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FocusIntervisteRobert Kirkman: «Il male rende le storie interessanti»

Robert Kirkman: «Il male rende le storie interessanti»

Dopo la presenza nel 2017, Robert Kirkman è tornato nuovamente in Italia, come ospite dell’edizione 2018 di Lucca Comics & Games. Ormai a suo agio tra le strade di Lucca e gli eventi della manifestazione, Kirkman si è prestato per il secondo anno di fila a un’incontro esclusivo con i giornalisti, nel quale ha parlato soprattutto di The Walking Dead (fumetto e serie tv) e della conclusione di Invincible, arrivando persino a fare un salto indietro nel tempo per ricordare il suo lavoro in Marvel.

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Fin dall’inizio della tavola rotonda Kirkman è sembrato interessato a discutere del ruolo dei fumetti da un punto di vista industriale. Secondo l’autore americano «una delle cose che il fumetto fa bene è nutrire e condurre nuove idee nelle coscienze delle persone. Per realizzare un fumetto bastano poche persone, non ci sono grossi budget e c’è un aspetto visivo che i romanzi non hanno. Penso sia per questo che nei fumetti si concretizzano le idee più pazze, che negli altri mezzi non verrebbero mai tentate».

Pazzo e anticonvenzionale, nell’opinione dello scrittore, è stato ideare per esempio una serie supereroistica come Invincible, violenta e con relazioni atipiche tra i personaggi (per un prodotto di supereroi), sapendo oltretutto che sarebbe arrivata a conclusione, eventualità improbabile per ogni testata che punta alla serialità senza fine.

Anche The Walking Dead è destinato a concludersi. In particolare, le vicende di Rick Grimes, il protagonista della serie, stanno per esaurire il loro corso, tanto nello show televisivo quanto nel fumetto. «Rick morirà» afferma perentorio. «È il piano fin dall’inizio, sarà diverso da come avviene nello show e non vi dirò quando, ma anche se la sua storia è al centro della serie è mia intenzione continuare la testata senza di lui. È solo frustrante che la tv ci sia arrivata prima del fumetto.»

L’incarnazione televisiva di The Walking Dead ha appena tagliato il traguardo della nona stagione, tuttavia i primi episodi trasmessi hanno registrato ascolti sotto le aspettative. Interrogato a proposito da Fumettologica, Kirkman frena gli allarmismi della stampa americana, che si è affrettata a dare per morta la serie.

«È vero, meno persone stanno guardando la nona stagione. Il calo può essere giustificato dal cambiamento del panorama televisivo, la gente non guarda più la televisione allo stesso modo e tutti gli show ne stanno soffrendo. The Walking Dead è lo show più popolare della rete e ogni volta che starnutisce ci sono articoli che ne parlano. Scrivono che è il record negativo di ascolti ma poi nel terzo paragrafo si legge che “rimane lo show numero uno della serata”. Certo è frustrante che il pubblico sia diminuito, ma non tutti resistono a così tante stagioni, quindi c’era da aspettarselo.»

Kirkman ha poi affrontato l’aspetto imprenditoriale del mestiere di fumettista, che negli anni è mutato gradualmente in quello di creativo a capo di un’azienda. «Ho una squadra che gestisce tutte le licenze. Sanno cosa voglio e la qualità che pretendo dai prodotti», ha replicato alla nostra domanda sulla gestione del doppio ruolo di imprenditore e autore. «Se non avessi il mio team probabilmente mi comporterei come Bill Watterson, che non ha mai voluto concedere la licenza di nulla. Solo che io non lo farei per integrità, più per pigrizia.»

Negli adattamenti dei suoi lavori dice invece di essere molto più coinvolto, approvando design e supervisionando tutte le scelte creative generali. Certo, ammette, tutti gli aspetti ancillari della sua etichetta intaccano la sua ruotine lavorativa, ma lo sceneggiatore cerca di trattarlo il più possibile come un lavoro d’ufficio: «Timbro il cartellino, sto in ufficio dalle nove della mattina fino alle sei del pomeriggio, poi torno a casa dalla mia famiglia, che abbia finito o meno il lavoro. Non aspetto la musa ispiratrice. In un giorno produco dalle tre alle otto pagine, interpellando la scrittura a meeting, telefonate o interviste».

Particolarmente attento alla comunicazione, quest’anno Kirkman ha sperimentato due approcci diversi di marketing. In primavera ha messo in piedi una macchina promozionale importante per reclamizzare l’uscita della nuova serie Oblivion Song, e in estate ha optato per una mossa in voga nel mercato discografico, facendo uscire un nuovo fumetto, Die!Die!Die!, senza preannunciarlo al pubblico. «Sono a un buon punto della mia carriera ed è mia responsabilità fare cose diverse» ha spiegato.

«Per Oblivion Song abbiamo fatto di tutto, talk show, trasferta qui a Lucca, promozione varia. È stato uno sforzo importante, volevo vedere quanto questo influisce sulle vendite. Oblivion ha venduto bene ma mi è venuta la curiosità di vedere come funziona l’annuncio improvviso rispetto allla costruzione dell’hype.»

La risposta, ha concluso, è stata buona, «abbiamo ricevuto copertura mediatica e in futuro potrò valutare come procedere ma per ora è interessante vedere che i lettori mi supportano a prescindere».

Alla fine, abbiamo voluto chiedere a Kirkman che ricordo avesse dei suoi anni in Marvel. «Essere in grado di usare i giocattoli altrui è stato divertente», ha detto con un tono di voce agrodolce, «ma è una cosa di cui non sento più il bisogno. Se sei in grado di creare nuove idee è tua responsabilità farlo, e mi piace che nessuno mi dica cosa scrivere, è l’unica cosa che non mi piaceva della Marvel. Spero non sembri un problema di ego, ma se vogliamo essere onesti sono felice della mia situazione: le storie che scrivo se sono sbagliate sono sbagliate perché l’ho deciso io, mi piace creare cose nuove e sapere che se voglio cambiare strada senza preavviso posso farlo senza chiedere l’approvazione di nessuno.»

Ora Kirkman guarda al futuro, a trovare nuove storie che raccontino «la lotta tra il bene e il male. Siamo tutti attratti da questa forza oscura che è il male, ed è ciò che rende interessanti le storie».

Lo stesso tema che permea Outcast, la sua serie horror anch’essa in procinto di concludersi. «Mi mancano nove numeri – anzi dovrei proprio mettermi al lavoro per scriverlo. Outcast è stato il primo fumetto che sapevo come sarebbe finito e non vedo l’ora di condividerlo col pubblico».

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