Diamo il benvenuto, con un ampio intervento dedicato ad Hugo Pratt e al suo contributo artistico nella storia della Nona arte, a Francesco Boille, critico di fumetto e di cinema di Internazionale, che ogni mese esplorerà nella sua rubrica “Segno Fumetto” opere e autori significativi per la ricerca stilistica nel fumetto moderno e contemporaneo.

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Una ballata del mare salato
Per i disegni di Hugo Pratt © CONG SA, Suisse 
Hugo Pratt TM © CONG SA-Tutti diritti riservati

Ci sono i capolavori; ci sono i capolavori tout-court di autori grandi e/o importanti; e infine ci sono i capolavori assoluti. Quest’ultimi si qualificano per via di un elemento essenziale: dopo la loro apparizione, un mezzo d’espressione non è più lo stesso. Opere che provocano una svolta netta al suo interno. Così come ci sono i maestri e poi i maestri dei maestri, come di recente affermava Gianni Brunoro scrivendo di Dino Battaglia.

Per limitarci al fumetto d’autore, quali sono le opere spartiacque, i big bang? Qualche esempio, naturalmente non esaustivo: Il garage ermetico di Moebius, Maus di Art Spiegelman, Fuochi di Lorenzo Mattotti, Carlos Gardel di Muñoz & Sampayo, Jimmy Corrigan di Chris Ware, La rivolta dei racchi di Guido Buzzelli, Valentina: Lanterna magica di Guido Crepax, L’Eternauta di Breccia e Oesterheld, il dittico Quaderni ucraini/Quaderni russi di Igort, Il Grande Male di David B, Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons, Akira di Katsuhiro Otomo, Sin City di Frank Miller, Adah di Berardi e Milazzo, L’uomo che cammina di Jiro Taniguchi, Mr Natural di Robert Crumb, Poema a fumetti di Dino Buzzati, i racconti brevi di Dino Battaglia da Maupassant e da Poe, i racconti brevi di Sergio Toppi originariamente pubblicati in Sacsahuaman, L’uomo senza talento di Yoshiharu Tsuge, La fiévre d’Urbicande di Schuiten & Peeters, Black Hole di Charles Burns, Le cri du peuple di Jacques Tardi, La terra dei figli di Gipi, Una ballata del mare salato di Hugo Pratt.

Certo, qui mancano molti capolavori spartiacque del fumetto popolare. Molti altri nomi si potrebbero citare, qualcuno forse inatteso (uno dei miei favoriti: Couma Aco di Edmond Baudoin), e per ciascuno degli autori ricordati potrei menzionare almeno un secondo titolo. È il caso di Hugo Pratt, che di capolavori assoluti ne creò diversi altri. Tra questi uno meno evidente è forse Fort Wheeling (1962).

Due riedizioni recenti di opere prattiane meno note, minori ma comunque di cerniera nella sua carriera, ci permettono, rileggendole e analizzandole, di cogliere meglio la grandezza di Fort Wheeling e il superamento che Pratt operò su sé stesso. E di converso ci mostrano il superamento prattiano di molti dei limiti del mezzo d’espressione, con uno straordinario affresco della frontiera.

Ma questa analisi ci porterà anche lontano dall’opera prattiana, almeno apparentemente. L’obiettivo è mettere a fuoco come Pratt abbia portato il segno grafico e il senso dello spazio tra i livelli più alti mai raggiunti nella storia del fumetto. Il risultato di questo processo lo ha reso tra i massimi autori mediante i quali il segno diventa all’ennesima potenza contenuto. Poetico, umanistico, etico, politico.

L’analisi ci permetterà, inoltre, di osservare come queste due opere si rivelino ancor oggi importanti – aspetto tanto più significativo in questo particolare momento storico – nell’ambito della decongestione complessiva del fumetto da stereotipi razzisti e coloniali di cui in seguito le opere più mature di Pratt – la linea di demarcazione essendo costituita proprio da Fort Wheeling – costituiranno gli anelli fondamentali. A mio giudizio, non soltanto nella storia del fumetto.

Anna e Ticonderoga, soprattutto

Le due opere in questione sono i racconti ambientati in Africa Orientale alla vigilia del primo conflitto mondiale di Anna nella giungla, già anticonformisti anche se ancora primigeni – è il caso di dirlo – e soprattutto Ticonderoga, vero e proprio graphic novel con il quale apriamo la nostra riflessione.

Nato da una proposta di Pratt al suo sceneggiatore, il grande e molto popolare Héctor Oesterheld – poi desaparecido sotto la giunta del generale Videla – ambientato nell’America settentrionale del XVIII secolo all’epoca della Guerra dei sette anni, prima dell’indipendenza coloniale dalla Gran Bretagna, Ticonderoga è un racconto di formazione sulla falsariga dei romanzi di Fenimore Cooper e Kenneth Roberts.

Il titolo della saga si riferisce al protagonista del racconto, un giovane imprevedibile, coraggioso e fuori dagli schemi. Ma il nome del protagonista è mutuato, a sua volta, dal nome del fortino Ticonderoga, che in un primo tempo si era chiamato Fort Carillon, situato nello stato di New York in prossimità del lago Champlain. Edificato a metà del Settecento durante la Guerra dei sette anni, la drammatica guerra franco-indiana che coinvolse molte delle potenze economiche e militari dell’epoca, è rimasto celebre, anche se il conflitto di cui è stato teatro non è il più significativo, per la cosiddetta battaglia di Ticonderoga dove gli inglesi conquistarono il forte ai francesi. Il forte, però, ebbe un ruolo importante in altre occasioni, a cominciare dalla guerra d’indipendenza americana. Circa un anno prima, la battaglia di Ticonderoga fu preceduta, quando il fortino era ancora in mano ai francesi, dalla battaglia di Fort Carillon, forse la più sanguinosa di quella guerra.

È evidente che Oesterheld e Pratt, nel denominare in questa maniera un personaggio appunto fuori dagli schemi, con chiare simpatie verso gli indiani, in qualche modo rovesciano il senso di quel nome impregnato di guerra e colonialismo.

Se la vicenda, ambientata proprio alla vigilia della rivoluzione americana, è di notevole precisione storica, soprattutto considerando l’epoca in cui è stata realizzata, forse quello che arriva di più al lettore è qualcosa d’impalpabile e poetico. Ticonderoga è un’opera di poesia sull’uomo e la natura in osmosi tra loro.

Grazie a «scritti e disegni animisti, io sentivo il vento fresco del mattino, il crepuscolo dei boschi, l’amicizia, il mistero e l’avventura». Così scrive nella prefazione il maestro José Muñoz in apertura dell’edizione che ripropone integralmente, e restaurato, questo capolavoro perduto di gioventù del periodo argentino di Pratt, dopo altre edizioni mal tradotte, incomplete, con vignette tagliate e rimontate.

L’edizione Rizzoli Lizard è suddivisa in due volumi cartonati, uno orizzontale – quello più interessante e che rispecchia l’iniziale formato strip – e uno verticale, con la seconda parte in formato classico, entrambi raccolti in un elegante cofanetto. A completare il tutto, una postfazione esplicativa, le copertine delle testate argentine dove apparve Ticonderoga dal 1957 al 1962 (ma Pratt la disegnerà fino al 1959, lasciandola poi alla sua assistente Gisela Dexter), disegni con testi pedagogici sugli indiani e le poche tavole originali sopravvissute. Una riedizione inattesa frutto di una lunga ricerca tra i collezionisti argentini a cui è seguito un altrettanto lungo restauro.

