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Scott Free è il maestro della fuga e ha cercato la sua sfida definitiva: sfuggire alla morte dopo essersi tagliato le vene. La sua compagna Big Barda sembra averlo salvato portandolo in tempo in ospedale, ma Scott è davvero ancora vivo? Il suo nuovo idillio domestico è il paradiso? La guerra con Apokolips è l’inferno? Le scene televisive sono allucinazioni dello stato comatoso? I Nuovi Dei che lo visitano apparizioni in un limbo ultraterreno? Quale che sia la vostra interpretazione poco importa, valgono tutte, e in fondo è anche giusto così.
Forse meno giusto è stato investire di questa ambiguità tutte le 12 parti di Mister Miracle, se in fondo non c’è mai stata l’intenzione di risolverla, perché in ultima analisi questa marea di possibilità aperte che cosa aggiunge? Certo permette di mantenere il tono tra il tragico e l’ordinario e venarlo di un sentore allucinatorio, ma alla fine il gioco di Tom King non si rivela forse altrettanto effimero di un sogno febbricitante?
Per fortuna tutto è strutturato con un gran senso del racconto e la continua voglia di cercare soluzioni narrative spiazzanti e originali. L’intera incursione nella fortezza di Orion, per esempio, è accompagnata dai dialoghi sull’arredamento dell’appartamento di Big Barda e Scott e si conclude con una rivelazione da commedia romantica.
Mitch Gerads conferma da Sheriff of Babylon una alchimia fantastica con King e se la cava anche nelle scene d’azione, sebbene l’impronta con gabbia a nove vignette non gli permetta nemmeno di cercare il confronto con la visionarietà di Kirby. Gerads deve infatti seguire King nel percorso di de-mitizzare i nuovi dei e non cerca pose iconiche né scene sbalorditive, anzi riduce all’ordinario anche i Nuovi Dei, caricandone le loro espressioni facciali. Collocandoli all’interno di un appartamento, inoltre, rende bene l’idea di quanto fuori luogo e assurdi possano essere i loro costumi. Il disegnatore dà del suo meglio nella modulazione di ripetizioni e varianti nelle scene di dialogo e se la cava anche nel coreografare l’azione, che volutamente comunque non è mai spettacolare.
Su tutto, prevalgono il taglio da rom-com, che solo verso la fine della serie si fa un po’ più drammatico nelle scene domestiche, e il dichiarato tentativo di decostruire figure mitiche come quelle di Kirby. Al punto che Scott e Barda sono aiutati da Funky, una caricatura del sorridente Stan Lee, che ama dire Excelsior e a un certo punto racconta una storia dicendo di aver messo solo le parole, mentre l’immaginazione è tutta di un altro. Sembra una stoccata di Kirby a Lee, ma a ben vedere l’operazione di King è piuttosto di aggiungere l’eredità di Lee, portata alle estreme conseguenze (e quindi a Brian Bendis), all’opera di Kirby.
Il battibecco domestico domina su tutto, i Nuovi Dei sono privi di gravitas e anzi sono resi ridicoli dalla loro presunzione di importanza. Persino Darkseid – nel momento francamente meno riuscito di tutta la serie – ne esce sminuito. Cosa che fa pensare come questi non siano davvero i Nuovi Dei e sia tutto un teatro della mente di Scott. Le parole di Metron sembrano confermarlo, ma King preferisce non sciogliere l’ambiguità e dirci che in fondo questa è sia la vera fuga di Scott dalla vita, sia la vita da cui non può o non vuole fuggire.
L’altro elemento cardine del racconto, più drammatico, riguarda la paternità: Scott è stato affidato da suo padre a Darkseid quando era ancora un infante, perché fosse cresciuto su Apokolips e in quel modo fosse garantita la pace. Che però non è mai arrivata e non poteva arrivare, tanto antitetiche e destinate alla lotta sono Apokolips e Nuova Genesi.
Ora Scott si trova non solo di fronte a un catartico confronto con la sua sadica figura materna Nonnina Cara, ma pure nella condizione di suo padre a dover decidere se accettare o meno il sacrificio del figlio. Quest’ultimo del resto rappresenta implicitamente anche la più ovvia delle risposte al tentativo di Scott di sfuggire alla morte. La vera domanda è se Scott non volesse in fondo sfuggire alla vita, ma anche riguardo a questo non c’è risposta, e ognuno interpreterà la serie come crede.
L’ambizione è dunque molto alta, ma l’artificio finisce per mangiarsi un po’ la storia, e nell’equilibrio di Mister Miracle la bilancia pende decisamente dalla parte della decostruzione dei miti dei supereroi che franano contro le avventure della quotidianità. Non è un’idea nuova (basti pensare a Jessica Jones e Luke Cage), ma King la sa raccontare bene e la applica a personaggi che non potrebbero essere più divini, spingendola al limite estremo.
Si tratta del resto di una ossessione dello scrittore, che su questo punto faceva vertere anche buona parte di Visione, dove la famiglia era per il protagonista ben più importante delle scazzottate di turno. Anche la sua run di Batman, che gira a lungo intorno al possibile matrimonio con Catwoman, va nella medesima direzione, sebbene in modo meno dissacrante. E del resto pure in Heroes in Crisis assistiamo alla fragilità umana degli eroi, che sono come reduci traumatizzati o vittime della “opiod crisis” americana, che dagli antidolorifici presi per una qualche ferita finiscono per precipitare in una spirale di dipendenza.
L’empatia di King e la sua voglia di rendere più umani che mai gli eroi è forse la sua aspirazione artistica principale, ma confligge qui con la sua altra aspirazione, quella di essere scrittore adulto, raffinato e post-moderno. Uno scrittore che vuole giocare con le aspettative del lettore, alternare realismo e fantastico, flirtare con l’onirico e proporre in fondo una visione del caos e dell’entropia, una crisi del senso, che va accettato nella sua frammentarietà e ricercato quindi nei singoli frammenti, coscienti però della contraddizione che si ingenera avvicinando i frammenti tra loro.
Tutto questo è più cerebrale che empatico, senz’altro raffinato e comunque umanista, ma pure artificioso e narcisista, nel momento in cui si ricordano più i singoli pezzi di bravura che non la storia nel suo complesso. Intendiamoci: Mister Miracle rimane una gran serie, mille miglia sopra lo standard supereroico. Coraggiosa, ma alla fine priva del coraggio di scegliere (anche se non dubitiamo che per molti lettori avrà invece il coraggio di non-scegliere).
Preferisce tenersi la botte piena e il lettore ubriaco. Rispetto alla lucidità tragica di Visione, quella di Mister Miracle può sembrare la soluzione più ardita e moderna, ma in fondo è pure la più facile.