Un autore completo
Quando Italo Calvino enumera le proposte per il nuovo millennio nelle sue Lezioni americane, definisce sei valori centrali per la letteratura a venire. Per quanto personali, derivanti dalla vita e dall’enciclopedia dello scrittore, le proposte sono elencate in ordine di importanza, partendo dalla più rilevante: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità e Coerenza (che, nel libro che ci è arrivato, manca per la sopraggiunta morte dell’autore o forse perché nel nuovo millennio, questo valore pare un po’ sopravvalutato).
C’è da chiedersi quali siano le qualità da attribuire a un autore di fumetti. Tutti i tentativi noti producono elenchi incongrui e inconsistenti che hanno a che fare con il segno, con la costruzione della pagina e con il ritmo; poi, con il racconto e l’originalità; qualche volta, si spingono fino all’uso degli strumenti e alla capacità di collaborare con le strutture editoriali. Si tratta di sistemi di valori con ogni evidenza incapaci di abbracciare la complessità delle storie in cui viviamo.
Mi concedo un tentativo personale. Un lungo elenco mentale, sibilato tra i denti, strappando valori come fossero i petali di una margherita, e mi ritrovo a maneggiare la più insidiosa tra le qualità da riconoscere a un autore: la Completezza.
Un “autore completo” è l’unico artefice di una narrazione a fumetti: la progetta, la sceneggia e la disegna. La definizione è paradossale per due motivi: da un lato, attribuisce a chi si occupa di una sola fase della realizzazione una decisa incompletezza, e quella, si sa, non è certo una virtù; dall’altro, sembra qualificare la bontà di chi realizza da solo i propri fumetti. Anche se, lo vediamo con chiarezza, le librerie pullulano di ciarpame disegnato con un unico nome in copertina, la Completezza mi seduce comunque con un suo fascino preciso: gli autori che più amo realizzano in solitudine le proprie pagine, rendendo invisibile la separazione tra sceneggiatura e disegno; forse, addirittura, non lavorano distinguendo le fasi di realizzazione. Nelle loro mani, il fumetto è un dispositivo narrativo, bello ed efficace, che prende vita dall’equilibrio tra le parti che lo compongono: nessuna ridondanza, nessuna discontinuità.
Lorenzo Mattotti, classe 1954, fin dall’esordio propende per le collaborazioni. Nel corso del tempo ha spesso lavorato con sceneggiatori, scelti con cura e misura: soprattutto Fabrizio Ostani, che si firma Jerry Kramsky, con cui ha stabilito un lungo sodalizio creativo, ma anche Antonio Tettamanti, Jorge Zentner, Lilia Ambrosi e Claudio Piersanti. Benché raramente sceneggi da solo i suoi fumetti, Mattotti è un autore “completo” come pochi altri. L’insieme dei suoi lavori, pur mostrando le evoluzioni conquistate con una ricerca continua, danno conto di una Coerenza che attraversa tanto le pagine a colori quanto quelle in bianco e nero.
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L’insostenibile leggerezza dell’etere
Diciamocelo. Questa Completezza è un valore inutile. Meglio tenersi ben saldi alle qualità definite da Italo Calvino. Leggendo le Lezioni americane è possibile affiancare le analisi di Calvino ai lavori di Lorenzo Mattotti. La coincidenza tra le sei proposte per il nuovo millennio e quanto emerge dai suoi fumetti è straordinaria.
Leggerezza, Rapidità, Precisione, Visibilità, Molteplicità e Coerenza: mi pare evidente che questi valori siano tutti presenti fin dai primi lavori di Mattotti, ma che ognuno di loro reclami in modo particolare l’attenzione del lettore in alcuni momenti. Ed è altrettanto evidente che alcuni fumetti costituiscano i punti nodali esemplari, necessari per raccontare la carriera e l’eccezionalità dell’autore.
Per esempio, la contrapposizione tra Leggerezza e Peso si manifesta fin da subito. Lorenzo Mattotti esordisce come fumettista con una rinuncia: interrompe il corso di studi in Architettura prima di iniziare la tesi di laurea. Decide di dedicarsi al fumetto, collaborando con due sceneggiatori diversi: Antonio Tettamanti, con cui realizza una serie di storie brevi per il settimanale milanese di annunci Secondamano, e Jerry Kramsky, con cui propone, nel 1977, Alice Brum Brum all’editore Ottaviano che sta mostrando una particolare sensibilità al fumetto.