Storie (prattiane) di migranti

Piccolo Chalet
Per i disegni di Hugo Pratt © CONG SA, Suisse 
Hugo Pratt TM © CONG SA-Tutti diritti riservati

L’opera è impregnata di capacità evocatrice e di poesia, due elementi resi inscindibili dalla dimensione epica. Ma c’è anche la guerra, con la quale gli autori rivisitano l’epica stessa insieme alla storia nordamericana. Con evidente riflessi indiretti, per quanto permesso in una narrazione destinata ai ragazzi ma già molto libera per quell’epoca, sulla storia argentina: una storia di migranti poveri sfruttati, oltre che di indiani e di meticci altrettanto sfruttati e, prima ancora, massacrati.

«Kirk, Corto, Maha, Ticonderoga, Caleb, Numokh, Pratt e Oesterheld, illustrandosi reciprocamente nelle loro avventure quotidiane, accompagnarono la nostra adolescenza nel passaggio dal peronismo mussoliniano all’economicismo selvaggio. E lì cominciò il disastro, la perdita di status, come diceva ironicamente Oesterheld che, da socialista antiperonista, finì per militare con i Monteneros. Guerre dappertutto, guerre sporche, guerre dei ricchi contro i poveri, degli irochesi contro tutti, anche contro se stessi, degli inglesi contro i francesi e i coloni anglosassoni, guerre senza quartiere: dammi la tua terra perché io sono povero, ho famiglia, vengo da lontano e a casa tua voglio comandare io. Guerre giuste o ingiuste, sempre guerre.»1

Allievo di Hugo Pratt, insieme ad Alberto Breccia, alla Escuela Panamericana de Arte, suo figlio spirituale, poi assistente di Solano López, disegnatore di una delle due versioni (l’altra è dovuta ad Alberto Breccia) di un capolavoro come L’Eternauta che figura tra le opere più importanti firmate da Oesterheld, maggior cantore – con la fondamentale complicità dello sceneggiatore Carlos Sampayo – di migranti, poveri e donne sfruttate della storia del fumetto (e uno dei grandi in tal senso anche volendo fare comparazioni con altri mezzi d’espressione), quelle di José Muñoz sono parole sentite quanto perfette.

Parole che più avanti tratteggiano una seconda micro-guerra e un secondo micro-disastro. Ovvero quello della fiorente editoria a fumetti argentina – all’epoca una delle più dinamiche e prospere a livello internazionale, tanto da spingere quasi per intero il gruppo della rivista veneziana Asso di Picche, tra cui appunto Hugo Pratt, a emigrare in Argentina – e forse la prima in assoluta a cominciare a trattare il fumetto in maniera più adulta. Parole che meriterebbero una trattazione a parte, tanto più che nel 2019 si festeggerà l’anniversario della nascita di Oesterheld2.

Per Muñoz questa riedizione-riesumazione di Ticonderoga è un’operazione di giustizia verso un’opera davvero molto importante non solo in quanto tale ma perché perfetta espressione della grandezza della scuola argentina che, in estensione, potremmo chiamare scuola latina:

«Ticonderoga risorge finalmente dal fondo umido della memoria, dal centro della costellazione fumettistica argentina, una scuola che ampliò il campo delle possibilità espressive del nostro linguaggio. Quei personaggi, quelle persone disperse nella diaspora esplosiva dell’Argentina, ci guardavano da immagini sbiadite o scurite delle orribili edizioni europee: vignette tagliate da idioti e ricomposte da imbecilli, stampate pessimamente e tradotte da incompetenti. Ticonderoga patì all’epoca lunghe vessazioni editoriali, come anche L’Eternauta, come tanti altri frutti della scuola argentina degli anni Cinquanta.»3

Ma quali sono allora gli elementi costitutivi di quest’opera che “risorge finalmente […] dal centro della costellazione fumettistica argentina”?

Sul piano narrativo e tematico, dominano la fedeltà quasi spirituale all’amicizia (ma anche le sue ambiguità e ambivalenze), il ricordo delle donne amate, la contemplazione dei paesaggi, l’amicizia o la conquista del rispetto reciproco con membri delle etnie colonizzate, in questo caso gli indiani, la follia della guerra, soprattutto della guerra coloniale o tra poveri.

Sul piano grafico-visivo, la tecnica della mezza tinta con il quale è disegnato ha impregnato l’opera dell’incanto per la vita in tutte le sue forme quanto di un desiderio di oblio, desiderio che in seguito sarà permanente nell’opera del Pratt autore completo. Ticonderoga – dove i personaggi sembrano costantemente accompagnati dall’incombenza della morte che, paradossalmente, li porta ad amare ancor più la vita (in netta opposizione allo spirito cinico del mondo (post)moderno) – è ben più che l’anticipazione o l’enunciazione di questo desiderio di oblio. Ne è il presagio.

Gli animali in Pratt, da Ticonderoga in poi

Mai più Hugo Pratt disegnò così tanti animali come in Ticonderoga. Cervi, conigli, alci … e ovviamente cavalli. Perfino l’uccellino cinguettante ha una vignetta tutta per sé, fatto decisamente anomalo all’interno di un fumetto realista avventuroso, in modo particolare a quell’epoca.

Solitamente il Pratt autore completo disegna infatti animali funzionali alla narrazione. E ovviamente i cavalli, nelle storie prattiane della frontiera nordamericana, ma non soltanto in esse, sono presenze fondamentali. Come i cammelli in quelle ambientate nel deserto africano. In qualche raro caso gli animali avevano una funzione simbolica, o astratta, come le zebre nell’apertura di Leopardi, oltre ovviamente alle frequenti farfalle e ai sempiterni gabbiani. Quest’ultimi fatti equivalere a veri e propri leit motiv poetici delle sue storie. Nessuno ha saputo più proporre dei gabbiani – e forse qualsiasi altro animale – della bellezza poetica di quelli di Pratt.

In Ticonderoga, al contrario, gli animali compaiono in quanto animali. Non mi riferisco a quelli che fanno la loro comparsa per ragioni narrative (i cavalli) bensì agli animali non addomesticati, selvatici, agli animali dei boschi che devono la loro presenza alla bellezza intrinseca di cui sono portatori. In verità sono delle apparizioni. Sono poesia. Ma visualizzati con un registro grafico del tutto realistico. In particolare è di grande bellezza un’immagine del secondo volume, a pag. 62, dove la tecnica della mezza tinta esprime in pieno quanto scrive Oesterheld nel testo: “Il sole appena sorto non aveva ancora disperso le coltri di nebbia che velavano le radure e i prati chiazzati di fiori. Come attraverso una nuvola di sogno, vidi cervi che saltavano e conigli che mi guardavano dietro”.

Ticonderoga
Per i disegni di Hugo Pratt © CONG SA, Suisse 
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A un dato momento, certe immagini esprimono una grande maturità visiva. Sono puro incanto. La vignetta d’apertura di pag. 110, la quarta di pag 111 e tante altre nelle pagine di seguito, fino a quella finale del capitolo di pag. 121. E ancora di più nell’episodio successivo, la quarta vignetta di pag 129, dove gli alberi del bosco, grazie alle sfumature del grigio e al lavoro sulla profondità di campo, al rilievo dato a quanto appare nei vari piani (pag 132), sono mistero, fantasmi, ombre.

