
Dopo otto anni di Adventure Time, l’esperimento web di Bravest Warriors e qualche comparsata in veste di sceneggiatore, regista o doppiatore (su Over the Garden Wall, Steven Universe e Uncle Grandpa) abbiamo finalmente la possibilità di scoprire la nuova serie di Pendleton Ward: Midnight Gospel.
Per quanto fosse difficile provare a prevedere in quali direzioni si sarebbe mossa la mente dietro a quella che il New York Times definiva come «una delle meraviglie visuali e artistiche dell’ultimo decennio», era piuttosto scontato aspettarsi l’ennesima sortita in territori legati a un immaginario fantasioso, colorato e ricco di contrasti surreali. E in effetti le cose sono andate proprio così, solo in una maniera che in pochi avrebbero saputo ipotizzare.
Midnight Gospel ha una struttura banale e abbastanza noiosa che funge da pretesto per mettere in scena un mondo diverso per ogni puntata. Clancy è uno spiantato fannullone che si è fatto prestare una grossa somma di denaro dalla sorella per comprare un simulatore di mondi e trasferirsi nella bizzarra regione del Nastro. Il suo piano è semplice: visitare ogni giorno un nuovo pianeta simulato, intervistare un abitante, mettere tutto online e campare dai proventi dello streaming di questi suoi “spacecast”.

Questa è a grandi linee la traccia narrativa portante di ogni episodio. C’è anche una sorta di trama orizzontale che unisce le puntate, ma si tratta di un abbozzo appena accennato. Il vero fulcro della serie è un altro: l’utilizzo delle registrazioni di un podcast che esiste veramente, il Duncan Trussell Family Hour. Duncan Trussell è infatti il co-creatore di Midnight Gospel ed è molto famoso negli Stati Uniti per il suo podcast in cui chiacchiera liberamente con gli ospiti di argomenti che vertono spesso sull’uso di droghe psichedeliche, la meditazione, il buddismo e la consapevolezza di sé.
L’idea alla base di tutta la serie è prendere queste lunghe clip audio – opportunamente montate e arricchite con alcune battute ad hoc, per accompagnare un minimo lo scorrere degli eventi – e inserirle nella narrazione come se fossero dialoghi scritti appositamente. Le testimonianze che Clancy raccoglie durante le sue gite sono autentiche interviste di Duncan Trussel – che doppia il protagonista – ai suoi ospiti.
Abbiamo così un completo scollamento tra quello che vediamo e quello che ascoltiamo. Il risultato è un effetto piuttosto straniante. Audio e video avrebbero tranquillamente ragione d’essere l‘uno senza l’altro, tanto sono separati tra loro e ricchissimi di contenuti. Per quanto a tratti sia faticoso seguire quello che sta succedendo e al contempo capire di cosa si stia parlando, non si vorrebbe perdere nulla dell’inventiva e dell’attenzione dell’animatore per i particolari più minuti.

Con lo svolgimento della serie gli immaginari si fanno sempre meno codificati o prevedibili. Tanto per capirci, nella prima puntata vediamo il protagonista affiancare un minuscolo e goffo presidente degli Stati Uniti in una battaglia contro un’invasione zombi, il tutto mentre si discute di sostanze psicotrope. Poi andiamo a visitare un pianeta mattatoio popolato da orrendi cuccioli di clown, cerchiamo di sopravvivere in una sorta di medioevo fantasy ultraviolento dove i demoni abitano tra le chiappe di loschi personaggi, salpiamo su di una bizzarra nave condotta da gatti marinai e così via. Nel mentre le chiacchierate diventano più profonde e intime – con il culmine di emotività nell’ultima, straziante puntata – e la narrazione visiva si fa sempre più criptica.
Dentro Midnight Gospel abbiamo tanto nuovo fumetto alternativo americano, da Michael DeForge a Jesse Jacobs, estetica vaporware, ma anche influenze più datate come Go Nagai, Heinz Edelmann, Gary Baseman e in particolare James Jarvis. Ci sono puntate che mettono in scena mondi grotteschi, ricche di riferimenti sessuali e mutazioni e altre in cui tutto è sfacciatamente zuccherino. Nei rari momenti dove l’azione si fa più concitata l’amore di Ward per le vorticose inquadrature e le accelerazioni del regista Masaaki Yuasa – ospite anche su Adventure Time – è palese, con risultati fulminanti.
Quando Adventure Time veniva messo in onda per la prima volta su Cartoon Network, diventando immediatamente un classico, eravamo di fronte a un autentico terremoto. Partendo da un universo fortemente nostalgico e citazionista – vecchi videogiochi, RPG, classici della narrazione d’avventura – si arrivava presto a includere influenze lontanissime e a toccare categorie estetiche difficili da immaginare come pertinenti a una serie per ragazzini. Le avventure di Jake e Finn potevano essere violente e sgradevoli più di molte serie forzatamente adulte.