Si percepisce, guardando le pagine del giovane disegnatore, una caratteristica che sarà evidente anche nei lavori successivi: tavole colme di segni, tratteggi, tessiture e campiture; anni, dopo, quando apparirà il colore, sarà evidente a tutti i lettori il peso materico e concreto di quelle pagine.
L’editore pone una condizione al fumettista quasi esordiente. Pubblicherà Alice Brum Brum, che i due autori vorrebbero invece intitolare La realtà è strabica, a patto che gli sia affiancato un adattamento letterario. A Mattotti piacerebbe lavorare sul Ragazzo rapito di Robert Louis Stevenson; dopo avere saputo che il romanzo è già stato trasposto a fumetti da Hugo Pratt, accetta il consiglio dell’editore e si dedica alle Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain. Si fa aiutare nell’impresa da Antonio Tettamanti e affronta il romanzo come se fosse uno di quei vincoli che, proprio secondo Italo Calvino, accrescono la creatività. A questo limite narrativo ne affianca uno strutturale quando decide di sviluppare la pagina su quattro strisce.
«Dopo tanti anni passati a balbettare tante maniere di disegnare», dice l’autore, «e a raccontare strambe storie alternative, il confronto con un grande classico fu l’occasione di dimostrare che ero capace di raccontare anche in maniera più tradizionale, divertendo e illustrando».
Pare quasi un discorso di normalizzazione della narrazione, fatto negli stessi anni in cui il francese Moebius teorizza l’assoluta libertà creativa del disegnatore, che può dedicarsi a racconti «a forma di farfalla o di fiamma di cerino». Eppure, confrontandosi con il romanzo di Twain, Mattotti trova una misura di narrazione e disegno. Carica la pagina di inchiostro, affastellando segni. Le sue tavole restituiscono «un western hippie e circense, tra fango e pioggia».
E quando, nell’ultima pagina, si levano alberi altissimi che attraversano tutte le vignette, la Leggerezza sprigionata da quelle foglie dense e dagli uccelli che infittiscono il cielo, riporta alla mente la chiave di lettura che Italo Calvino dà del proprio lavoro in apertura alla prima delle sue Lezioni: «Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio».
Rapidità, Fuochi e “l’orrore, l’orrore”
Quando parla di Rapidità (e, in contrapposizione, di Lentezza) Calvino si riferisce alla questione del ritmo. I tempi della narrazione e della lettura sono il nucleo vitale del fumetto. Gli autori sviluppano il racconto inseguendo due movimenti apparentemente opposti: da un lato, scelgono il momento che deve essere rappresentato; dall’altro, costruiscono la giustapposizione di quei momenti sulla pagina. L’impianto visuale della pagina è la struttura ritmica del fumetto, lo spartito che il lettore deve eseguire.
Poco dopo l’esperienza di Huckleberry Finn, Mattotti inizia a collaborare con Alter Alter. Il periodico è una costola di Linus, voluta dal direttore Oreste del Buono per trovare lo spazio ideale per il fumetto avventuroso, fantastico e sperimentale. Sono anni in cui Linus mostra un’attenzione sempre più spinta all’attualità, alla politica e alla satira e le narrazione di genere, con la loro volontà di evasione, sono possono essere guardate con sospetto.
Da gennaio 1982 appaiono i tre fumetti che maggiormente segnano il raggiungimento della maturità artistica del fumettista: Il signor Spartaco, Doctor Nefasto (con il consueto Jerry Kramsky) e Fuochi. In quelle pagine emergeranno gli stili e le tecniche che Mattotti userà negli anni successivi. Ma il vero elemento unico e distintivo che colpisce i lettori è il ritmo, personalissimo e inconfondibile, dell’autore.
Italo Calvino conclude la sua lezione sulla Rapidità con una storia: «Tra le molte virtù di Chuang-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. ‘Ho bisogno di altri cinque anni’ disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto».
Mattotti non è un disegnatore da gesto unico e continuo, eppure la linearità della rappresentazione lieve di Chuang-Tzu è una posizione poetica che il fumettista sembra abbracciare con risoluzione. Lo sviluppo del racconto nelle tre storie per Alter Alter fa continuo riferimento alla ricerca di ritmo e metrica narrativa.