Forse, dietro a quelle tenui silhouette si nasconde qualcosa d’inconoscibile o infinito. Suscitando anche una commozione profonda, come in quella grande vignetta orizzontale in apertura del capitolo di pag. 135, dove i raggi di sole che affiorano vagamente tra le nuvole sono sufficienti a evocare una possibile quiete dopo una tempesta o quantomeno dopo un temporale. Come ancora nell’immagine panoramica che conclude il capitolo a pag 142. La sagoma nera di un albero spoglio in primo piano sulla sinistra e la maestosità, l’immensità di un lago visto dall’alto, lago del quale guardando la linea dell’orizzonte non si scorge quasi la fine, sono sufficienti ad evocare un sentimento di vastità della natura prossimo all’infinito, una natura sovrastante e un conseguente sentimento di solitudine dell’uomo di fronte all’enormità e alla magnificenza degli elementi naturali.

Una natura dalla bellezza incommensurabile, possente, toccante nel profondo dell’animo quanto indifferente al dolore dell’uomo. Pratt si ascrive appieno alla lettura della natura veicolata dal romanticismo in pittura.

L’uomo del grande Nord
Per i disegni di Hugo Pratt © CONG SA, Suisse 
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Un esempio perfetto e molto celebre di questa capacità unica di Pratt di evocare, sintetizzare e infine concettualizzare, abbinando classicismo e modernità sperimentale nella rappresentazione dell’uomo nella natura, è quello – realizzato più avanti nella sua carriera – della memorabile copertina ad acquarello di L’Uomo del Grande Nord (1980). Su uno sfondo bianco, astratto, la canoa dove rema Gesuita Joe è come sospesa nell’aria e la fronda di un albero insieme alle foglie galleggianti nell’acqua (presunta) sono sufficienti ad evocare l’esistenza di un bosco. Mentre l’angolazione prospettica e il grande realismo con il quale è disegnata la canoa sembrano quasi dare l’impressione che quest’ultima venga verso il lettore per portarlo via con sé. Verso l’avventura, verso l’altrove, verso l’inconoscibile. Una copertina che richiama, rievoca, riesuma nella memoria del lettore, sia conscia che inconscia, un’intera iconografia romantica.

Ma perché in seguito gli animali non sono più apparsi con queste caratteristiche nelle opere di Pratt?

Al di là di un indubbia difficoltà di Pratt nel disegnarli – in particolar modo i cavalli –, come rilevato molti anni fa da Decio Canzio, una ragione più profonda era che la mole degli interessi di Pratt era tale (compresi i suoi viaggi in capo al mondo) che non aveva voglia di fare l’amanuense. Pratt era un vero artista, in realtà molto concentrato nel suo lavoro, ma l’eccesso di artigianato (che comunque rispettava non poco), la ripetizione eccessiva, il dettaglio, non erano realmente cosa per lui. Ha finito per fagocitarli per andare “oltre”.

La sua ricerca metafisica si riassume infatti nella linea dell’orizzonte, quella del mare e quella del deserto che si confondono in una cosa sola.

Aveva bisogno di una variazione continua del registro grafico e quindi i racconti lunghi, che richiedevano l’unitarietà dello stile per troppo tempo, finivano spesso per cozzare con quest’esigenza. Lo stile di Pratt, pur riconoscibile, mutava continuamente. A partire da un certo momento in maniera sempre più radicale. Come testimoniano con nettezza, per fare un esempio, l’inizio e la fine di Corte Sconta detta Arcana. L’innovazione continua, l’idea, la sintesi e, al suo esatto opposto, il dettaglio isolato e ingrandito, lo motivavano molto di più. Questo aspetto, particolarmente vero per gli artisti dell’arte contemporanea, lo si ritrova nettamente in Pratt, che del resto guardava non poco anche all’arte astratta. Già in Caniff c’era molto di questo approccio rispetto alle tendenze illustrative dei fumetti di Alex Raymond o Harold Foster.

A partire da un certo momento Pratt sarà coadiuvato da assistenti come Guido Fuga, per le automobili, jeep, carri armati o treni, e Lele Vianello, a cui spetterà tra le altre cose il compito di disegnare gli animali, soprattutto i cavalli. Una volta capito come si disegna un fucile o un treno, a Pratt questo non interessava più. La tecnica per la tecnica non era cosa per lui, la tecnica andava trascesa.

Ma nel caso degli animali si potrebbe obiettare che possono esprimere ogni volta qualcosa di diverso. Le storie di Pratt come autore completo vertono però sull’uomo, sono il racconto dell’Uomo con la U maiuscola in costante sfida con sé stesso, seppur con la nonchalance e l’ironia di tanti suoi personaggi, in primis Corto Maltese. La natura nelle narrazioni di Pratt si identificherà non tanto con gli animali, quanto sempre più con i paesaggi verso i quali entrava in vera osmosi fino a commuoversi profondamente, riuscendo spesso a trasmettere questa commozione. Gli elementi naturali e l’Uomo costantemente in osmosi tra loro, ciascuno dei due sempre reversibile nell’altro. Immancabilmente, nell’opera prattiana, l’Uomo è la contemplazione e insieme il superamento delle avversità che la Natura propone. È Ulisse di fronte agli elementi, è Ulisse che si ri-memora.

Fort Wheeling, tra il prima e il dopo

Prima di Wheeling tutto era diverso. Il mondo e il fumetto non erano gli stessi, prima di quelle grandiose immagini orizzontali, più uniche che rare oseremmo dire, realizzate da Hugo Pratt per Fort Wheeling, pochi anni dopo Ticonderoga. Dopo il 1960 infatti il fumetto ebbe meno limiti, proprio come il mondo. Gli anni della “Nuova Frontiera” kennedyana avrebbero trasformato la scena.

Fort Wheeling
Per i disegni di Hugo Pratt © CONG SA, Suisse 
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Tutto era diverso prima delle apparizioni di cui Wheeling è costellato. Come quella di Lew Wetzel, il cacciatore d’indiani bello e carismatico malgrado il volto butterato dal vaiolo che sorge – letteralmente – dall’erba alta. Con la silhouette ritratta di profilo, carabina in mano, paradossalmente sembra lui stesso un indiano, e ancor più lo sembra nelle due vignette che seguono, inquadrato frontalmente mentre avanza nell’erba con i capelli lunghi mossi dal vento. Oppure come quella figura che è il rovescio speculare di Wetzel, il rinnegato dalla parte degli indiani Simon Girty, realmente esistito e nel quale si è chiaramente autoritratto Pratt, malgrado i dinieghi sempre poco convinti dell’autore, come a far capire ancora meglio da che parte stava. Figure ieratiche, solitarie e forti ma quasi sperdute o fuori posto rispetto agli interessi che muovono la grande storia – una costante dell’opera prattiana – trovano qui la loro prima netta definizione che Ticonderoga, ancora una volta, aveva lasciato presagire.

Penso ai personaggi del successivo romanzo a fumetti, Una Ballata del mare salato (1967). Come il tenente di marina Slütter poi fregato dai suoi superiori militari, quest’ultimi i veri criminali della Ballata (nelle storie di Pratt identificati come i veri criminali della storia umana, fatto salvo rare eccezioni). Come Cranio, che sognava l’unificazione dei Melanesiani in un’unica patria (magari insieme ad altri “popoli del mare” come i Polinesiani). Sono entrambi personaggi secondari rispetto al quintetto rappresentato da Corto Maltese, Rasputin, il Monaco, Cain e Pandora, ma al contempo centrali affinché Una ballata del mare salato acquisisca il suo senso pieno. Il suo senso profondo.

Una ballata del mare salato
Per i disegni di Hugo Pratt © CONG SA, Suisse 
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Prima di Wheeling tutto era diverso. Prima di quella ieraticità, evocatrice di qualcosa di arcaico, maestoso e quasi inconoscibile, e di quella solitudine, espressione tanto di una dimensione interiore, quanto di una ineluttabilità, una predestinazione al fallimento del sogno utopico.

