Una vita a rincorrere il sogno: “La solitudine del fumettista errante” di Adrian Tomine

di Angela Viola Borzacchiello

La solitudine del fumettista errante di Adrian Tomine si presenta come una sorta di taccuino in cui l’autore ripercorre alcuni episodi della sua vita da disegnatore indipendente (qui ci sono le prime pagine in anteprima).

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Nato a Sacramento in California nel 1974, Tomine iniziò da giovanissimo ad autoprodurre la serie a fumetti Optic Nerve, in seguito pubblicata da Drawn and Quarterly. In pochi anni si affermò come grande promessa del fumetto intimista americano: spesso paragonato a scrittori come Raymond Carver, è passato per anni dalle autoproduzioni distribuite personalmente nelle fumetterie alla collaborazione come illustratore per il prestigioso New Yorker. Nel frattempo, riconoscimenti e premi non sono tardati ad arrivare, tra i quali nel 2016 l’Eisner Award per la migliore storia breve Morire in piedi, pubblicata in Italia nel volume omonimo da Rizzoli Lizard.

Il titolo, suggerito a Tomine dall’amico e maestro Daniel Clowes, è stato ispirato dal racconto di Alan Sillitoe La solitudine del maratoneta (1959). Al primo impatto può sembrare strano questo rinvio allo sport, eppure sia la corsa che il disegno hanno in comune proprio la solitudine. Entrambe le attività, disegnare e correre, sono percorsi individuali dove l’unica vera gara è con se stessi e con i propri limiti. E forse mai come in questo lavoro Tomine si è messo a nudo davanti al foglio bianco senza omettere fragilità e paure. Ci ha confidato che la sua unica certezza fin da bambino era il desiderio di diventare un disegnatore famoso e apprezzato come il suo amato John Romita.

Con in testa questo unico obiettivo, Adrian ha trascorso tutta la sua infanzia e l’adolescenza a disegnare storie e perfezionare la sua tecnica, a scapito dei divertimenti e degli svaghi della sua età. Nel 1995, a soli 21 anni, era già presente come autore al San Diego Comic-Con International. Per la prima volta si sentì di far parte di un gruppo, ma fu proprio quando credette di essere forte e pronto ad accettare le critiche che subentrarono tutte le sue fragilità. Di fronte a una recensione negativa Tomine cambiò umore e ricadde nell’insicurezza, pur consapevole che era quello il prezzo da pagare per far parte di quel mondo.

Proprio lui, che si considerava il più severo critico dei suoi lavori, non riusciva a sfuggire alla paura del giudizio altrui. Si sentiva perennemente inadeguato e fuori posto, persino tra i suoi colleghi. Nel 1996, a Berkeley, Tomine si ritrovò a passare una sera a cena con autori del calibro di Dan Clowes e Richard Sala, e la cosa che più lo sorprese è che lo trattavano come un loro pari. Questo senso di inferiorità gli pervadeva l’animo, lo faceva sentire un estraneo anche tra persone che lo stimavano.

Nel 1999 Tomine fu invitato come ospite a una fumetto-crociera sull’Oceano Pacifico, ma appena scoprì che nessuno era lì per lui se ne pentì: tutti i presenti avrebbero voluto essere al tavolo con Neil Gaiman. L’anno successivo, a Boston, al termine di una sessione piena di dediche, si ritrovò comunque a cenare da solo lamentandosi della sua condizione. In fin dei conti era così occupato a piangersi addosso da non riuscire a essere felice nemmeno quando le cose andavano per il verso giusto.

Come si può leggere da questi racconti, la raccolta è pensata come un insieme di brevi episodi buffi e malinconici, una sorta di versione adulta e seriosa dei Peanuts o delle gag di Woody Allen. La narrazione, a un primo impatto fredda e distaccata, conserva una forte carica emotiva e non risulta mai autoreferenziale, presentando inoltre una leggerezza di fondo che è il frutto di una sofferta maturità artistica. Lo stile di Tomine lavora per sottrazione: il disegno è semplice ed essenziale, il montaggio è scandito da una gabbia fissa a sei vignette quadrate, in un bianco e nero che conferisce ancora più intimità al racconto.

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Dopo aver rincorso per tutta la vita il sogno di disegnare bene «come John Romita», l’autore sembra aver fatto suo l’insegnamento di Italo Calvino nelle Lezioni americane (1988): «La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso».

Come un corridore giunto al traguardo, con questo lavoro Tomine sembra voler fare un bilancio distaccato e sincero della propria vita. Consapevole di essere riuscito a realizzare il suo sogno di bambino non tanto grazie al talento, bensì per la disciplina e l’impegno, e non più solo ma confortato dagli affetti familiari, l’autore arriva a comprendere come il disegno, per lui, sia stato a lungo un riparo dalle persone e dal mondo. 

In questa sorta di diario dedicato alle figlie, Tomine sembra voler lasciare loro un messaggio rasserenante. Grazie alla paternità ha ritrovato la sua infanzia, quella spensieratezza e quella gioia autentica e sfrenata che l’amore per il disegno gli aveva sottratto.

La solitudine del fumettista errante
di Adrian Tomine
traduzione di Vincenzo Filosa
Rizzoli Lizard, giugno 2020
brossurato, 160 pp., b/n
19,00 €

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