Come spiegava Mark Fisher: «Il weird è ciò che è fuori posto, ciò che non torna. Il weird apporta al familiare qualcosa che normalmente si trova al di fuori di esso, e che non si riconcilia con il “casalingo” (neppure come sua negazione)». Ed era proprio quello che Ward riusciva a infilare in ogni puntata: partendo da ingredienti che tutti conoscevamo fin troppo bene, innestava aspetti sempre meno concilianti. Da questa intuizione con gli anni si è generato un autentico movimento, che ha portato nuova linfa a tutto il fantasy.
Peccato che nel corso del tempo questa attitudine, a esclusione dello stesso Adventure Time e di pochi altri esempi, si sia fatta sempre meno disturbante e sempre più di maniera. Il movimento è sempre quello. Si parte dal fantasy classico – maghi, cavalieri, orchi, draghi – e mano a mano ci si allontana dal materiale di partenza. Si inseriscono derive estetiche inaspettate, influenze lontanissime, si può semplicemente sovvertire il tutto o renderlo più crudo. Ci si aggiunge l’elemento umoristico, le astronavi, il realismo, il riferimento colto e quello alla serie animata preferita della nostra infanzia. Il tutto procedendo sempre più per accumulo, annacquando così l’aspetto weird.
Sempre Fisher sosteneva che «la forma artistica che è forse più appropriata al weird è quella del montaggio – la combinazione di due o più elementi che non appartengono allo stesso luogo. Da qui la predilezione per il weird da parte del surrealismo, che interpretava l’inconscio come una macchina per il montaggio cinematografico, un generatore di accostamenti bizzarri». Con Midnight Soul Ward sembra aver preso alla lettera il critico e sociologo inglese, aggiungendo un ingrediente che fino a quel momento aveva dosato con molta cura.

Se in quasi tutti gli epigoni di Adventure Time l’aspetto più importante è quello ludico, Ward ha riportato la weirdness al suo posto introducendo nella formula la cosa più aliena a quello che sembra essere sempre più un gioco fine a se stesso: l’elemento umano. E lo fa raccontando le sue solite storie stralunate, sovrapponendole però a persone che si aprono ai loro ascoltatori, parlando senza sosta di lutti, dell’importanza del dialogo e della consapevolezza di sé nel mondo. Con in più il colpo al cuore finale, ovvero la chiacchierata tra Trussell e sua madre. Malata di un cancro ormai incurabile e conscia della sua sua morte imminente. Così, mentre gli altri inseriscono l’ennesima citazione dei fantastici anni Ottanta, Midnight Gospel ci parla di noi e di quanto possiamo essere complessi.
Un filone nato e prosperato in virtù della sua weirdness si è dimostrato ben presto una comfort zone dove riversare tutto quello che ci piaceva. Un disvelamento del gusto e della nostra identità infantile ormai lontano dalle intenzioni iniziali del suo autore. Con il suo ritorno Ward non solo riporta tutti gli ingredienti al suo posto, ma sposta l’asticella dove pochi altri sarebbero riusciti ad arrivare. Aveva già provato a inserire maggior spessore umano con puntate storiche di Adventure Time, come quella incentrata sull’alzheimer di Re Ghiaccio, ma qui tutto arriva a un livello successivo.
Midnight Gospel sarà anche pieno di creature bizzarre e violenza gratuita, ma parla prima di tutto di umanità e della ricerca della propria pace. Lo fa condividendo esperienze difficili, puntando sull’empatia e sullo sviluppo della capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri.
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