disegnare nel dettaglio. Lelio è stato molto bravo nel trovare una sintesi del suo tratto per poter raccontare tutto questo.
Come ogni narrazione, è incompleta ma è completa come può esserlo un fumetto. Credo che siamo riusciti a sfruttare alcune potenzialità, dal punto di vista produttivo. Dal punto di vista meramente promozionale, non si era mai fatto un fumetto da una nave di soccorso. È un tema sensibile e forte, il grande tema di questi anni. Ho provato altre volte a raccontare questo punto di contatto, il momento in cui due mondi si incontrano, chi scappa e chi soccorre, questo anche per ragioni familiari, personali. Mio padre è stato un navigante, tra le altre cose, e ha partecipato a dei soccorsi. A Trapani arrivano molte di queste navi e ci sono tanti centri d’accoglienza nei quali avevo già raccolto storie. Io però volevo essere lì, al momento dell’incontro. Questa storia ha forza anche per questo, non solo per il suo primato ma perché sfrutta il fumetto che è un mezzo che, secondo un luogo comune, è immediato e semplice, può arrivare facilmente nelle scuole e raccontare questo tema ad un pubblico diverso dai soliti lettori di fumetti e appassionati.
Avete scelto di raccontare con grande equilibrio e delicatezza i momenti tragici, e di dare gran peso alla dimensione informativa al libro.
Bonaccorso: Noi non volevamo assolutamente fare una cosa retorica, ci sono già molti film e documenti su questo argomento e la gente purtroppo si sta anche abituando ai numeri dei morti, quasi non se ne cura più. Volevamo realizzare un libro utile ma non freddo e distaccato come una statistica e abbiamo trovato questo equilibrio che spero di intuisca.
Avemmo voluto inserire tante altre storie ma avremmo avuto bisogno di altre duecento pagine.

Come ci si prepara ad un’esperienza del genere? Non tanto psicologicamente, intendo in senso pratico.
Rizzo: Io seguo per passione la politica e la politica estera, e ho studiato i reportage di chi mi ha preceduto sulla nave, ad esempio Francesca Mannocchi, che abbiamo già citato. Ho studiato quello che succedeva in Libia e mi sono documentato sulle ONG. Devo dire che è molto più facile di quanto dicono. Tra l’altro, i tanto discussi bilanci sono pubblici. Ho fatto il lavoro del giornalista che si documenta prima di partire. Per quanto riguarda le storie, avevo già raccolto testimonianze dai Centri di Accoglienza, sia per il libro L’Immigrazione Spiegata ai Bambini, il Viaggio di Amal (quattro storie vere riadattate per bambini, per Becco Giallo), sia per il mio romanzo Lo Scirocco Femmina. Questo è anche il culmine di un percorso che sto provando a fare, e con Lelio abbiamo realizzato altre due storie brevi sui migranti, il racconto di una storia di integrazione qui ad Erice e il racconto di uno sbarco, rispettivamente per Wired e per un’antologia di Becco Giallo.
Avevamo seguito questo tema, anche se niente ti prepara abbastanza. A bordo vieni bombardato dalla quantità di storie che si incrociano su una isola galleggiante da cui non puoi scappare, e anche se ti chiudi in cabina queste storie ti rincorrono, ma proprio fisicamente! Tante storie che poi sono tutte tragicamente uguali. Negli ultimi giorni eravamo arrivati ad un punto in cui, anche per agevolare la mediazione linguistica, anticipavamo quello che ci stavano per dire perché sapevamo quanto avevano pagato per il viaggio, da dove erano passati… queste storie sono uguali ed è ridicolo e assurdo dal punto di vista giornalistico e atroce dal punto vista umano. Noi abbiamo seguito quattro soccorsi, ma queste cose succedono ogni giorno per migliaia di persone.
