
La radura, graphic novel d’esordio dell’illustratrice tedesca Antonia Kühn, è un libro in cui entrare in punta di piedi. Al centro della vicenda c’è Paul, un bambino di 11 anni che cerca di ricostruire attraverso foto e vecchie lettere il profilo della madre tragicamente scomparsa. Quello che resta della famiglia di Paul, ogni maledetto giorno, deve fare i conti con l’assenza, cercando di serbare una parvenza di normalità.
All’indolenza del padre – che ha chiuso in un cassetto la traumatica esperienza e si arrabatta tra i turni in fabbrica e le mansioni di casa – fa eco la rabbia giovane di Lauri, la sorella adolescente di Paul. Il tema è delicato: si intuisce sin da subito che dietro il rimosso c’è un evento drammatico, che ha costretto Paul a chiudere tutto in una scatola.
Kühn sceglie una metafora eloquente per raccontare il percorso di Paul: in tedesco il termine “radura” (lichtung o waldlichtung, quando si parla come in questo caso di una radura nel bosco) si contrappone a quello che indica il bosco fitto (dickung). Da un lato c’è il buio del bosco, dove non filtra la luce e tutto sembra identico, dall’altro l’apertura, cioè il farsi rado della vegetazione e la possibilità alla luce di rischiarare.

Da qui l’espressione “etwas lichten”, che significa rendere qualcosa rado, libero e aperto. Con “radura” dunque nel libro si allude allo spazio fisico in cui Lauri trova rifugio tra i suoi amici, ma soprattutto alla memoria guadagnata passo dopo passo dal piccolo Paul. Le due “radure” si sovrappongono e sfumano l’una nell’altra, fino all’epifania finale.
L’autrice conduce la narrazione alternando i piani temporali, e il passato si fa presente attraverso le piccole scoperte di Paul. Questo lavoro di scavo e affioramento viene condotto attraverso un interessante lavoro sulla gabbia: le vignette appaiono sospese in uno spazio bianco che diviene metafora della materia informe da cui sorge tanto la memoria quanto l’onirico, altra dimensione esplorata e che fa da contrappunto alla grigia quotidianità. Memoria e desiderio, come direbbe Thomas Stearns Eliot, si intrecciano per delineare un racconto corale, in cui i protagonisti si sentono smarriti e intrappolati come in una casa degli specchi.

Lo specchio, la giostrina, le collane e soprattutto lo sliding puzzle – uno di quei rompicapo a scorrimento con cui tutti ci siamo dilettati da bambini – diventano non soltanto simboli per parlare della memoria recuperata, ma anche strutture attraverso cui interpretare la tavola. Alcune delle intuizioni più felici provengono dalla maniera in cui l’autrice scompone la classica gabbia o ne forza le strutture sequenziali per creare accostamenti di senso. Si veda la sequenza iniziale o quella in cui Paul gioca con ritagli e foto, componendo immagini inedite (o mnestiche) con i frammenti della propria solitudine.
Kühn, per narrare tutto ciò, sceglie uno stile che predilige il tratteggio a matita – e che rimanda a una precisa estetica legata all’autoproduzione e al fumetto underground a cavallo tra i tardi anni Novanta e i primi del Duemila – per delineare paesaggi e interni freddi e impersonali, donando alla storia un tono dimesso, come se tutto fosse osservato da una distanza siderale, per non interferire con i sentimenti che agitano i cuori dei personaggi.
A metà strada fra Chihoi e il nostro Michelangelo Setola, Antonia Kühn ci diletta così con un’opera prima ispirata e promettete, dai toni autunnali e soffusi.
Leggi anche: L’ignoranza che ‘inventò’ le streghe di Salem
Entra nel canale WhatsApp di Fumettologica, clicca qui. O seguici su Telegram, Instagram, Facebook e Twitter.