La fidanzata di Minami, di Uchida Shungiku. La svolta pop di “Garo”

Sin dal suo primo numero, la rivista Garo (1964-2002) aveva sempre fatto parlare di sé. Eccessiva, violenta, intellettuale,eticamente scorretta, sperimentale, visionaria. In poche parole, Garo rappresentava l’esatto contrario di una rivista di manga mainstream.

Quando iniziava la pubblicazione di Kamui-den (“La leggenda di Kamui”, 1964-71) per mano di Shirato Sanpei, gli studenti universitari tornavano a interessarsi al fumetto (uno svago pensato in quegli anni solo per un pubblico di bambini e adolescenti) ed eleggevano Kamui a simbolo della loro contestazione: Garo andava sfoggiata ed esibita con orgoglio.

Il primo numero di “Garo”, del settembre del 1964. Copertina di Sanpei Shirato

Se già il gekiga aveva aperto nuove strade rivolgendosi a un pubblico di soli adulti, l’operato di Garo non aveva fatto altro che cementare lo stesso impegno, nel tentativo di recepire le nuove istanze e dar voce ai nuovi autori. A fornire un contributo fondamentale alla rivista ci aveva pensato il suo fondatore, Nagai Katsuichi, che per primo aveva permesso ad artisti come Tsuge Yoshiharu, Nagashima Shinji, Hayashi Seiichi e Takita Yū di dar libero sfogo al proprio estro creativo senza alcun tipo di restrizione.

Con gli anni, però, Garo ha iniziato a smarrire la propria identità, proponendo, tra gli anni Ottanta e Novanta, autori che si distinguevano più per l’efferatezza e la morbosità delle storie, che non per la carica “contestatrice” che l’aveva sempre contraddistinta. Certo è che il “marchio” di Garo di “anti-rivista” non si è perduto strada facendo, anzi, le aberrazioni e le violenze di Maruo Suehiro, Hisauchi Michio e Hanawa Kazuichi sono ancora lì a ricordarcelo.

Eppure, al contempo, sono emerse nuove voci – soprattutto di donne – che, grazie a un disegno gradevole e mai volgare, sono riuscite ad accaparrarsi una larga fetta di pubblico, facendo avvicinare a Garo anche persone che un tempo non si sarebbero mai spinte all’acquisto della rivista. Qualche nome: Tsurita Kuniko, Yamada Murasaki, Sugiura Hinako e Kondō Yōko. Se Tsurita era riuscita a imporsi grazie a uno stile evocativo e simbolico, Yamada, Sugiura e Kondō – da subito soprannominate le “tre ragazze di Garo (Garo sannin musume) – avevano regalato al fumetto un nuovo linguaggio, più vicino alla confessione e allo svelamento di sé.

fidanzata Minami uchida manga fumetto coconino

L’attenzione mediatica e la conseguente “rinascita” di Garo avvenivano intorno alla metà degli anni Ottanta, grazie alla promozione di nuovi artisti e nuove opere pronte ad essere assorbite dal meccanismo del media mix (animazione; film; terebi dorama; etc.). In particolare, sono due i manga – peraltro scritti da due donne – che avevano contribuito al rilancio della rivista, in termini di visibilità e vendite: Minami-kun no koibito (La fidanzata di Minami, 1986) di Uchida Shungiku e Nekojiru udon (Catsoup, 1990) di Nekojiru.

Seppur raccontati con stili diversi – aggraziato e kawaii in Minami-kun; dissacrante e squisitamente pop in Nekojiru udon – entrambe le opere avevano raccolto i favori del pubblico che ne aveva decretato in breve tempo il successo. Si trattava di due manga che, a differenza degli altri titoli di nicchia proposti su Garo, si erano prestati benissimo a una commercializzazione su larga scala. Basti pensare, ad esempio, che Minami-kun no koibito è stato oggetto di ben quattro trasposizioni per il piccolo schermo (1990,1994, 2004, 2015). Un record per un fumetto che, in pochissimi anni, era riuscito ad assurgere al rango di “classico”. Ma di cosa parla quest’opera?

La fidanzata di Minami, secondo titolo della neonata collana Doku di Coconino Press, racconta la storia di Chiyomi, una liceale che, all’improvviso, si ritrova con un corpo minuscolo, del tutto simile a quello di una bambola di 15,6 centimetri e dal peso di 40 grammi.

Chiyomi, che tutti credono sia scappata da casa, vive invece dal suo fidanzato Minami: lui le cuce i vestiti, le prepara da mangiare, la porta in giro nel taschino della sua camicia, le costruisce una casa in miniatura, le taglia i capelli e le fa il bagno. I due vivono come una coppia, consci, però, di non potersi comportare come tali: non possono baciarsi, non riescono a fare l’amore, non possono passeggiare mano nella mano o fare un viaggio.

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A una lettura più superficiale, La fidanzata di Minami potrebbe apparire come una semplice commedia agrodolce incentrata su un improbabile rapporto di coppia. In realtà, però, il sostrato che regge l’intero impianto narrativo è composto da alcuni spunti autobiografici. Chiyomi, infatti, potrebbe rappresentare l’alter ego di Uchida (seppur con motivazioni differenti, anche lei, da adolescente, era fuggita di casa a sedici anni), così come Minami potrebbe descrivere il futuro ritratto di Uchida come madre.

Le attenzioni di Minami nei confronti di Chiyomi – il bagno, i vestiti, il cibo minuziosamente tagliato, l’istruzione, etc. – rispecchiano quelle che l’autrice avrebbe affrontato come madre qualche anno più tardi. Rimarcano, insomma, il senso di responsabilità nei confronti di una vita piccola e fragile: attenzioni che l’autrice, da piccola, non aveva mai ricevuto.

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Uchida scrive e disegna questo manga a ventisette anni, quando ormai ha tagliato qualsiasi rapporto con la sua famiglia di origine. Non è un caso se nel manga le figure genitoriali sono quasi del tutto assenti, rappresentate in maniera vaga (si pensi alla madre di Minami ritratta sempre senza un volto o di spalle) o solo attraverso le loro voci.

L’inaspettato (e sconcertante) finale sembra rivestire, per Uchida, un duplice significato: da una parte, il rifiuto della maternità in seguito alle violenze subite durante l’adolescenza; dall’altra, il ricordo inconscio di un aborto subito a sedici anni, quasi una sorta di rielaborazione per una perdita mai dimenticata.


* L’autore di questo intervento, apparso originariamente sul blog Una stanza piena di manga, è anche il traduttore per l’edizione italiana de La fidanzata di Minami e curatore della collana Doku di Coconino Press.