Il graphic novel è oggi una sorta di modello unico con il quale gli autori che non fanno fumetto seriale devono confrontarsi. Nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso, quel modo del racconto cercava un punto di approdo. Erano gli anni in cui, in Francia, (À suivre) dichiarava con fermezza che una storia non doveva svilupparsi necessariamente nelle 48 pagine dell’albo cartonato francese ma poteva assecondare, con la propria lunghezza, i desideri dell’autore; erano gli anni in cui Raw, negli Stati Uniti, cercava uno spazio per il fumetto fuori dal modulo delle 32 pagine spillate del comic book e, per farlo, accoglieva gli europei e permetteva la pubblicazione a puntate di Maus di Art Spiegelman; erano gli anni in cui, in Italia, un gruppo di autori sperimentava narrazioni a fumetti nell’inserto “Valvoline Motorcomics” pubblicato proprio da Alter Alter…
Questi autori erano Igort, Daniele Brolli, Giorgio Carpinteri, Marcello Jori e, appunto, Mattotti e Kramsky. E proprio mentre gli altri membri del gruppo cercavano un racconto dal ritmo diluito, capace di confrontarsi con il cinema, la moda, l’arte, i videogiochi e il romanzo, Mattotti sviluppava una metrica della narrazione carica di ellissi, suggestioni, ripetizioni, metafore. Un linguaggio che fa pensare più alla poesia che al romanzo, una sorta di graphic poetry.
Questa esperienza culmina sulle pagine di Fuochi, un racconto che sembra fare esplicito riferimento a due romanzi brevi di Joseph Conrad: Linea d’ombra e Cuore di tenebra. Come il protagonista di Linea d’ombra, Mattotti sembra pronto abbandonare la giovinezza e a entrare nell’età adulta. Ma per farlo, dovrà prima affrontare una bonaccia spaventosa.
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Maat, la precisione del mattone
Per chiarire il concetto di Esattezza, Calvino apre la sua terza lezione americana con una metafora: «La precisione per gli antichi Egizi era simboleggiata da una piuma che serviva da peso sul piatto della bilancia dove si pesano le anime. Quella piuma leggera aveva nome Maat, dea della bilancia. Il geroglifico di Maat indicava anche l’unità di lunghezza, i 33 centimetri del mattone unitario, e anche il tono fondamentale del flauto».
Maat è una piuma-mattone che dice molto anche di Mattotti; un’astrazione consapevole della propria leggerezza e del proprio peso, capace di essere allo stesso tempo una dea, un’unità di misura precisa e un tono esatto del flauto.
Dopo i tre fumetti pubblicati su Alter Alter e il successivo Labirinti, scritto sempre con Kramsky, Mattotti si confronta con Pinocchio di Carlo Collodi. Per gli illustratori, il testo collodiano è quasi un passo obbligato: ne esistono innumerevoli versioni e l’immaginario visuale che ruota attorno al burattino è estremamente codificato. A Mattotti i vincoli non fanno paura e affronta il classico per l’infanzia con colori densi, immaginario lunare e il senso del ritmo maturato sulle pagine dei fumetti.
Dopo questa esperienza, è ancora una volta un vincolo a riportarlo al fumetto. In occasione del cinquecentenario della scoperta delle Americhe, nel 1992, racconta per i testi di Jorge Zentner la vita di Caboto.
Non c’è nulla che richieda più esattezza del racconto biografico. La precisione degli eventi, veri o presunti, è essenziale per lo sviluppo della storia. Ancora di più, Caboto è un esploratore, un cosmografo e un cartografo: si affida nella vita a strumenti di navigazione, che gli permettono di tracciare rotte ineludibili. Che poi queste conducano in Canada, nella convinzione di essere in Cina, non è poi così importante. Ciò che conta è l’esattezza che, spiega Calvino è «soprattutto tre cose: 1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato; 2) l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili […]; 3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione».
Caboto è esattamente questo. Un gioiello di precisione e un gioco di sguardi. Gli occhi del lettore e quelli di Caboto si sovrappongono e si inseguono su ogni pagina, evidenziando il punto in cui anche questo valore calviniano raggiunge il proprio culmine espressivo nell’opera del fumettista: da questo momento Mattotti è anche Maat, capace di alterare il peso delle proprie pagine con scelte di stile, di tecnica e di tensione ritmica e, al contempo, di definirsi come unità di misura per il fumetto internazionale.
L’alta fantasia diventa visibile alla finestra
Nello stesso anno in cui esce Caboto, l’editore Feltrinelli, storicamente poco avvezzo alla pubblicazione di fumetti, dà alle stampe un altro libro di Lorenzo Mattotti. Si tratta de L’uomo alla finestra, scritto con Lilia Ambrosi.
