Il sipario si apre e lascia, al centro della scena, un personaggio con lo sguardo mite e l’inconfondibile mantellina: è Cappuccetto Rosso. Ma qualcosa non quadra. Il viso cambia espressione, tingendosi di malizia, le mani afferrano i lembi della mantella e tirano, come se il sipario si dovesse ancora aprire: il corpo che appare, coperto da un abitino aderentissimo, anch’esso rosso, non è quello di una bambina. La ragazza attacca “Daddy”, una canzone che fa capire che qualche regalo azzeccato la farà diventare molto gentile, e si muove con mossette piccanti che mandano definitivamente in frantumi l’illusione di trovarsi di fronte a una fiaba.
In mezzo alla sala è seduto il lupo cattivo: è arrivato in limousine e indossa un frac. Appena il suo sguardo si posa sulla figura della ragazza, il corpo si irrigidisce a mezz’aria, dalle labbra esce un clamoroso fischio d’ammirazione, poi ulula e i pugni iniziano ad abbattersi violentemente sul tavolo. Da lì in avanti, l’eccitazione del lupo si innalza al parossismo in un crescendo di moti d’apprezzamento.
Chi entra in una sala l’8 maggio del 1943 per vedere Dr. Gillespie’s Criminal Case, ennesimo episodio della serie cinematografica che Metro-Goldwyn-Mayer sta dedicando ai dottori Kildare e Gillespie, si ritrova di fronte a uno di quei cortometraggi d’animazione che la casa di produzione affianca ai propri film: Red Hot Riding Hood, diretto da Tex Avery. Nel momento stesso in cui il lupo turgido si erige orizzontale e vibrante, il grande spettacolo anarchico di sesso e violenza messo in scena dagli animali antropomorfi non può più essere ignorato.
Il duro mattone con cui il topo Ignatz colpisce Krazy Kat e l’ambiguità pansessuale di Bugs Bunny, il cui carattere era stato portato a compimento dallo stesso Avery pochi anni prima, raggiungono un assoluto nitore. Il fischio del lupo è un Big Bang. Da quel momento, quell’apprezzamento, assai rischioso in tempi di #meetoo, viene chiamato “wolf whistle” e chi disegna narrazioni che hanno al centro animali che si comportano come uomini, se vuole essere accettato da precettori e genitori, trascorre la maggior parte del suo tempo a disarmare la sensualità e la violenza di quei corpi incongrui. Brutta bestia l’autocensura.

I primi anni della carriera di Massimo Mattioli sono caratterizzati da attraversamenti incongrui. Esordisce ventiduenne, nel 1965, sulle pagine del Vittorioso, realizzando diverse serie, tra le quali spicca Il vermetto Sigh. Tra il 1968 e il 1973 pubblica, per il settimanale francese Pif Gadget, M. le magicien. Dal 1973 serializza sulle pagine del Giornalino le avventure del coniglio Pinky. Nel 1977 fonda con Stefano Tamburini Cannibale, una rivista a fumetti decisamente underground, nata sotto l’egida dell’agenzia di stampa e controinformazione Stampa Alternativa.
Perché un autore affermato, capace di vendere i propri lavori ai più importanti periodici europei destinati ai bambini e ai ragazzi, decida di partecipare a un’impresa sotterranea e movimentista è un mistero. Apparentemente. I fumetti realizzati fino a quel momento sembrano godere di assoluta libertà. I committenti di Mattioli possono avere posizioni contrastanti, eppure l’autore regala loro comicità anarchica indifferente alla appartenenze: il Vittorioso e il Giornalino sono periodici cattolici; Pif Gadget è l’ultima incarnazione del settimanale Vaillant, di orientamento comunista; Stampa Alternativa è il giocattolo dell’anarchico Marcello Baraghini.
L’energia narrativa e la sensibilità dell’autore non sembrano subire alcuna limitazione. Le avventure di M le magicien sono perle surreali, come ben sa chi ha potuto leggere quelle brevi storie nel bel volume dedicatogli da L’Association. Pinky e i suoi comprimari sono personaggi in grado di vivere vicende gioiose e dirompenti, stabilendo un fortissimo legame con i lettori capace di durare oltre 40 anni.

Massimo Mattioli fonda Cannibale con Tamburini (e poi si uniranno a loro Filippo Scòzzari, Andrea Pazienza e Tanino Liberatore) principalmente per essere editore di sé stesso. Una pubblicazione priva di intermediari che stabiliscono le regole cui attenersi è uno spazio di libertà. E, in assenza di vincoli, il fumettista può raccontare le sue storie senza dover nascondere sesso e violenza, amore e morte. I personaggi delle sue storie più personali vivono nello stesso mondo in cui si muovono Sigh, M e Pinky, ma con regole diverse.
Memore del lupo di Tex Avery, Mattioli mette in pagina corpi gommosi che possono erigersi, impazzire d’eccitazione, divenire turgidi ed esplodere violentemente. Le animazioni della Metro-Goldwyn-Mayer, però, non potevano sporcarsi troppo di realtà: a quelle figure lupesche erano negati gli umori del corpo. Niente secrezioni. Non sudavano neanche.
Lo sguardo vorace di Mattioli si è formato alla scuola dell’underground comix americano. I suoi personaggi gommosi sono pronti a passare allo stadio successivo della rappresentazione di amore e morte. In un mondo morbido, sesso e violenza possono essere anche intrisi di secrezioni. Basta un panno umido per ripulire sperma e sangue da corpi che sembrano fatti di latex: il fiato si ricompone, gli arti si riattaccano con un suono piacevole, le pelli si chiudono con una cerniera lampo, i corpi tornano in vita e possono ricominciare a muoversi freneticamente.
In Mattioli tutto è energia: un flusso creativo che pare non aver limiti. Inoltre il sistema dei generi entro cui l’autore si muove è quell’immaginazione divertente e divertita che un tempo avremmo chiamato “paraletteratura”: fantascienza, orrore, giallo, nero, rosa, porno… Una sorta di brodo primordiale in cui prendono vita i personaggi.