Bonaccorso: Su qualsiasi progetto ci si informa su quello che si va a vedere, per il Sinai avevo parlato molto con questo amico che mi ha accompagnato. È chiaro che poi l’esperienza sul campo non è la stessa cosa, ed è successo sia per quel libro che per Salvezza.
Sono situazioni completamente diverse. In Sinai ho raccontato i lati positivi di quella parte di Medio Oriente, come l’integrazione religiosa di islam, cristianesimo ed ebraismo. Per quanto riguarda Salvezza invece, noi ci aspettavamo un dramma ma non quello che abbiamo visto. Questa esperienza è stata davvero traumatica. Abbiamo avuto diverse difficoltà perché ci si domanda per quale motivo nel 2018, mentre si commemora l’Olocausto, ancora succedano queste cose.
Ci hanno raccontato violenze di ogni tipo: di essere stati venduti come schiavi per cento dollari, di donne e ragazzine violentate, di tutto. Però è gente che mi ha colpito anche perché non ha perso il sorriso. Vedi quello che hanno subito e glielo leggi negli occhi, però forse sono contenti di essere arrivati… abbiamo conosciuto un ragazzo eritreo di ventisei anni e alla fine gli abbiamo chiesto cosa si aspettasse dall’Europa, lui ha detto solamente, la libertà.
Si imbarcano avendo una certa idea in testa di quello che li aspetta…
Bonaccorso: Io non sapevo quale fosse la condizione politica in Eritrea e ho fatto una ricerca, hanno un dittatore dai primi anni Novanta, i ragazzi hanno l’obbligo di leva a vita e gli danno il passaporto a sessant’anni. Se hai in mente di farti una vita, non lo puoi fare. Molti si sposano e scappano assieme, per loro già essere qui è un’altra vita. Abbiamo conosciuto una ragazza eritrea che ha studiato inglese e che ci ha fatto da interprete, ha studiato inglese perché voleva vedere l’Inghilterra.
Un desiderio semplicissimo e comune a molti ragazzi, insomma.
Bonaccorso: Noi non davamo loro dettagli su dove li avrebbero mandati, un po’ perché non lo sapevamo e poi perché non puoi dare false speranze. Ad alcuni dicevamo, guardate, quella è la Sicilia, e loro ci chiedevano, ma è Italia? La ragazza eritrea ci ha chiesto, tra qualche giorno potrò andare a Londra? Loro non hanno idea della trafila che gli toccherà da quel momento in avanti…
Dal tuo punto di vista di fumettista, Lelio, come ti trovi a disegnare sul campo? Non hai difficoltà?
Bonaccorso: A me già piacciono molto le uscite libere. Quando siamo partiti, la SOS Méditerranée ci ha dato un questionario per farci indicare quali materiali avremmo portato, tipo laptop, ecc… io ho messo fogli, matite, pennarelli! Vado spesso fuori a disegnare e mi piace, anche perché è un modo, essendo io un narratore, di tenermi in contatto con la gente e di scrivere anche le storie più incredibili. Con i beduini, che parlavano arabo, i disegni funzionavano! Il disegno crea curiosità, non è come la macchina fotografica, che dà fastidio. Sono partito sull’Aquarius [il nome della nave di SOS Méditerranée, NDR] con un quadernone grande di fogli bianchi che ho riempito tutto di ritratti, storie, cose che non ci sono nel libro perché non potevamo mettere tutto. Marco li intervistava e io in presa diretta, come si vede nei processi americani, li disegnavo.
Due cose mi hanno fatto moltissima impressione: ho disegnato un anziano, sembrava avesse settant’anni ma ne aveva quarantasei, e quando ho finito lui mi ha guardato con i suoi occhi profondissimi e mi ha detto, così non ti dimenticherai mai più di me.
Aveva capito bene il senso del disegno come testimonianza.
Bonaccorso: Tutti facevano la fila per farsi fare il ritratto… l’altro evento che mi ha colpito molto è stato quando questi tre bambini, credo della Costa d’Avorio, si sono messi in posa per farsi ritrarre e mentre stavo per farlo li hanno trasferiti per sbarcarli. Di questi bambini mi è rimasta solamente la sagoma abbozzata. Il disegno l’ho lasciato così.