È la storia di un amore giunto a fine corsa, visto dall’interno della relazione affettiva. In questo fumetto, di lunghezza che, in quel mercato editoriale, pare straordinaria, Mattotti mette in luce stili, tecniche e ritmi che, fino ad allora, erano stati solo accennati. Il racconto nasce da un reticolo di linee sottile che si intrecciano e si abbracciano, appassionate, come i corpi dei due protagonisti.
Il racconto, come dichiarato programmaticamente fin dal titolo, è tutto incentrato sulla Visibilità cui Calvino dedica la quarta lezione americana. Quella conferenza inizia con una citazione dal Purgatorio di Dante, «Poi piovve dentro a l’alta fantasia», che permette allo scrittore di rimarcare la fisicità della fantasia: un posto dentro cui può piovere.
Frequento abitualmente la Bovisa, il quartiere in cui abitava Mattotti durante il suo periodo milanese, e non riesco a passare sotto la finestra che dà il titolo al racconto senza levare lo sguardo nella sua direzione. Spero sempre di intravedere le ombre che si muovono dietro quella lastra di vetro che abita la mia immaginazione. Non succede mai. Però qualche volta piove e le gocce la colpiscono.
Quando Italo Calvino deve spiegare cosa intende per Visibilità, parla del modo in cui la lettura dei fumetti ha modificato il suo modo di leggere la realtà. Si riferisce ai poderosi volumi che sua madre otteneva raccogliendo le annate del Corriere dei Piccoli. Racconta di come, bambino, fosse ben disposto a ignorare completamente i versetti in rima baciata che accompagnavano ciascuna immagine e si raccontasse delle storie complesse e articolate su quei personaggi americani che, anni dopo, avrebbe scoperto essere tradotti “a lume di naso” da gente che «non aveva la minima idea di quel che poteva essere scritto nei balloons». La lettura di quelle immagini, completamente prive di vincoli verbali, garantiva a Calvino infinite possibilità combinatorie: storie che modificavano il proprio senso a ogni sguardo, in cui personaggi di serie diverse si passavano il testimone per proseguire il racconto.
Mattotti costruisce pagine dense di segno e narrazione pensate per consentire foreste di simboli. La rappresentazione della realtà, pur mantenendo grande esattezza, è un affastellarsi di segni che riveste il mondo di metafore. L’aggettivo “poetico” è spesso un comodo rifugio per chi non riesce a riconciliare le astrazioni testuali con il mondo concreto che queste vorrebbero raccontare, eppure con Mattotti è difficile riuscire a pensare a un aggettivo più calzante. Ed è proprio Calvino, spiegando cos’è la Visibilità, a dire, in modo ineccepibile, il senso della poesia di Lorenzo Mattotti: «Penso a una possibile pedagogia dell’immaginazione che abitui a controllare la propria visione interiore senza soffocarla e senza d’altra parte lasciarla cadere in un confuso, labile fantasticare, ma permettendo che le immagini si cristallizzino in una forma ben definita, memorabile, autosufficiente, icastica».
Molteplicità: «Getta tutto se stesso nella pagina»
Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di Robert L. Stevenson, che noi italiani abbiamo a lungo letto nella traduzione di Oreste del Buono, è uno tra i romanzi più importanti sulla doppiezza dell’individuo. L’unicità dell’io si contrappone al dualismo del confronto con un doppelgänger su cui riversare un’etica bifronte che rende evidente le virtù e nasconde i vizi. Mattotti mette in pagina il dualismo di Jekyll & Hyde in un libro scritto con Kramsky.
Gli adattamenti letterari, per lui, non sono una novità. Come non lo sono la costruzioni di atmosfere suggestive e avvolgenti, il ritmo della pagina dato dalla disposizione dei colori pastosi, e l’inquietudine scatenata da figure tondeggianti che si muovono con violenza sulla pagina. Stupisce invece come, in questo periodo, emerga una nuova contrapposizione di opposti nell’opera di Mattotti.
I lettori si sono abituati al fronteggiarsi binario di fumetto e illustrazione, di pittura e animazione, di pennello e pennino, di colore e bianco e nero. Tutti i valori calviniani fino a qui indagati, al loro emergere nell’opera di Mattotti, rivelano la propria presenza grazie alla contrapposizione con i loro esatti contrari.
