di Mario A. Rumor*
I figli del mare (Kaiju no Kodomo, 2019) è con ogni probabilità il film animato giapponese più ambizioso dell’anno scorso, tratto da un manga di Daisuke Igarashi che Panini Comics ha ristampato per l’occasione. Dopo la distribuzione nei cinema italiani grazie a Nexo Digital il 2-4 dicembre, il film è ora disponibile in home video con etichetta Dynit. Il regista è Ayumu Watanabe, già autore del film Doraemon – Il dinosauro di Nobita (2006) e qui passato a un livello totalmente differente. Ecco un’intervista a lui.

Signor Watanabe, lei ha ammesso di essere un fan dei manga di Igarashi. Che cosa ha voluto raccontare con il film e quali differenze ci sono con il fumetto?
Tutte le opere di Igarashi hanno come punto fondamentale la vita e quello che la riguarda. In questo lavoro, in cui in particolare troviamo il rapporto tra l’universo e la vita che sguscia fuori attraverso la giovane protagonista Ruka, ci chiediamo in che modo, dentro la vita stessa che fila via, viviamo. L’ho disegnato come un inno alla nascita e alla crescita che sono cariche di potenza e curiosità. Per quanto riguarda la struttura del film, piuttosto che sull’originale mi sono concentrato su Ruka, e mi sono anche impegnato a fare in modo che l’impressione generale, tema compreso, non fossero differenti dall’originale a fumetti. Spero di esserci riuscito.
Studio 4°C è una delle società di animazione più rinomate del Giappone. Quando le è arrivata la proposta di dirigere il film e quale emozione le ha suscitato?
Quando ne ho sentito parlare per la prima volta penso fosse intorno al 2013. Sentendo il titolo del film che volevano realizzare mi sono esaltato, ma avevo anche pensieri contrastanti perché ho pensato che sarebbe stato un lavoro molto difficile. Però la voglia positiva di raccogliere la sfida e l’idea di volerlo fare personalmente piuttosto che lasciarlo a qualcun altro ha vinto ogni incertezza. L’amore per le opere di Igarashi ha vinto e quindi ho accettato.
Si è circondato di collaboratori fidati o ha cercato nuovi talenti?
Nelle mie opere, Kenishi Konishi è il creativo più importante e di maggior peso. Se lui non mi avesse affiancato, questo lavoro non sarebbe stato possibile. Attorno a lui si sono riuniti animatori che lo rispettano e che hanno lavorato con impegno anche senza pensare al solo riconoscimento artistico. Questo film è fatto di energia giovane e forza di coesione. I giovani animatori con l’abilità e il sentimento che hanno guadagnato da questo lavoro potranno dare maggiore spessore alle loro opere future.

Chi l’ha influenzata maggiormente nella carriera?
È difficile indicare una sola persona… Nel mio periodo amatoriale ricordo l’importanza di Akira Kurosawa e Steven Spielberg. Lo spunto per entrare nell’animazione l’ho avuto da Hayao Miyazaki e Osamu Dezaki. Mentre colui che mi ha indicato il rigore professionale e la determinazione è stato Tsutomu Shibayama, storico regista della serie e dei primi film di Doraemon.
Dai tempi del film animato La leggenda del serpente bianco (1958), gli animatori giapponesi hanno dimostrato una formidabile bravura nell’animare l’acqua. Dato che il suo film è ambientato in mare, qual è stato il suo approccio tecnico?
Piuttosto che puntare al realismo, ho cercato di disegnare onde che possedessero la capacità di diffondere emozioni. Per esempio, la curva del movimento doveva avere un effetto più vischioso, aggiungendo espressività a ognuno degli spruzzi di acqua. Per ottenerlo non c’era altro da fare che disegnarli uno per uno, ed è questa la cosa più preziosa dell’animazione realizzata a mano. Penso che così facendo si sprigionino dalle scene, una volta completate, sentimenti ed energia.
Questo elemento è proprio lo stesso della tecnica tradizionale, e se riuscissi a dimostrare con questa mia opera che è il metodo migliore ne sarei felice. Ritengo inoltre che il mare visto in La leggenda del serpente bianco e in Pinocchio sia ancor oggi da prendere ad esempio. In effetti noi lo abbiamo fatto.
Un’altra grandezza del suo film: le musiche di Joe Hisaishi, compositore abituale di Miyazaki e Takeshi Kitano.
Hisaishi è riuscito a calcolare alla perfezione la giusta distanza tra la musica e le varie scene. Che sensazione fantastica! Ponendo dei limiti e mettendo in risalto ciò che si vede in alcune scene, ha saputo “colorare” musicalmente le scene. Il blu del mio film è risultato così più profondo grazie alla musica. La sua musica è unica al mondo… Questo è il vero valore del minimalismo delle sue composizioni.
*La versione integrale di questa intervista è disponibile sul mensile Fumo di China 297, ora in edicola, fumetteria e online.
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