Quando sono andato in Feltrinelli mi hanno detto, ma il fumetto è finito, guarda quanto hai disegnato!
Da quando siete tornati, quanto tempo è passato prima di mettervi al lavoro? Avete avuto modo di far sedimentare il tutto?
Rizzo: Ci siamo messi subito al lavoro anche perché siamo partiti più tardi del previsto, a causa del maltempo, e per agevolare i soccorsi siamo rimasti più tempo a bordo: appena sbarcati abbiamo cominciato a lavorare e un paio di giorni dopo ho mandato un soggetto a Feltrinelli. Approvato, abbiamo cominciato a lavorare con la sceneggiatura. Il tempo per sedimentare è stato quello per il lato emotivo, personale. Io non ho parlato con nessuno di questo viaggio, amici, genitori, non riuscivo… ne ho parlato dopo aver finito la sceneggiatura.
Bonaccorso: ho disegnato centoventi pagine in tre mesi e mezzo, un massacro, ma mi è servito perché per disegnare così velocemente serve trovare una sintesi. Non avevo idea di come disegnare questo fumetto. Su ogni libro cerco di cambiare qualche cosa. Mi sono detto, parto, vediamo quello che viene. Ho trovato un compromesso anche col tempo, non potevo fare una cosa a colori e non volevo fare cose fredde o tirate via. Abbiamo deciso ci tenere come unico colore l’arancione, il colore delle navi da soccorso, e il viola per staccare i piani e perché complementare dell’arancione, per dare un po’ di vibrazione.
Come si selezionano le storie da raccontare? Alcune sono racconti riportati in prima persona… sono proprio loro parole?
Rizzo: Come sempre quando si fa giornalismo, e in generale per scrivere, si sacrifica qualcosa. Però dentro il libro c’è tanto. Alcune storie che abbiamo sentito ripetere più volte le abbiamo messe in bocca ad un personaggio in particolare, altre sono storie che ci hanno colpito, ad esempio quella di un signore anziano che ha lavato latrine in Egitto per mesi per potersi pagare il varco con la Libia: altre sono storie interessanti degli stessi soccorritori. Molti hanno vite incredibili. C’è una storia in particolare che ho raccolto l’ultimo giorno da un ragazzo che ci aveva fatto da interprete con un grosso gruppo di Eritrei, un ragazzo che parlava molto bene inglese. La sera dopo mi ha cercato perché voleva parlarmi della sua storia che, arrivata così alla fine, sembrava quasi un segno del destino. Non che non avessimo raccolto altro, ma la sua storia, che apre e chiude il libro, racchiude tutto, spiega perché partono, quello che gli succede, quello che succede alle donne e quello che succede ai mariti. Credo che sia la storia per la quale ho sacrificato altro.
In qualche modo le navi sono un mondo a parte, si incontrano persone e storie da ovunque. Rappresentano qualcosa di più ampio di quello che è possibile vedere dalla televisione. Ce ne vuoi parlare, Marco?
Rizzo: Da un lato c’è un po’ un effetto Erasmus, quasi, e questa cosa è divertente. Devi confrontarti con persone che vengono dal Belgio, dall’Inghilterra, dall’Austria, dalla Tunisia, dall’Egitto…
Immagino anche che loro abbiano bisogno di sdrammatizzare e scherzare un po’, durante le missioni.
Rizzo: Sì, serve a scaricare la tensione e poi è anche naturale avere curiosità su chi mangia cosa, su che musica si suona, e così via… C’è la serata dove uno prende la chitarra e uno un tamburo, la serata dove qualcuno tira fuori un gioco di società, e questo finché non arrivano i migranti a bordo. Quando arrivano gli ospiti cambia di nuovo tutto. La nave si riempie di centinaia di persone, aumentano le regole legate alla sicurezza, ci sono necessità umane, spontanee, di interagire con loro, di giocare con i bambini, di provare a farli rilassare, di provare a intervistarli.
