Max Fridman, un classico per profezia autoavverante

La recente ripubblicazione delle due prime avventure dell’ex agente segreto Max Fridman permette finalmente di confessare, non solo a me ma anche a diversi appassionati di fumetto della mia generazione, che non siamo stati tutti fan della prima ora di Vittorio Giardino. 

max fridman vittorio giardino fumetti

La linea Giardino
A metà degli anni Settanta, sulle pagine de Il Mago, Giardino ci era parso troppo derivativo da autori amati come Toppi e Battaglia. Tra la fine dello stesso decennio ancora su Il Mago e i primi anni Ottanta su Orient Express, il suo personaggio Sam Pezzo non ci aveva del tutto convinto. Era un hard-boiled italiano, dalle storie in b/n ambientate nella Bologna inquieta del tempo dove la città emiliana era ben più di un’ambientazione scenografica. Seppur un capostipite del genere, anticipato solo dall’Antonio Sarti di Loriano Macchiavelli e ancora lontano dall’essere sdoganato – penso a Lucarelli o ai Manetti Bros. – non era riuscito a far breccia tra noi.

Forse i tempi non erano maturi: la sua presenza era straniante, o almeno distonica. Il Riccardo Finzi di Max Bunker e il suo Gruppo TNT ci avevano abituato al piacere della parodia del detective in salsa marloviana e degli agenti segreti surreali, come l’Agente Smart televisivo di Mel Brooks. Ma in Sam Pezzo non si rideva, non c’era la distanza della commedia. Peraltro nei ricordi di allora Sam Pezzo ci appare ormai superato, sulle stesse pagine di Orient Express, da Alan Hassad, graficamente piacevole, credibile e più aderente ai canoni del genere crime hollywoodiano, opera dimenticata del duo Baldazzini/Brolli. 

D’altra parte, erano tempi di offerta artistica molto ricca. Avevamo giusto alle spalle l’enorme vastità dei maestri Disney americani e italiani, i fumetti de Il Corriere dei Ragazzi, di Linus e Alter Linus, e stavano uscendo nelle edicole Alter Alter, Cannibale poi Frigidaire, la versione italiana di Metal Hurlant e Pilote (Pilot). E poi erano attivi, tra gli altri, Breccia, Bonvi, Manara, Magnus, Eleutieri Serpieri, Milazzo. Insomma: il fumetto dei primi anni Ottanta annoverava ancora il meglio dei veterani italiani, Pratt in testa, il top del nuovo panorama internazionale, in particolare argentino, con Lancio Story e poi L’Eternauta, la crème franco-belga, Moebius e Druillet come capofila ma anche Bourgeon, e il meglio del Nuovo Fumetto Italiano con i vari Valvolinici, Frigideristi e l’immenso Andrea Pazienza. 

La linea chiara franco-belga, alla Hergé, Jacobs e Martin per intenderci, era stata appena definita tale dal fumettista e grafico olandese Joost Swarte. Ci avrebbe messo ancora qualche anno a riprendere un posto importante nel gotha del fumetto, con autori come Hermann, Juillard e Pellerin, non a caso tutti legati a narrazioni storiche. 

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Rapsodia Ungherese, il debutto del nuovo personaggio di Giardino, esce a puntate nel 1982 su Orient Express in questa temperie culturale. Positiva in termini generali ma estremamente competitiva e poco propensa ad un realismo grafico-letterario dal sapore un po’ retrò. La spy-story di Giardino altro non era che una variazione della detective story e del noir internazionali con un ritmo decisamente serrato, senza tante concessioni all’introspezione dei personaggi, ma con l’indubbio interesse dato dalla Storia usata come metro di lettura degli eventi narrati. 

Dal punto di vista del linguaggio Giardino presentava un disegno realista stile ligne claire molto particolareggiato, quasi maniacale, dall’incedere tipico del genere. A temperare quella influenza c’erano però i segni di una cultura ampia, apparentemente senza volontà innovativa ma con alcune centellinate soluzioni narrative che testimoniavano il tentativo di traslare nel linguaggio fumettistico altri modelli, cinematografici e letterari

I personaggi poi, fatto salvo l’elemento astratto del volto usato come artificio fisiognomico, parevano il risultato della somma di elementi cardine dell’estetica noir: il trench di Bogart, la pipa di Maigret (ma anche del Nestor Burma di Léo Malet e Jacques Tardi), i comprimari e gli antagonisti strappati dalle pellicole francesi e americane del dopoguerra, la costruzione delle trame all’inglese di Conrad, Le Carrè, Greene, Fleming e Hitchcock, le atmosfere di Lang, Wells, Wilder e Carol Reed.

Insomma Max Fridman si presentava come un “classico” progettato per essere tale. Una profezia auto avverante: fu subito premiato dall’allora establishment del fumetto nostrano. Eppure da alcuni lettori – incluso il sottoscritto – fu preso sottogamba per il suo spirito, già allora, demodé. 

