La storia di Zardo pare riprendere tale e quale il topos del manoscritto ritrovato, l’astuto stratagemma con cui un autore – gli esempi sono innumerevoli: da Chrétien de Troyes a Ludovico Ariosto, da Miguel de Cervantes a Umberto Eco – prendeva le distanze dalla paternità di quanto scriveva e allo stesso tempo ne legittimava l’autenticità, fingendosi mero ambasciatore di un testo scritto da altri.

Nel caso specifico, trattandosi di fumetti, ad essere ritrovata in modo piuttosto rocambolesco è una sceneggiatura fatta e finita, di cui, guarda un po’, Tiziano Sclavi non ricordava neanche l’esistenza. Almeno fino a quando, casualmente, il regista Giancarlo Soldi, che aveva firmato il film Nero. (con il punto) – tratto a sua volta dal libro omonimo di Sclavi uscito per la casa editrice Camunia nel 1992 – non ritrova le fotocopie di quella sceneggiatura ormai sgualcite dal tempo. Questa coincidenza permette così il recupero del prezioso documento e la sua pubblicazione, tradotta per immagini dal talento grafico di Emiliano Mammucari e dai colori di Luca Saponti.
Una ricostruzione affascinante, che dona a questo progetto “transmediale” (nato quando il termine non era ancora di moda) un’aura leggendaria e promettente. La sceneggiatura originale – pubblicata in coda al volume – è in effetti un’interessante fotografia del periodo migliore di Sclavi, quello che all’inizio degli anni Novanta lo vedeva all’apice del successo con Dylan Dog e con la ripubblicazione dei suoi primi romanzi, alcuni dei quali avranno poi una trasposizione cinematografica (da Dellamorte Dellamore allo stesso Nero.).

Come leggiamo nelle note introduttive di Sclavi per il disegnatore, che all’epoca doveva essere Giampiero Casertano, Zardo era nata come una serie potenzialmente infinita, un noir con protagonisti una coppia di amanti assassini, caratterizzato da molta ironia e da una spruzzata di horror, ispirato a film come Ossessione (1942) di Visconti e Blood simple (1984) dei fratelli Coen.
La descrizione della storia da parte di Sclavi è affascinante e trasmette un contagioso entusiasmo:
«una ragazza ha ucciso il suo uomo tagliandogli la gola. Il suo nuovo amante, che la crede colpevole, cerca di aiutarla facendo sparire il cadavere. Ma il cadavere sparisce sul serio, passa da un bagagliaio di macchina a un altro, coinvolto in una ridda di colpi di scena che ormai non lo interessano più. Il cadavere si chiamava Zardo. E a poco a poco, assurdamente, il nuovo amante della ragazza ne assume il nome e l’identità (…) Zardo è programmato come un turbine inarrestabile, come un gorgo che risucchia protagonisti e lettori.»

In quel gorgo, tuttavia, ci è finito lo stesso Zardo, che evidentemente all’epoca non venne reputato degno degli ambiziosi piani del suo autore. Oggi invece, in piena stagione di bulimia progettuale e di retromania, l’avventura di Zardo può ritrovare un suo senso e una sua nuova compiutezza.
Mammucari interpreta lo spartito ritrovato di Sclavi focalizzandosi sulla dinamicità dell’azione, giocando con la struttura di una tavola rigorosamente a quattro strisce, per volontà dell’autore, ma liberando la griglia da vincoli definiti, sovrapponendo le vignette, allargandole o intersecandole, in funzione del ritmo. Il suo tratto scattante è ben supportato da un uso dei colori che si focalizza sulla espressività delle scene e che ne accentua i momenti di tensione.
Il cadavere di Zardo chiuso nella valigia (tranne la sua mano, inevitabilmente amputata) produce situazioni grottesche e, come tipico del migliore Sclavi, si sviluppa in un crescendo di situazioni tragicomiche, al limite del surreale. Ma chi è Zardo? E perché il protagonista maschile riesce a identificarsi così facilmente con la sua identità?

La storia procede a ritmo spedito, ma rimane monca – come la mano di Zardo – chiedendo una prosecuzione che al momento non è chiara. Le promesse elargite nell’introduzione sclaviana risultano quindi malinconicamente irrisolte: personaggi come il commissario Straniero e il suo vice Cisco, situazioni surreali come l’astronave degli Ufo che compare improvvisamente in mezzo alla campagna, lo stesso mistero di Zardo e del suo cadavere che continuamente sparisce per ritornare nei luoghi più impensati… Questi ed altri elementi del dramma risultano appena accennati, in un primo capitolo che non può certo dirsi autoconclusivo, tali e tanti sono i gorghi lasciati aperti.
E se Sclavi, o qualcuno per lui, ritrovasse un altro manoscritto? Potrebbe essere il solo modo per trascinarci definitivamente nella sua musica. Da eccellente compositore di partiture narrative, è come se questa volta il Tiz avesse appena abbozzato una melodia. Il cui spartito pare essersi interrotto troppo presto.
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