Il “dopo” 1960, nel fumetto e nel cinema di genere odierno, si è ormai quasi completamente perso. Si tratta del risultato del continuo giocare con i codici del linguaggio, dei topoi, degli stereotipi e degli archetipi in maniera fine a sé stessa, senza che diventi uno strumento. Quel “dopo” che aveva saputo generare cavalli di Troia stilistici finalizzati a far “uscire i soldatini” che da un lato sconvolgano la lettura politica di un’epoca passata ma spostando, dall’altro, la dimensione poetica e interiore su modalità inattese, come invece seppero fare grandemente nella loro diversità Hugo Pratt e Sergio Leone, entrambi venuti fuori più o meno nello stesso periodo. L’uno nel fumetto, l’altro nel cinema, l’uno in quanto autore completo, l’altro in quanto regista italiano progressivamente liberato dagli altalenanti pseudonimi anglosassoni.

Spazio poetico e spazio politico

Prima tutto era diverso. Prima di quelle lunghe sequenze d’azione che Pratt rende al tempo stesso inscindibili dall’esplorazione dello spazio orizzontale dei formati delle vignette, e quindi dalla linea d’orizzonte, oltre che non di rado dall’onirismo (un exploit!).

Fort Wheeling
Per i disegni di Hugo Pratt © CONG SA, Suisse 
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L’esempio perfetto è certamente costituito dall’inseguimento notturno nell’erba del protagonista Chris Kenton da parte degli indiani. Una sequenza tecnicamente perfetta e di notevole forza poetica, grazie a una tecnica chiaroscurale espressionista che arrivava al pieno della sua maturità mentre l’ispirazione raggiungeva il suo massimo (quindi già prima di Una Ballata del mare salato).

Si tratta di una sequenza da annoverare tra quelle fondamentali nella storia del fumetto, non a caso citata come modello da autori di rilievo quali il francese Blutch.

Fort Wheeling
Per i disegni di Hugo Pratt © CONG SA, Suisse 
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Prima di tutto questo insomma, lo spazio nel fumetto, lo spazio poetico, lo spazio estatico, lo spazio infinito, non era lo stesso. Anche se questo non vuol certo dire che il fumetto mancasse prima di forza poetica – talvolta anche molto grande – ma era uno spazio più finito. Molto più finito. Lo spazio poetico non lo era lo stesso nemmeno con un genio vero, profondo, potentissimo nella costruzione di infinite immagini dalla forza polivalenti, capaci di rimandare ad archetipi sedimentati nell’inconscio, come quelle dello statunitense Milton Caniff, l’autore da cui, come è noto, deriva Pratt.

Caniff, soprattutto, doveva condensare le sue immagini poetiche, come le celebri sequenze notturne sotto la luna nel Mar della Cina (per citare l’esempio più facile) all’interno della narrazione, mentre Pratt introduce l’immagine estatica per mezzo della sospensione della narrazione. Inserisce i silenzi per la prima volta nella storia del fumetto. Silenzi ancora oggi potenti. Silenzi che creano una sorta di sospensione temporale, metafisica, poetica. Pratt crea dunque un nuovo concetto di spazio, che fa coincidere con un nuovo spazio poetico.

Questo nuovo spazio poetico, però, è soprattutto un’orizzontalità che ora, con Pratt, viene percepita come infinita. A partire da Wheeling ma che qualche immagine di Ticonderoga, ancora una volta, lascia già presagire. E che si salda bene al clima di quegli anni.

Fort Wheeling
Per i disegni di Hugo Pratt © CONG SA, Suisse 
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Per esempio alla Nuova Frontiera kennedyana che aveva saldato al suo messaggio le nuove frontiere illimitate della scienza e del cosmo con quelle dello spirito: dalla lotta alla povertà alle disparità economiche, dai diritti civili alla decolonizzazione, coniugando la propria giovinezza di giovani leader (quella di John e di suo fratello Robert) a quella dei giovani leader del mondo povero e in antitesi ai vecchi schemi degli anziani leader del mondo ricco (gli Eisenhower, i De Gaulle, gli Adenauer…), ponendo, in maniera molto esplicita e insistita fin dal discorso d’insediamento di JFK4, la questione del dialogo tra Est e Ovest per mettere fine alla Guerra Fredda.

Non solo per scongiurare “insieme Est e Ovest” la guerra atomica, ma sul lungo termine quella, altrettanto terribile, tra il Sud e il Nord del mondo: «Una società libera che non è in grado di aiutare i molti che sono poveri non riuscirà mai a salvare i pochi che sono ricchi». Affinché «entrambe le parti si uniscano per porre in atto in ogni angolo della terra il comando di Isaia: «sciogliere i legami del giogo…. e rimandare liberi gli oppressi». Un messaggio potentissimo che sconvolse quella generazione e che arrivò a livello globale, mondo povero compreso. Una generazione che cercava lo spazio e il tempo infinito. Prima dello spazio e del tempo finito.

Tematicamente e graficamente tutto questo si riflette in maniera profonda nell’opera prattiana.

Perché questa spazialità è ovviamente dovuta non soltanto all’uso frequente di grandi vignette orizzontali – del formato strip in tutto il suo splendore come mai prima d’ora – ma dal senso dello spazio che dimostra l’autore nella costruzione delle vignette, dal taglio delle inquadrature. E forse prima di tutto, dalla qualità del segno grafico qui raggiunta tanto sul piano tecnico che su quello dell’ispirazione.

Spazio e libertà

Fort Wheeling
Per i disegni di Hugo Pratt © CONG SA, Suisse 
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Pratt si sente finalmente libero. La sua libertà è la medesima a cui anelano i personaggi da lui raccontati, è la stessa, nel bene e nel male, del periodo storico narrato, e simultaneamente, con un salto temporale significativo, è la stessa del periodo storico nel quale vive l’autore – dove elabora prima Wheeling e poi la Ballata – e dove un po’ tutti anelano, giovani, proletari, minoranze e popoli colonizzati a quella libertà e speranza quasi senza limiti, senza muri e confini.

Infine, è ancora quella libertà che ricercherà tutto il fumetto europeo e statunitense (ma quest’ultimo aveva già dato i primi segnali importanti negli anni Cinquanta) nel decennio degli anni Sessanta e nel decennio seguente, gli anni Settanta. Quella libertà che invece proprio in quel periodo il fumetto argentino – una scuola straordinaria e fondamentale per l’intera storia del mezzo d’espressione – sta perdendo al pari del paese nel suo insieme: non tanto sul piano creativo perché nei decenni successivi produrrà varie opere belle e importanti, oltre a diversi capolavori, ma quanto piuttosto in relazione al rapporto qualità e quantità, all’agiatezza di vita e alle speranze professionali per il futuro degli autori.

Contrariamente al suo paese d’adozione, Hugo Pratt è finalmente libero come il suo segno grafico, come i suoi movimenti. Da quell’erba nera, ispida, selvaggia e frastagliata fuoriescono figure come Wetzel quasi ne fossero una diretta emanazione. La verità è che quell’erba, quelle figure come Wetzel, non sono l’illustrazione di una narrazione ma sono prima di tutto emanazione del segno grafico prattiano, di cui la firma dell’autore di quel periodo ne è il sigillo paradigmatico. Forse, quasi più brasiliano che argentino. Un segno grafico germinale, un segno grafico che grazie a Pratt rivela finalmente in modo esplicito di essere la forza primordiale del fumetto.