Kurt Vonnegut ha inserito in molti suoi romanzi lo scrittore di letteratura di genere perfetto, Kilgore Trout, un autore vulcanico che, pur garantendosi la sopravvivenza con i lavori più disparati, ha scritto 117 romanzi e oltre 2000 racconti. I suoi lavori sono apparsi, nella quasi totalità dei casi, su riviste pornografiche, tra un servizio fotografico e il successivo. «Nessuno ha mai avuto successo», chiosa con cattiveria Vonnegut.
Nel periodo in cui Vonnegut mentiva agli editori, dichiarando di essere uno scrittore di fantascienza, aveva conosciuto Theodore Sturgeon. I due scrittori si erano confrontati sui propri insuccessi e sul timore di precipitare nell’oblio. Proprio a Sturgeon era ispirato Kilgore Trout: i nomi dell’autore reale, Theodore, e di quello fittizio, Kilgore, fanno rima; i cognomi richiamano pesci d’acqua dolce, lo storione e la trota. Non stupisce che Sturgeon sia stato capace di incidere così profondamente sui ricordi e sulle narrazioni di Vonnegut: i pochi romanzi e i molti racconti scritti durante la sua carriera sono potentissimi e quell’uomo, capace di arguzie molto divertenti, doveva essere un interlocutore irresistibile.
Una volta, in una biblioteca in cui stava presentando i suoi lavori, una signora seduta in mezzo al pubblico, un po’ seccata dalla presenza di uno scrittorucolo in quel tempio della cultura, aveva affermato con forza che il 90% della fantascienza è pattume. Theodore Sturgeon aveva risposto con una sentenza perentoria che, da allora, è nota come “Legge di Sturgeon”: «Il 90% della fantascienza è pattume. Ma del resto il 90% di qualsiasi cosa è pattume».
Gli autori di letteratura di genere più consapevoli e i lettori più intransigenti si illudono di muoversi in quel 10%, scartando tutto il resto e facendo fare al pattume la fine che merita. Massimo Mattioli, invece, sembra non disprezzare gli scarti. Ci affonda le mani per modellare narrazioni nuove. Gioca con gli stereotipi, con le forme più consunte, con luoghi così comuni da essere stati frequentati da chiunque. Produce narrazioni di prim’ordine muovendosi in mezzo a racconti che articolano la propria vita tra le produzioni narrative che si articolano tra la serie B e la Z. E riesce a farlo perché si tiene alla larga dalla seduzione del postmoderno e dell’intertestualità.
Un fumettista non è un’isola. Subisce la seduzione delle storie che ascolta, legge e guarda. Ne viene influenzato e spesso, quando la data di consegna si avvicina (e per chi lavora in un’industria che vive di serialità l’evento è molto frequente), cerca idee e ispirazione nelle storie che gli si sono incagliate addosso. Da questo sistema di riferimenti derivano i due modi prevalenti messi in atto dagli autori: la rinarrazione e la prosecuzione. Si prende una storia nota e la si veste di un nuovo contesto o di un nuovo punto di vista; oppure ci si chiede cosa succede ai personaggi dopo la brusca interruzione del “vissero per sempre felici e contenti”.

Massimo Mattioli non è esente dalla ricerca di ispirazioni. Prendiamo, per esempio, il fumetto che dà il titolo alla raccolta appena uscita per Comicon Edizioni, Bazooly Gazooly. È impossibile guardare quelle pagine senza pensare a Runaround, un racconto di Isaac Asimov che noi italiani conosciamo come Circolo vizioso o Girotondo. Si tratta di una delle storie del ciclo di Gregory Powell e Mike Donovan, collaudatori esperti di prototipi di robot. I due, in missione su Mercurio, si ritrovano in una di quelle situazioni di stallo cui spesso conducono i paradossi indotti dalle Leggi della robotica: il robot Speedy gira in cerchio attorno al pozzo da cui deve recuperare del selenio, cantando canzoni da operetta, e se continuerà a farlo a lungo gli umani sicuramente moriranno.
Mattioli ci deposita in mezzo a quel racconto. Poi, semplicemente, non ci dice nulla della storia e sposta la nostra attenzione altrove.
Il lettore ha il sospetto di riconoscere il nucleo dell’oggetto narrativo su cui Massimo Mattioli sta montando il suo racconto. Eppure, a un certo punto, quel riferimento scompare, quasi che l’autore, preso da un raptus di comicità e nonsense ultrapop, si sia dimenticato le regole del gioco.
E il lettore con lui.
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Questo articolo è originariamente apparso su Comicon Plus n. 0, edito da Comicon Edizioni.
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