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L’impressione generale che fece era quella di un autore, alla prova della svolta artistica, ancora non sicurissimo delle proprie capacità ma assai scrupoloso, dall’indole perfezionista. Una parola emergeva da quella prima storia dell’ebreo francese Friedman, agente segreto a riposo residente in Svizzera, reduce della guerra di Spagna alle prese con i prodromi della Seconda guerra mondiale, e quella parola era “controllo”. Tutto sembrava attentamente progettato, nulla doveva e poteva essere lasciato al caso: allora, per noi figli di una fase di irruenta sperimentazione, sembrò un minus

Quel controllo così evidente, anche se all’interno del meccanismo di una spy story dal sapore noir, non aveva eguali nel fumetto del tempo, né tra i maestri riconosciuti né tantomeno tra le fila della nuova generazione di aspiranti tali. Sarà la Francia, mercato d’elezione per Giardino, dove la narrativa grafica noir e poi polar è nata contestualmente al cinema e alla letteratura popolare sin dagli anni Trenta con i vari Renoir, Dassin e Clouzot, a tributare i primi apprezzamenti per Max Fridman. Apprezzamento che continua tutt’ora. 

Libertà e controllo
Ora che sono passati quasi quarant’anni e di Vittorio Giardino sappiamo tutto quello che c’era da sapere sul suo modus operandi – grazie anche all’inconsueta, per un artista della narrazione popolare, disponibilità, cortesia e signorilità che lo caratterizza – possiamo rileggere con maggiore lucidità le opere della svolta artistica di Giardino. Oltre alla citata Rapsodia Ungherese dunque, anche la già più matura La porta d’Oriente. E possiamo quindi renderci conto che quasi tutto quello che avevamo individuato come “limiti” delle storie di Max Fridman, si sono trasformate in punti di forza. Un ribaltamento cognitivo: anche per noi, oggi, si tratta di inequivocabili classici d’autore.

La forza tranquilla di Giardino è stata e rimane il controllo, ma già ne La Porta D’Oriente la coerente aderenza ad un modello che sempre più si confaceva alla personalità dell’autore, che poteva far trasparire non solo le fragilità e le zone d’ombra ma anche forti valori e principi non negoziabili, mai ideologici, che si rispecchiavano nel personaggio Fridman, si trasformava in una forma di libertà narrativa. Che riusciva non solo far dialogare la grande Storia con le piccole storie –  l’epopea di Jonas Fink ne sarà l’esempio più alto – ma a raccontarci, attraverso un enorme lavoro di documentazione e ricerca, certe pieghe della Storia meno conosciute ma esiziali per comprendere gli accadimenti del fatidico 1938, tra la Guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale. 

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Tutto questo avvicina il lavoro di Giardino ai grandi della crime story storico-letteraria di taglio storico-documentaristico. Penso ad esempio a Ben Pastor con l’ufficiale tedesco Martin Bora, per quanto riguarda il secondo conflitto mondiale, o ad Ann Perry con il cappellano inglese Joseph Reavley, per quanto riguarda il primo conflitto mondiale. Ma vale anche per Carlo Lucarelli con la serie del Commissario De Luca, collocata storicamente tra il periodo fascista, la caduta della dittatura e il dopoguerra. 

Tutto questo è già evidente ne La Porta d’Oriente, ambientata nella multietnica e multiculturale Istanbul. Da sempre crocevia degli intrighi internazionali, e in piena decadenza nell’anno della morte di Ataturk, in quella metropoli lo spessore dei personaggi, da Max Fridman all’ultimo comprimario, assume contorni ben più definiti, lasciando l’impressione che sotto la punta dell’iceberg di ciò che Giardino mostra e racconta ci sia tutto un mondo. La Storia dietro alla Storia, naturalmente; ma anche una somma di storie di vita, reali e immaginarie, comprensiva anche degli aspetti più privati ed emozionali che coinvolgono protagonisti e attori secondari. Grande controllo “tecnico” in cambio di un’enorme libertà inventiva. 

Non è un caso, allora, che la libertà immaginativa di Giardino si estenda anche alla sua libertà nei ritmi di produzione: la sua bibliografia è aumentata di poco e rimane limitata, certo, ma in virtù della giusta misura per creare un progetto – e badare al suo controllo, appunto. Il che rende il lavoro di Vittorio Giardino un unicum, in grado di entusiasmare noi vecchi lettori perplessi quanto qualsiasi altro amante della Nona arte. Se anche nel fumetto il tempo è galantuomo, la riedizione di Max Fridman ne è un buon esempio: rende merito ad un maestro artigiano del graphic novel che ha saputo trasformare lo scetticismo di una generazione di lettori, in sincera ammirazione.

La doppia vita di Max Fridman: Rapsodia ungherese – La porta d’Oriente
di Vittorio Giardino
Rizzoli Lizard, maggio 2019
cartonato, 240 pp., colore
25,00 €

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