Devo dire che in questo il fatto che avessimo un disegnatore a bordo agevolava molto la situazione, perché le persone erano incuriosite, facevano a gara per farsi fare il ritratto ed era divertente. È un micromondo a sé e devo dire che al di la delle storie terribili dei migranti ci sono le storie belle dei soccorritori. Sono persone che si mettono in ferie perché fanno tutt’altro – medici, infermieri – e vengono a fare questo. A bordo avevamo un ragazzo texano che lavora per la NASA e in ferie lavorava per Medici Senza Frontiere, un altro ragazzo che è seminarista e diceva, io devo aiutare le persone perché è il mio lavoro e lo faccio volentieri. Sono storie belle che arricchiscono questo microcosmo e che danno un po’ di speranza all’umanità.
I migranti come prendevano il lavoro di Lelio? Lo capivano? Voi raccontate che molti di loro si imbarcano senza nemmeno avere idea di cosa sia il mare, senza averlo mai visto. Probabilmente non sanno cosa sono i fumetti, tanto meno utilizzati come strumento giornalistico.
Rizzo: Al di là del relativismo culturale, il fatto che loro affrontino questo viaggio e tutto il resto, dimostra che il push factor è più forte del pull factor. C’è un dibattito sul perché vengano, magari partendo da paesi in cui non c’è la guerra. Ovviamente esistono anche le dittature, le guerre civili o estremisti islamici che mettono bombe, e la ragione per la quale scappano è evidentemente più forte di quella che li attrae a venire. Anche se non hanno idea di cosa sia il mare, anche se pensano di essere imbarcati su gommoni sicuri perché non sanno come sono fatti o perché si fidano di questi contrabbandieri che spesso sono loro concittadini o compaesani (e alla fine mafiosi), evidentemente non sanno a cosa vanno incontro, e lo posso testimoniare proprio per i racconti che ho sentito ini prima persona.
Io mi presentavo come giornalista. A qualcuno, a quelli che parlavano inglese, provavo a spiegare che stavamo realizzando un libro illustrato, un fumetto. Per fortuna il fumetto è un linguaggio internazionale, anche chi viene da Asmara o da Tripoli sa che cos’è un fumetto. Erano molto incuriositi perché noi, a differenza di giornalisti veri e propri, ad esempio un videoreporter che arriva armato di telecamera, paravento e così via, gli permettevamo di mettersi a loro agio semplicemente facendo il nostro lavoro. Vedevano Lelio disegnare, fare ritratti. Questa è stata una chiave molto utile per entrare in certi chiavistelli, molti si scioglievano volentieri. Si creavano capannelli di persone attorno a noi.
C’era anche chi mi cercava e chiedeva se ero un giornalista per raccontare, per mostrare le cicatrici, le gambe spezzate. Tutto questo dipende anche dal carattere e dalla formazione di ognuno, però in generale la voglia di parlare era più forte della paura.
Avete usato l’arancione come colore narrativamente carico. Lelio, mi ha fatto sorridere che tu abbia colorato di arancione anche la matita che nel fumetto metti in borsa. In questo caso può essere uno strumento che porta aiuto?
Bonaccorso: Con molta umiltà, io e Marco, con i nostri libri, come con quello su Peppino Impastato, e Jan Karski, e tutti gli altri, vogliamo unire il nostro lavoro e la nostra passione con qualcosa che sia utile. Volutamente non abbiamo voluto trattare l’argomento delle quote dei migranti, quello è un fatto politico su cui si può discutere. Volevamo raccontare l’esperienza di queste persone, dei soccorritori, le storie che ci sono dietro e anche rispondere a tutte quelle persone mediamente intelligenti che si interrogano su e si pongono domande, che mi ponevo anche io.