Il segno ‘libero’ prattiano

Fort Wheeling
Per i disegni di Hugo Pratt © CONG SA, Suisse 
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Senza quello stile grafico, e senza che quello stile in Wheeling si faccia profondamente ispirato, l’erba alta come anche Wetzel non avrebbero la stessa forza, lo stesso senso sia narrativo che poetico. Un segno grafico concreto e sciamanico insieme, letteralmente intriso della sensualità e perfino della ne(g)ritudine sudamericana, dove “per gli oppressi” la rivendicazione alla libertà dal “giogo” è cheguevarescamente impregnata sotto quelle latitudini di violenza ribelle e virile, a volte selvaggia e sensuale, spesso impostata su un bianco e nero espressionista proprio a tanta iconografia – sia essa disegnata, dipinta o fotografica. Tutto questo si riflette nello stile che Pratt matura in quegli anni, anzi, paradossalmente, vi si rifletterà soprattutto dopo che avrà lasciato l’Argentina o sarà sul punto di farlo.

Le pennellate di nero languido e sensuale che a partire dalla Ballata contraddistingueranno Pratt nel rappresentare la sabbia delle isole del sud o del deserto africano ovviamente non ci sono ancora, vista l’ambientazione di Wheeling.

Al tempo stesso questo segno dall’espressionismo voluttuoso e sanguigno che rielabora in chiave “Sud” la lezione caniffiana – espressione del “Nord” del mondo – densificandola e insieme sciogliendola, immette, perfettamente amalgamati al resto, elementi poco caniffiani, da un lato, e per nulla sanguigni o espressionisti, dall’altro. Quali sono, dunque, gli elementi nascosti nel segno prattiano che si pongono in opposizione sia alla matrice caniffiana che all’espressionismo sudamericano?

  • La delicatezza del tratto. Per esempio nel delineare le colline e soprattutto le nuvole, splendidi ghirigori dal movimento elegante ed arioso. Una lezione che ha dietro molti maestri ma che alla lunga troverà già nella Ballata compiutezza richiamando in qualche modo la lezione di Matisse del tratto limpido e poetico, arioso ed elegante, astratto nella figurazione apparente.
  • La poliforme evocatività del bianco. Magari anche in un semplice movimento del tenente Slütter, mestamente in piedi su un promontorio con le mani in tasca nella sua elegante divisa bianca da ufficiale della marina, mentre Pratt delinea con altrettanta eleganza il movimento della piega dei pantaloni che segue quello della gamba. I delicati movimenti del tratto delineano quindi del bianco (la divisa di Slütter) circondato da uno sfondo bianco (il promontorio, il cielo, il mare, la carta stessa). Bianco su bianco, si esaltano a vicenda con proficua reciprocità. Diventano un tutt’uno tanto il segno quanto il biancore, abbacinante di infinito, da cui sono circondati sull’isola di Escondida i personaggi della Ballata.

In Wheeling le opposizioni su cui lavora Pratt sono più esplicite, non ancora del tutto risolte, ma nell’insieme già molto originali e intense.

Dunque, la messa in scena grafica data dallo stile – intesa come lettura e interpretazione della narrazione che se data ad un altro disegnatore ne cambieranno radicalmente gran parte del senso – con Pratt arriva ad uno dei punti svolta cardine nella storia del mezzo d’espressione grazie anche ad una perfetta coniugazione con l’uso della spazialità.

Una ricerca parallela a Moebius

Una ballata del mare salato
Per i disegni di Hugo Pratt © CONG SA, Suisse 
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È importante rilevare, a questo punto, come anche tanto Moebius in bianco e nero, soprattutto quello della seconda metà degli anni Settanta e non per forza quello del notissimo Garage Ermetico, sembra avere la medesima delicatezza di Pratt nell’avvolgere in un tratto grafico dalla notevole leggiadria poetica una fantascienza apocalittica che pare come riletta dai surrealisti.

In una sequenza di Fiaba di Venezia – Sirat AlBunduqiyyah (1978) – l’avventura più onirica ma anche più statica e teatrale del marinaio, poiché Corto Maltese contemplando Venezia contempla con essa, in realtà, il sogno – dice a sé stesso “mi sembra di cadere verso l’alto” mentre cade da un tetto. Corto in effetti, pare cadere, fluttuare e poi galleggiare. Il cielo e l’acqua si confondono in una sola cosa, nel segno calligrafico prattiano che sotto le apparenze di caratteri arabi si fa quasi ideogramma orientale.

L’uomo della Somalia
Per i disegni di Hugo Pratt © CONG SA, Suisse 
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È l’ormai celebre intenzione di Pratt del disegno-scritturadisegno la mia scrittura e scrivo i miei disegni») a farsi qui essa stessa poesia nella sua forma più pura. E insieme paradigma di una visione del segno, che nel fumetto equivale a lettura e interpretazione del mondo, preannunciando il viaggio nel/dei segno/i delle successive storie di Corto Maltese. Siccome non si vedono più all’orizzonte Utopie di giustizia, agli abitanti del mondo esterno non resta altro che aprire la porta dell’Utopia del sogno e addentrarsi definitivamente nel viaggio interiore visto come ultima isola del Tesoro nascosta, isola da raggiungere per mezzo di un processo di conoscenza avvolto però nella leggerezza dell’onirismo. Inversamente, il nuovo viaggio metaforizza anche il sogno dell’Utopia sotto una forma appunto onirica, alfine di preservarla in attesa di tempi che tornino a renderla possibile. Il sogno dell’Utopia custodito come il Sacro Graal5.

Pratt raggiunge qui il Moebius di quegli anni. Proprio come l’anarchico marinaio Corto Maltese è sempre in fuga dalle autorità precostituite e scompare aprendo porte nascoste “per andare in altri posti e in altri luoghi”, così Moebius lascerà il proprio segno vagare, fluttuare alla ricerca di storie senza più nulla di precostituito lanciando il suo celebre manifesto in favore di fumetti “a forma di elefante invece che con una casetta con la porta per entrare, il camino e la finestra per guardare fuori”.

Oltre a Arzach e Il garage ermetico, Moebius elaborerà un’infinità di straordinari racconti, anche molto brevi, dal tratto delicatissimo e aereo, morbido come una nuvola e voluttuoso come la luce mediterranea. In altre occasioni creerà, invece, racconti muti ma dal tratteggio fitto e denso piuttosto che delicato, come il capolavoro Absoluten Calfeutrail dove raggiunge la medesima levità per mezzo di un un personaggio che sembra cadere, cadere e ancora cadere quasi senza fine. In verità, Absoluten Calfeutrail metaforizza che quello di Moebius è un viaggio, molto spesso, onirico-psichedelico non soltanto in bianco e nero, strano paradosso, ma dove la logica di gravità, del sopra e del sotto non esistono più.

Una ballata del mare salato
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Esattamente come per il Corto Maltese di Fiaba di Venezia. Del resto, la porta finale in cima “alla scala degli incontri” dove appunto “i veneziani possono entrare per andare in altre storie e in altri luoghi”, è in qualche modo il rovescio della porta della metropolitana con cui il Garage Ermetico si chiude e – improvvisamente – si fa finito quel che pareva infinito. Sublime provocazione che all’epoca quasi esasperò quanto affascinò i lettori, il Garage Ermetico moebiusiano oggi appare invece come una incantevole quanto profonda “tortura” emblematica dello spirito ancora libero degli anni Settanta.