Negli stessi anni in cui il disegnatore lavora a Jekyll & Hyde (e a Stigmate, con Claudio Piersanti, a Il rumore della brina, con Zentner, e alle raccolte di illustrazioni Angkor, La Stanza/Stanze e Nell’acqua), sta progettando una serie di libricini destinati a un pubblico di bambini, ognuno dei quali contenente un racconto dei Pittipotti, paciose creature che accompagnano il capitano Barbaverde. Il disegnatore passa con disinvoltura dalle atmosfere vittoriane di Stevenson alla semplicità delle narrazioni destinate all’infanzia. E senza l’aiuto di una pozione capace di permettere sdoppiamenti.
Parlando di Molteplicità, Calvino fa un immediato riferimento a Carlo Emilio Gadda e a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. L’inconoscibilità del mondo e l’impossibilità di risolvere il giallo che sta al centro del romanzo sono rappresentate dalla metafora dello gnommero, il gomitolo, che è «un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti».
Raccontare Gadda all’audience statunitense cui le Lezioni americane erano rivolte è un’impresa assai complessa. Per farlo, Calvino usa parole che mi pare proiettino un cono di luce sull’opera di Mattotti, tanto si adeguano ai suoi lavori: «Come scrittore, […] ha elaborato uno stile che corrisponde alla sua complessa epistemologia, in quanto sovrapposizione dei vari livelli linguistici alti e bassi e dei più vari lessici. Come nevrotico, […] getta tutto se stesso nella pagina che scrive, con tutte le sue angosce e ossessioni, cosicché spesso il disegno si perde, i dettagli crescono fino a coprire tutto il quadro».
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Un’eterna ghirlanda brillante… e coerente
Calvino non riuscì a scrivere l’ode all’ultimo dei valori per il nuovo millennio. Esther Judith Singer “Chichita” Calvino, vedova dello scrittore, nell’introduzione alle Lezioni americane, chiarisce questa assenza: «Manca la sesta, Consistency e di questa solo so che si sarebbe riferito a Bartleby di Herman Melville. L’avrebbe scritta a Harvard».
«Preferirei di no», risponde Bartleby alle richieste di un mondo che lo vorrebbe attivo e pronto al cambiamento. La sua “signorile cadaverica indolenza” lo condurrà alla disoccupazione, al vagabondaggio, alla prigione e, infine, alla morte d’inedia. Come il racconto di questo strano personaggio possa essere il nodo centrale attorno al quale sviluppare l’analisi del valore Consistency rimarrà per sempre un mistero. Allo stesso modo non sapremo mai quale lemma italiano avrebbe scelto Calvino per trasporre quel valore. Alcuni indizi ci fanno ipotizzare che lo avrebbe tradotto con Coerenza.
Ghirlanda, scritto ancora una volta con Kramsky, è l’ultimo e il più lungo dei fumetti realizzati da Mattotti fino a oggi. Uscito nel 2017, accumula suggestioni per raccontare il mondo fantastico di Ghirlanda, popolato dai Ghir e da una infilata di creature straordinarie. Gli autori dedicano il libro al mondo dei Moomin di Tove Jansson, a Moebius e a Fred.
In apertura di Ghirlanda c’è anche un’altra dedica, altrettanto esplicita, che non ha bisogno di parole per essere espressa: quella ad Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll. La dedica abbraccia, in modo circolare e avvolgente, proprio come una ghirlanda, anche il primo disegnatore di Alice, John Tenniel. Il libro di Mattotti e Kramsky si apre infatti con una vignetta in cui il narratore scosta con la mano sinistra il sipario e invita i lettori a entrare in un mondo meraviglioso. La prima apparizione di Alice, rappresentata da Tenniel, mostra la bambina mentre dischiude una tenda per scoprire la porta, piccolissima, che la condurrà nel Paese delle Meraviglie.
Tutti i valori enumerati da Calvino sono presenti nel lavoro di Mattotti fin dall’inizio e, nel tempo e in ordine di importanza, manifestano la propria presenza. Alla fine, anche la Coerenza appare e richiude l’intera opera in un anello di Möbius che si annoda su se stesso e riporta il lettore al punto di partenza. Il mondo leggero, rapido, esatto, visibile, molteplice e coerente di Mattotti è racchiuso in una dichiarazione di poetica che tiene tutte le opere dalla prima all’ultima. Dalla realtà strabica di Alice Brum Brum al mondo vorticoso dei Ghir, passeggiando per il Paese delle meraviglie.
Questo articolo è un estratto del libro Lorenzo Mattotti. Tutte le forme del colore, pubblicato da Comicon Edizioni.