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Sunday Page: Lorenzo Mò su Moebius

Ogni settimana su Sunday Page un ospite (autore, scrittore, critico, giornalista, editore) presenta una tavola a cui è particolarmente legato o che lo ha colpito per ragioni tecniche, artistiche o emotive. Le conversazioni possono divagare nelle acque aperte del fumetto, ma tutto parte dalla stessa domanda: «Se ti chiedessi di indicare una pagina che ami di un fumetto, quale sceglieresti e perché?».

Lorenzo Mò è un giovane fumettista del quale finora sono state pubblicate storie brevi, apparse su volumi autoprodotti come l’antologica Gnam di B-Comics e più di recente su Linus, nel nuovo corso curato da Igort, con la serie a puntate Merendino. Il suo graphic novel di debutto, uscito nel marzo 2019 per Eris Edizioni, si intitola Dogmadrome, definito da Marco Andreoletti «Un universo dove tratti cartooneschi convivono con soluzioni più disturbanti, seguendo la scia di un gigante come Al Columbia».

Lorenzo Mò Moebius

Ho scelto la tavola di chiusura de Il garage ermetico di Moebius. L’ho scelta in una marea di pagine, autori e stili molto diversi tra loro, ed è stato tremendamente difficile cercare di capire quale pescare. In generale, molte tavole ti colpiscono per il disegno, per la composizione cromatica, o per un espediente narrativo particolarmente ingegnoso. Io ho preferito soffermarmi su qualcosa di emotivo, e anche in questi termini ce ne sarebbero a centinaia. Si tratta una semplicissima sequenza di immagini. Vediamo uno dei protagonisti – il Maggiore Grubert – scappare dalle guardie di Sper Gossi che lo vuole uccidere, anche se poco prima ha salvato lui e Jerry Cornelius dalle grinfie del Bakalite. Una volta varcata la porta, il Maggiore Grubert, passa da un immenso mondo a livelli creato da lui stesso dentro un asteroide che galleggia nello spazio siderale nella costellazione del Leone, alla fermata Opera di Parigi, e quindi, all’interno del nostro mondo.

Quando a sedici anni, di ritorno da una faticosa giornata di scuola, comprai e lessi per la prima volta Il garage ermetico, mi sembrava di essere immerso in un continuo flusso lisergico che pareva non finire mai. La chiusa di tutta la storia, infatti, con una normalissima successione di otto vignette, concentra tutto il fascino e la magia della monumentale opera sci-fi di Moebius: personaggi che si rincorrono, atmosfere che mutano in continuazione con uno stile grafico che cambia da episodio a episodio; dove si respira un’atmosfera strana quasi come se si fosse in un sogno.

Si tratta del finale, ma lo sguardo furbetto del Maggiore nella settima vignetta sottende che molto probabilmente le sue avventure non finiranno lì. Le vignette sono otto, sarà un caso? L’otto rovesciato è anche il nastro dell’infinito di un altro importante Moebius. La scelta cade su l’ultima scena anche per un altro motivo: tutto il continuum visionario della vicenda del Maggiore Grubert e di Jerry Cornelius si raccorda a elementi reali. In questo senso, mi hanno sempre affascinato le storie che hanno uno svolgimento in mondi lontani, fantastici o paralleli, dai quali si può tornare come in questo caso con la semplicità di un gesto: aprire una porta grazie a una chiave magica.

Trovo che sia qualcosa di primigenio e atavico, immaginare dietro qualcosa di reale, un mondo completamente diverso fatto di regole che in questo caso rispondono solo al volere dell’autore. È la tavola finale e quindi qualcuno potrà incolparmi di aver fatto uno spoiler, però, per com’è strutturato tutto questo capolavoro questa pagina potrebbe anche essere l’incipit di tutto il Il garage ermetico. Moebius diceva: «Non c’è alcuna ragione perché una storia sia come una casa con una porta per entrare, delle finestre per guardare gli alberi e un camino per il fumo: si può benissimo immaginare una storia in forma di elefante, di campo di grano o di fiammella di cerino».

Hai detto che hai letto per la prima volta quest’opera a sedici anni? Come la scopristi?

Comprai il volume al terzo anno del liceo, a quel tempo mi ero da poco avvicinato al fumetto d’autore e underground degli anni Settanta e Ottanta, e scoprii Moebius grazie a un compagno di scuola che portò in classe una di quelle raccolte che facevano da inserto a Repubblica, al cui interno c’erano le storie più famose dell’autore francese. Quel giorno poco prima di rientrare a casa da scuola mi fermai in libreria e scovai il Il garage ermetico, del quale avevo solo sentito parlare. La magia cominciò nel momento in cui iniziai a sfogliarlo nel negozio.

Che rapporto hai con il resto delle opere di Moebius?

Pari al Il garage ermetico, c’è soltanto Arzach, ma amo più o meno tutto quello che Moebius ha messo su carta. Quello che di più ammiro in lui e che traspare più che in altri autori, è il piacere della creazione e dell’invenzione grafica che va oltre qualsiasi cliché. Credo che il senso di stupore che è in grado di creare, sia unico nel suo genere e forse è uno dei pochi autori che se riguardo ora, con gli occhi di un adulto mi fa ancora strabuzzare gli occhi e rimanere a bocca aperta come quando avevo sedici anni.

C’è una lezione, che da autore, hai imparato e utilizzi nei tuoi lavori?

Forse il cercare di viziare il lettore, in senso buono ovviamente: tentare di stupirlo con i mezzi che ho a disposizione.

Leggi anche:

“Dogmadrome”, il graphic novel di debutto di Lorenzo Mò
“Dogmadrome”, una riflessione sulla fantasia
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