Pratt raggiunge qui Moebius, dicevamo. Ma in verità, per tornare al motivo di partenza di questo testo, già da Wheeling e soprattutto dalla Ballata tutto questo era implicito. Era contenuto nel desiderio di scompaginare piani preordinati, nella libertà di invertire l’ordine ortodosso, di costruire un nuovo uso dello spazio nelle grandi vignette rettangolari, nella dimensione uterina e inconscia (per la Ballata), nella linea d’orizzonte costante – anche quando si è in fuga. Anzi forse soprattutto quando si è in fuga, perché sono gli indiani che inseguendo Chris Kenton lo obbligano ad abbandonare la linea d’orizzonte e a finire la sua corsa sfrenata andando quasi addosso al lettore. Certo non per propria scelta. Ma è una prossimità, quella con Moebius, resa possibile tra le altre cose grazie anche a una certa prossimità – rispetto ai tre registri grafici più sopra citati che convivevano nel Pratt di quegli anni – nella delicatezza del tratto, nella sua dimensione aerea, voluttuosa. Se Pratt è filiazione diretta di Caniff, quella di Moebius passa per il suo doppio Jean Giraud, che a sua volta passa per Joseph Gillain, il quale, almeno per le sue storie realistiche, è filiazione diretta di Caniff.

Potremmo allora dire, con una battuta, che Pratt è il Moebius del fumetto classico come, di converso, Moebius è il Pratt del fumetto sperimentale.

L’uomo della Somalia
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In realtà, c’era molta sperimentazione nascosta nel classicismo prattiano e molto classicismo nascosto nella sperimentazione moebiusiana (uno degli exploit dell’autore francese). La ricerca era sempre l’essenzialità. L’essenza. Nel mondo concreto potremmo chiamarla appunto la linea d’orizzonte: «Quando ci incontravamo con Hugo parlavamo sempre del deserto» mi disse Moebius in chiusura di un’intervista realizzata in occasione della splendida esposizione a lui consacrata a Parigi dalla fondazione Cartier nel 2010/2011.

Non si deve dimenticare che se Moebius guardava alla grande storia dell’arte, a partire dal Rinascimento italiano e fiammingo, le influenze stilistiche dalla storia del fumetto sono invece un po’ le stesse di Pratt. Il mentore di Jean Giraud/Moebius era infatti Jije, alias Joseph Gillain, di cui Giraud, che non si era ancora mutato in Moebius, era l’assistente per i western di Jerry Spring.

Quando il versatile Gillain disegnava fumetti realistici invece che storie umoristiche, e soprattutto quando disegnava Jerry Spring, la matrice caniffiana diveniva ben visibile. Le recenti e molto curate edizioni integrali di Jerry Spring in bianco e nero lo esplicitano definitivamente, confermando ancora una volta come Milton Caniff sia stato a lungo il disegnatore più imitato, dall’Europa al Sudamerica. E il generoso Gillain disegnò infatti diverse vignette di Fort Navajo, il primo episodio della lunga saga western del Tenente Blueberry sceneggiata da Jean Michel Charlier, per aiutare nelle pesanti scadenze di consegna del settimanale Pilote il suo giovane pupillo Jean Giraud (se si guardano bene le tavole di quell’episodio anche il lettore meno avvezzo potrà notare alcune immagini firmate Jijé anziché Gir) a dimostrazione della forte influenza, quasi osmotica, che Jean Giraud ha ricevuto dal suo maestro.

Hugo Pratt si rivela dunque un maestro davvero epocale della spazialità nel fumetto (ma che non limiterei soltanto a questo mezzo d’espressione) non con Una ballata del mare salato, dove come detto raggiunge l’apice (ma in seguito ci saranno ulteriori sviluppi importanti in questo senso), bensì già con Fort Wheeling. Se non è l’unico elemento a fare appunto di Wheeling un capolavoro assoluto o spartiacque del fumetto, ne è certamente un elemento centrale.

Anna nella giungla, o il tramonto dell’epica

Anna della giungla
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“Tutto era stanco a Gombi”. Questo l’incipit di Anna nella giungla, ciclo di racconti ambientati nell’Africa orientale del 1913.

La stanchezza di Gombi, sulla quale l’autore insiste, preannuncia la stanchezza dell’Occidente. Quella attuale, dove invece di rilanciare le sfide poste dalle tensioni con il mondo povero, non sa fare altro che ripiegarsi pateticamente su sé stesso e su false certezze, esattamente all’opposto dell’epoca delle nuove frontiere kennedyane. Ma è anche il presagio della stanchezza di certo immaginario, che Pratt sente arrivare, registra e al contempo rinnova rileggendolo con grande potenza poetica. L’inizio discreto quanto gustoso di questo processo che culmina in Una ballata del mare salato sta nei racconti di Anna nella giungla, realizzati nel 1959. Segna il graduale inizio di una consapevolezza anticoloniale all’interno di un intenso desiderio di avventura classica. Portandolo poi a rinnovare, ridefinire e reinventare l’avventura classica. Anzi l’idea stessa di avventura, facendola diventare un’idea. E forse anche un’ideale.

Come alcuni cineasti del western a lui coevi – da Sam Peckinpah a Sergio Leone passando perfino per il John Ford dell’ultimo periodo – Pratt avvertiva, forse non in modo del tutto cosciente ma certamente risentito con nettezza sul piano interiore, che l’epica stava finendo, si stava esaurendo insieme all’inconsapevolezza coloniale. L’apogeo di questo processo sarà appunto Una ballata del mare salato (1967), prima apparizione di Corto Maltese e tra le opere fondatrici del mezzo d’espressione. I personaggi sono rinchiusi nell’ultima, utopica, stevensoniana Isola del Tesoro – l’isola di Escondida – mentre intorno, anzi potremmo dire “all’esterno” di quell’isola – escondida perché in realtà uterina quindi protetta e protettiva, anche se fino ad un certo punto – infuria la follia della Prima guerra mondiale.

Sono andato in Africa a dieci anni. Doveva essere la metà del 1937. Arrivati al villaggio littorio {nei pressi di Addis Abeba}, mi hanno subito messo a scuola. Diavolo, la mia Africa! Avevo letto i giornaletti di Cino e Franco, La misteriosa fiamma della regina Loana, Sotto la bandiera del Re della giungla. Niente di tutto questo. Mi sono ritrovato al ginnasio Vittorio Emanuele III a Entotto.

Sono le parole di Hugo Pratt all’epoca della sua prima autobiografia, Le pulci penetranti (in seguito riedita con il titolo di Aspettando Corto) che, insieme ad altri brevi estratti da interviste e libri di memorie, il lettore può ritrovare in apertura alla riedizione di Anna nella giungla. Un volume la cui copertina già dice cose importanti, essendo costituita da uno splendido ingrandimento dove il volto della giovane protagonista sembra sbucare fuori – impaurita e incuriosita da quello che potrebbe scorgervi – da una linea sottile e curva che contiene al suo interno il vuoto e il tutto, con qualche ramo e due tronchi di palma a fare da cornice.

anna nella giungla hugo pratt

La cornice è l’esotismo, ma la sostanza è la ricerca curiosa e coraggiosa di andare oltre l’apparenza delle cose, oltre la linea dell’orizzonte, verso l’essenza delle cose. Una copertina che è un gioiello grafico-concettuale. Un’edizione che restituisce d’emblée, fin dalla copertina appunto, il fascino della serie di racconti che inaugurano il Pratt sceneggiatore, dopo il lungo periodo argentino di collaborazione con Oesterheld. E questo malgrado le immagini orizzontali siano qui tagliate: questa edizione dal formato (relativamente) piccolo sembra come voler restituire al lettore un’immediatezza di lettura da albo di fumetto popolare, pur mantenendo una presentazione editoriale elegante e curata. Le immagini orizzontali del resto, pur notevoli, non hanno la stessa qualità di quelle di Fort Wheeling e forse nemmeno di quelle di Ticonderoga.

