Tokyo Godfathers fu il terzo lungometraggio animato del regista giapponese Satoshi Kon dopo Perfect Blue e Millennium Actress e si ispirò a Three Godfathers, romanzo del 1913 di Peter B. Kyne. Da questo libro erano stati tratti ben quattro film muti e uno sonoro del 1936, ma Kon guardò all’adattamento cinematografico che ne aveva fatto John Ford nel 1948, in Italia noto come In nome di Dio – opera anomala, western che non era un western, sintesi del cinema fordiano. Kon, naturalmente, trovò la materia narrativa sufficientemente interessante da farla propria per poi restituirla in un film anime poetico, nostalgico e ricco di speranza, nonché una summa della sua visione dell’arte e della vita.
La storia si svolge a Tokyo, la vigilia di Natale e ha per protagonisti tre senzatetto mal assortiti: Gin, un alcolizzato che vive il rimorso di non aver più parlato con sua figlia; Hana, una donna trans ex drag queen rimasta senza un soldo; Miyuki, una giovane ragazza scappata di casa. I tre trovano per caso una neonata abbandonata tra i cartoni dell’immondizia e da lì affronteranno una serie di avventure esilaranti che, inevitabilmente, li porterà a riconsiderare se stessi.

La pellicola si potrebbe tranquillamente annoverare tra le grandi opere legate all’immaginario natalizio, e comprende alcune dinamiche narrative che l’hanno portata a diventare una sorta di cult al pari di altri titoli, impressi indelebilmente nell’immaginario collettivo (come Una poltrona per due).
Il punto di forza di Tokyo Godfathers sono i personaggi. La profondità data da Kon, coadiuvato alla sceneggiatura da Keiko Nobumoto, è tale da fare dei tre – e delle loro storie personali segnate da rinunce, ossessioni, sbagli, rimorsi, speranze – il centro stesso del film. Tutti, in Tokyo Godfathers, hanno un passato con cui fare i conti. Le forzature che la contingenza presenta loro porteranno a un cambiamento, a un raggio di sole che, non a caso, si intravede solo nel finale, quando per il resto del film le nuvole e la notte ci calano in un contesto cromatico scuro, fatto di luci artificiali, di bui interrotti.
Chi ha potuto sfogliare lo storyboard del film avrà immediatamente notato quanto Satoshi Kon fosse maniacale. Una ricerca della precisione facilmente rilevabile anche in questo film, che alterna momenti sospesi fortemente poetici ad altri adrenalinici degni dei migliori action movie. Il virtuosismo di Kon esplode in sequenze d’azione, alternate con momenti profondamente poetici, il tutto supportato da una qualità tecnica che coinvolge vari i reparti di produzione, dall’animazione al sonoro, fino, appunto, alla regia.

Per alcuni, Tokyo Godfathers sarebbe considerabile una sorta di film minore nella purtroppo breve carriera del Satoshi Kon regista, morto a 46 anni nel 2010 a causa di un tumore al pancreas. Forse per il tono da divertissement, forse per il mood scanzonato, forse perché pare allontanarsi dalle coordinate tipiche del suo cinema (il sogno, la trasfigurazione, il confine tra realtà e irrealtà, la memoria) per calarsi in un contesto solo apparentemente più realistico.
Niente di più sbagliato: Tokyo Godfathers è l’essenza stessa del cinema di Kon. Lo è perché per tutta la sua durata scorre su un binario che insinua un sensato dubbio nello spettatore: ma quello a cui sto assistendo è vero oppure è il sogno di qualcun altro?
Questa dimensione onirica è ulteriormente sottolineata dagli stranianti titoli di coda finali (i grattacieli di una Tokyo innevata che ballano), in grado di disvelare le radici del Kon anarchico, che intende sovvertire le regole di storytelling comunemente condivise. Un autore che, pur rispettando le regole standard della narrazione, è sempre teso verso una rivoluzione delle stesse, tramite il desiderio di sorprendere lo spettatore e costringerlo a pensare all’opera (e al cinema) in modi nuovi e imprevedibili.
Ci sembra quindi che il film contenga tutti gli ingredienti che già conosciamo, di cui la nostra esperienza di spettatori ha già fatto bagaglio, ma la sensazione, durante i titoli di coda, è che abbiamo assistito a qualcosa di mai visto, e questo riguarda Tokyo Godfathers così come tutte le opere di Kon. Ed è proprio tra queste pieghe che si annida la sua magnificenza autoriale.
A ben pensarci, Tokyo Godfathers vibra di tutte le sfumature surrealiste tipiche di Kon. Le rocambolesche avventure dei tre personaggi sono talmente assurde da elevare l’intera storia su un piano onirico e trasognante. E, nonostante questo suo tendere verso l’astratto, la dimensione reale, nelle sue componenti più tragiche, emerge con una forza emozionale e sincera. La solitudine, la rabbia, la speranza di queste persone sono istanze vere, sentite, ma la sovrastruttura del racconto ha declinazioni favolistiche. In pratica, Tokyo Godfathers è un’allegoria, un canto d’amore e speranza che risuona in un grigio tutto contemporaneo.
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