Dove prendono i soldi? Se sono poveri come fanno a pagare duemila, quattromila dollari a testa? Come si mettono in contatto dall’Eritrea con il trafficante in Libia?
Un migrante ci ha raccontato che i parenti pagano i soldi su un conto, ad esempio a Dubai… volendo fermare i flussi e bloccare i trafficanti forse basterebbe vedere dove va a finire il denaro.
Nelle storie di migranti che raccontate, una in particolare apre e chiude il libro, un elemento importante è sempre la gravidanza. Purtroppo non solo come lieto evento o come simbolo di rinascita. Ce ne volete parlare?
Rizzo: Questa cosa viene da sé: a bordo molte donne arrivano incinte, o hanno perso il bambino da poco o lo perderanno a breve. Sistematicamente quasi tutte le donne vengono violentate. Questa è una cosa che ci dicevano già i medici e che ci hanno confermato alcune ragazze con cui abbiamo parlato, il novanta per cento delle donne subisce violenza durante il viaggio. Quindi chi non è incinta, e non è detto che succeda lo stesso, rischia di rimanerci. È già un tema ricorrente in queste storie e siccome negli ultimi anni stanno aumentando tantissimo le donne che affrontano il viaggio, sarà ancora più frequente. A bordo della Aquarius sono nati cinque bambini. Alla fine, lo ricordo perché a volte c’è anche un segno di speranza, nella nostra esperienza abbiamo riportato a terra quasi mille persone vive, tranne una, ed è relativamente un lieto fine.
Mi sono accorto solo all’ultimo di questo legame quasi casuale tra le storie, in realtà.
Come vi siete divisi il lavoro, nel preparare il libro?
Bonaccorso: Questo libro è sintesi delle esperienze di due persone diverse che si sono poi fuse. Marco ha raccolto materiale, io fatto foto e video. quando siamo tornati ci siamo messi a tavolino e ci siamo detti, io voglio mettere questo, io quello, e l’abbiamo costruito assieme. La parte di sceneggiatura, il montaggio del tutto, è ovviamente di Marco.
È un libro nel quale è difficile dire dove finisce il disegno e inizia la sceneggiatura e viceversa, ci sono contaminazioni da entrambi i lati. Con Marco lavoro da un sacco di tempo, sa perfettamente cosa mi piace disegnare e io so come lui vuole che una cosa vada raccontata e ci veniamo incontro.
Questo è un nostro punto di forza e ci permette di essere dinamici.
Da dove nasce il personaggio del pettirosso, l’uccellino che diventa il narratore onnisciente del libro?
Bonaccorso: Il pettirosso è realmente esistito, ce lo siamo trovati a bordo.
Poi siccome siamo due persone diverse con punti di vista diversi, abbiamo preso un narratore esterno, per rendere la narrazione meno macchinosa e più uniforme.
Marco, tu consideri questo libro un libro militante?
Rizzo: Certo che è un libro militante. Io faccio solo libri militanti, ne sono orgoglioso. Siamo stati a bordo e abbiamo raccontato quello che abbiamo visto senza passare veline o riadattare comunicati stampa. Non abbiamo ricevuto imbeccate da nessuno, anzi, ci sono un paio di passaggi dove siamo anche critici su alcuni metodi dell’ONG. Noi non volevamo fare propaganda pro o contro le ONG, ci interessava raccontare storie. Mi interessava raccontare quel momento di contatto perché secondo me è li che si ribalta tutto, la loro situazione ma anche quella di noi cittadini europei che spesso ci voltiamo dall’altra parte. Queste persone col loro lavoro puliscono la coscienza a milioni di europei e se noi siamo amati dalle persone che arrivano da quell’inferno senza regole e senza leggi che è la Libia, lo dobbiamo senza dubbio a chi salva, cura e fa nascere bambini. Sono orgoglioso di fare sistematicamente libri di parte, perché sono sicuro che è la parte giusta.