Quanto ai racconti, riletti oggi sono ancora avvincenti, intrisi di ironia verso un colonialismo – siamo nel 1913 – già stanco, anche se presentano ancora le ingenuità del fumetto d’avventura classico. Il colonialismo comincia infatti in quel periodo la sua curva discendente, sebbene vivrà ancora momenti importanti come l’occupazione italiana dell’Etiopia, che il piccolo Pratt toccherà con mano. Il padre Rolando – gran lettore della rivista La difesa della razza – aveva trovato impiego proprio in Etiopia, in qualità di sergente maggiore del Genio per l’edilizia e la costruzione di strade.

Anna della giungla
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È in quei luoghi, in quel contesto, che Pratt comincia a rivisitare, a rovesciare e rivedere quell’immaginario sognato che tanto aveva amato. Come ha scritto Claudio Bertieri nella prefazione all’elegante edizione in grande formato del 1979 di Anna nella giungla (Fabbri editori):

nell’arco di sei anni, ebbe modo di incontrare gente di ogni razza, militari, avventurieri, soldati di ventura, boeri, sudafricani, inglesi, e tedeschi: ‘e ancora non sapevo che lo spettacolo del mondo stava diventando il mio archivio vivo di disegnatore. Avevo tredici anni!’. In Africa, Pratt è tornato più volte, per ragioni diverse ed in stagioni distanziate. Ha tenuto vive amicizie abbastanza insolite, com’è nel suo carattere e mentalità. Qualche giovane capo-tribù, dei viaggiatori nomadi, guerrieri Masai o predatori dancali.

Questa capacità paritaria di sguardo reale verso gli “altri” delle “altre” culture, davvero unica non soltanto nel campo ristretto del fumetto, ha spinto una importante istituzione culturale come il Musée des Confluences di Lione, museo storico-antropologico di nuova generazione, ad ospitare l’importante esposizione Hugo Pratt. Lignes d’horizons dedicata ai luoghi e oggetti delle sue storie (dal 7 aprile 2018 al 24 marzo 2019).

Anna della giungla
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Come ho scritto altrove dando conto dell’iniziativa, è probabilmente nell’infanzia africana di Pratt che trova origine questa sua etica e insieme poetica dello sguardo. Una ricerca di essenzialità dal sapore metafisico di cui sono paradigmatiche le due linee per eccellenza dell’immaginario avventuroso, quella del mare e quella del deserto. Si tratta di un’etica e di una poetica dello sguardo che, come scrivevo, affondano “le radici nell’8 settembre.

Nel giorno del dissolvimento del regime fascista il piccolo Hugo si ritrova da solo con la madre in una Addis Abeba abbandonata. I guerrieri Sciftà, noti per portare i testicoli dei nemici vinti appesi alla cintura, sono penetrati in città e quando Pratt se li trova davanti, essendo troppo piccolo per essere evirato, viene portato via con loro per diversi giorni nel deserto. Vomita e gli fanno rimangiare il vomito. Nulla può essere sprecato nel deserto. Impara a capire gli altri, anche chi è più lontano da lui, e impara a capire il deserto, cioè il concetto di essenzialità di cui è portatore”.

In qualche modo il lettore vi trova riflesso e rovesciato quanto detto da Pratt negli estratti citati più sopra da Le pulci penetranti sulla “sua Africa” e i fumetti da lui letti. In particolare quelle due storie rimaste mitiche della lunga serie di Cino e Franco (in originale Tim Tyler’s Luck), Sotto la bandiera del Re della giungla e soprattutto La misteriosa fiamma della regina Loana, liberamente ispirato a She di Henry Rider Haggard (personaggio, She, citato da Pratt in Corte Sconta come il grande amore perduto, irraggiungibile e forse più doloroso di Corto Maltese) e ispiratore a sua volta dell’omonimo romanzo del 2004 di Umberto Eco.

Storie che oggi sappiamo in gran parte dovute non al titolare Lyman Young ma ad Alex Raymond, futuro creatore di innumerevoli personaggi di grande successo nei quotidiani Usa (da Flash Gordon all’Agente Segreto X9, su sceneggiatura di Dashiell Hammett, passando per Jim della giungla e Rip Kirby), a cui se ne aggiunsero poi diversi altri dopo l’abbandono da parte di Raymond della serie, tra i quali è doveroso ricordare Burne Hogarth. Del resto, se molti dei topoi di Cino e Franco sono ripresi e rielaborati in Anna nella giungla, bisogna dire che la coppia dei due adolescenti (maschi) in Africa dimostra già di una prima coscienza dei problemi di quei luoghi andando contro al bracconaggio e al commercio di avorio e pellicce. Ma rappresenta soprattutto una svolta nel fumetto avventuroso.

La progressiva revisione (ironica) del colonialismo

Gli scorpioni del deserto
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In Anna nella giungla, gli stereotipi si confondono negli archetipi. O quantomeno, cominciano a confondersi, perché non mancano del tutto gli ultimi strascichi coloniali, soprattutto nel linguaggio, del fumetto classico.

Strumento di questa iniziale, anche se parziale, fusione con “l’altro” è una ragazza piena di vita e anticonformista, Anna, che Pratt rende protagonista delle vicende, mentre l’amico Dan ne è solo il coprotagonista. Se è vero che la serie in Argentina si chiamava inizialmente Anna y Dan, la titolazione che ne è poi seguita nei decenni prende atto di quale dei due ragazzi, in realtà, “domini” sull’altro. Anticipando sotterraneamente quella frase ormai celebre che Corto Maltese indirizza alla spia-rivoluzionaria dal “nome da operetta” Shanghai Lil in Corte Sconta detta Arcana.

Quei nomi e cliché da operetta, o da musical, veicolavano non pochi stereotipi dal fondo razzista in maniera più o meno marcata a seconda dei casi, anche se non di rado miscelati a grazia e poesia. Se Pratt in seguito si rivelerà essere un gran rovesciatore di stereotipi, topoi, meccanismi e cliché narrativi, vediamo qui i primi germogli di questo approccio che poi si radicalizzerà. Lo vediamo per mezzo di Anna e Dan, due Cino e Franco in qualche modo alla rovescia, in un’opera che trova le sue basi, sul piano più strettamente professionale, proprio nella lunga collaborazione con Oesterheld, a cominciare dalla saga del Sergente Kirk, primo fumetto in assoluto a porre uno sguardo nuovo sugli indiani.

Pratt comincia qui la sua revisione ironica, stando sempre attento a non calpestare l’epica, il mistero e le atmosfere, dei cliché avventurosi e coloniali. Ecco alcune di queste situazioni:

  • stregoni con maschere e modi di parlare anch’essi da operetta – o da quel cinema o quel fumetto che più hanno aspirato la cultura coloniale – ma che smascherati si rivelano essere invece dei bianchi dediti al peggior colonialismo, cioè la tratta degli schiavi;
  • un mini-King Kong a metà tra il terrorizzante e il risibile che sembra in qualche modo parodiare il primo film di King Kong, dalle intense atmosfere oniriche ma che visto oggi pare ancora un po’ grottesco e di cartapesta;
  • sogni un po’ farseschi e, risibili quanto il celebre gorilla cinematografico, da parte di soldati coloniali. Uomini che, seppur non sprovvisti di etica e umanità, soltanto nella dimensione onirica sembrano arrendersi con sincerità alla pesantezza e inadeguatezza di dover portare sulle proprie spalle il fardello coloniale.

Su quest’ultimo aspetto Pratt ricorda in qualche modo il Winsor McCay della geniale serie The Dream of the rarebit fiend che – come da più parti già affermato – anticipava, oltre alla lettura psicanalitica, il surrealismo provocatorio e anarcoide di un Luis Buñuel, ritraendo quei borghesi ossessionati o (auto)oppressi dal preservare l’immagine che hanno in società. Borghesi che non riescono a leggere un discorso ad un banchetto e che più vanno avanti e più s’ingarbugliano, s’inceppano sotto lo sguardo sempre più allucinato, avvolgente e opprimente dei conviviali, svegliandosi infine al mattino dal sogno di una semplice, per quanto imbarazzante, brutta figura di società come fosse il peggiore degli incubi possibili. Questo mondo ricco mangia troppo e male, fa indigestione, per poi, nella notte, precipitare in incubi risibili su paure risibili ma che rivelano tutta la sua cattiva coscienza. Allo stesso modo, questo colonialismo, proprio come la famiglia borghese bianca, non ce la fa, non può che incepparsi, decostruirsi o, per usare un’immagine più prossima all’umida ambientazione, non può che liquefarsi.

Una ballata del mare salato
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A questo Pratt oppone, nella messa in scena grafica, tutto il senso della gravità, l’intensità del mondo antico o arcaico, anche nella sua crudezza o insondabilità: figure ieratiche, gravi, ombre, suoni misteriosi nella notte come di giorno – a cominciare dal suono di un tamburo che arriva fino alle terre dei Masai –, costituiscono splendide apparizioni, spesso notturne. Alla maniera del cinema di un Jacques Tourneur, rielaborando la lezione espressionista di Caniff con una modalità più inquieta, Pratt suggerisce invece che (di)mostrare l’evidenza. Come invece si affanna tanto – troppo – fumetto e cinema di genere di oggi, privo di reale profondità visiva.

Le apparizioni sono quello che più caratterizzano questi racconti, dove l’espressionismo dei chiaroscuri dell’autore esprime una sottile ma costante atmosfera onirica, particolarmente vero nelle sequenze iniziali. Qui, al contrario di Tourneur, non è questione di una pantera invisibile e inafferrabile quanto il suo bacio, bensì di qualcosa d’insondabile e quasi inconoscibile, nascosto nell’oscurità di una giungla frastagliata quanto il segno grafico prattiano.

Qualcosa che terrorizza l’inconscio dell’uomo bianco, metaforizzato da Wambo, (nero) fantasma notturno a cui si oppone la purezza priva di reali pregiudizi dei due adolescenti. Sotto l’ombra di Wambo, Pratt costruisce sequenze magiche: un soldato ascaro, “suddito di sua graziosa maestà britannica”, urla nella notte chiedendo perdono al misterioso Wambo senza che nulla vediamo, fatto salvo il suo terrore; Anna gira insonne nella veranda e dietro di lei un’ombra quasi vampiresca sembra muoversi sul muro; il giorno dopo un’inquadratura dal basso con Anna nella stessa veranda sotto la luce diurna, suggerisce, se non inquietudine esplicita, una sospensione del tempo in quell’avamposto coloniale impaludato nella giungla e non propriamente foriero di speranza; stessa cosa poi per Dan, quando, tornata la notte, aggirandosi sotto la spettrale luce lunare in un fortino fattosi deserto, appaiono – improvvisamente – dei guerrieri appena fuori dal forte. Immobili e silenziosi, attendono.

Fumetti che lasciano il segno

Le etiopiche
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In conclusione, riesaminando sotto la dimensione grafica e dello spazio le prime tre opere di Pratt sceneggiatore, e quella forse più significativa realizzata su sceneggiatura di Oesterheld, oltre a dare maggiore centralità a Fort Wheeling abbiamo cercato di far cogliere come la forza del segno grafico – del segno più essenziale e raffinato insieme – sia l’esempio di fumetto nella sua migliore espressione, che non solo amplifica, ma “legge” la narrazione, la esprime.

Naturalmente, ci sono le eccezioni che confermano la regola. Oggi si è troppo ghiotti della trama per la trama, cioè di casette con la porticina per entrare, la finestrella per guardare fuori, il caminetto per riscaldarsi in inverno.

Ma se tutti i maestri della storia del fumetto sono maestri del segno grafico,un segno grafico che suscitato le più grandi meraviglie nei lettori perché capace di trascendere la narrazione anche quando questa poteva essere più o meno debole, allora è evidente che un fumetto senza potenza e originalità grafica, privo, se non di poesia, quantomeno di capacità evocativa e senso delle atmosfere potrà avvincere, forse anche molto, ma non esprimerà nulla dell’interiorità. E se nulla esprime del mondo interiore, non fiorirà all’arte. Sarà monco.

Con i grandi autori ma anche con gli autori medio-grandi, del fumetto popolare come del fumetto d’autore, la storia è nel segno. Con Hugo Pratt – anche grande sceneggiatore – lo è definitivamente. E per questo, come pochi altri, ha lasciato il segno.

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Note

1. José Munoz, La carta salvata, prefazione a Ticonderoga, di Hugo Pratt e Héctor Oesterheld, Rizzoli Lizard 2017.

2. Varie iniziative si profilano. Intanto 001 Edizioni ha già portato in libreria Gli Oesterheld, dal sottotitolo eloquente una famiglia distrutta, poiché lo sceneggiatore scomparve, come pure le quattro figlie, lasciando libera e in vita soltanto la moglie

3. José Munoz, La carta salvata, op. cit.

4. A questo link il discorso scritto in italiano; qui invece si può vedere il discorso originale in inglese. È inoltre importante rilevare che il discorso d’insediamento di JFK è stato oggetto di analisi in un ampio saggio dello storico Thurston Clarke (Ask not. Il discorso di Jfk che cambiò l’America, Il Saggiatore, 2006) il quale, dopo aver rilevato come abbia avuto un’influenza molto forte anche in ambiti inattesi – per esempio, nei confronti di Papa Paolo VI che, parlando e capendo perfettamente l’inglese, ascoltava regolarmente quel discorso di Kennedy per la sua forte connotazione spirituale che lo ispirava – passa in rassegna i discorsi dei suoi successori mettendone in evidenza i vari e continui echi di matrice “kennedyana” ma del tutto depotenziati di forza reale, di ispirazione e del tutto incapaci di creare una nuova “matrice”, tanto di scrittura che concettuale.

Clarke fa dunque ben capire come Kennedy creò con la Nuova Frontiera un “nuovo spazio” sia fisico che mentale, così come indirettamente (ma neanche tanto indirettamente) fa altrettanto ben capire come l’intera dirigenza politica che gli ha succeduto sia paradigmatica del surrogato postmoderno. Così come non è inutile ricordare ai fini della nostra analisi che Kennedy nel discorso di accettazione della candidatura alla Convention Democratica di pochi mesi prima abbia operato proprio in quell’occasione un forte rovesciamento concettuale, gerarchico e geografico – senza precedenti – facendo equivalere la sua giovinezza di aspirante dirigente con quella dei nuovi capi di governo che stanno emergendo nel mondo povero, anziché ai grandi vecchi che governano l’Europa in quegli anni. Uno dei tanti rovesciamenti praticati dal presidente americano che creano una prossimità con i rovesciamenti prattiani.

5. Per una più completa lettura dell’isola di Escondida come ultima Utopia, rimando al mio testo per il catalogo collettivo dell’esposizione al Macro Testaccio di Roma, Hugo Pratt. Incontri e Passaggi, Rizzoli Lizard, 2016.

Si ringrazia Rizzoli Lizard e CONG SA per aver fornito le immagini.