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C’è qualcosa da dire sul Capitan America di Ta-Nehisi Coates (ma non molto)

capitan america ta-nehisi coates marvel

Fin dall’annuncio, il rilancio di Capitan America per mano di Ta-Nehisi Coates si scriveva da solo: un autore sofisticato, un intellettuale dell’America contemporanea attento alle questioni più pulsanti della nazione come l’esperienza nera, messo a sceneggiare il simbolo fumettistico del paese, un eroe che incarna una e mille bandiere, tanto che il primo numero della serie è uscito il 4 luglio del 2018, in concomitanza con i festeggiamenti della giornata dell’Indipendenza. La speranza fatta a fumetto affidata a un “afro-pessimista”, il più bianco degli eroi di Marvel Comics scritto dall’uomo che ha incolpato i miti e le storie «che questo paese ha raccontato a sé stesso» di essere le radici dell’ideologia trumpiana.

I fan si sarebbero esaltati, o arrabbiati (meglio ancora) i giornali ne avrebbero parlato, le mensole di casa Coates erano già pronte ad accogliere la mitragliata di premi che la critica gli avrebbe scaricato addosso. Un matrimonio ideale, cacio e pere, prosciutto e melone. Avete afferrato l’antifona. Invece, quasi come se ci fosse dimenticati di impostare il timer, la bomba non è esplosa. Recensioni d’ufficio a parte, quasi nessuno ne ha parlato. Coates stesso non ha praticamente rilasciato interviste a riguardo (una al New York Times e un testo per l’Atlantic) e negli incontri pubblici nessuna domanda gli è stata rivolta a proposito – questo temo abbia anche a fare con un certo stigma presente negli ambienti in cui lo hanno invitato.

Coates si è trovato a gestire Capitan America dopo una breve ma solida gestione firmata da Mark Waid e soprattutto dopo Secret Empire, crossover che aveva trasformato Steve Rogers in un gerarca occulto dell’Hydra, l’organizzazione criminale dell’universo Marvel con il pallino per la conquista il mondo. La miniserie aveva poi svelato che il Capitan America doppiogiochista era in realtà un doppione creato con l’ausilio del Cubo Cosmico – tutt’ora in vita e imprigionato nella prigione Colonna Ombra. Ma l’Hydra ha comunque vinto, perché l’immagine di Steve Rogers ne è uscita irrimediabilmente macchiata. Il nuovo corso di Capitan America parte da qui, con una reputazione da ricostruire e nemici che non hanno nessuna intenzione di far dimenticare al popolo americano che il loro eroe giocava a fare il nazista. Il Governo non lo vuole più, perché non vuole che la giustizia venga ristabilita da persone con un passato torbido. Come biasimarli, ormai il confine tra eroe e cattivo è talmente labile che, come Coates fa dire al Gufo, «un eroe è solo un criminale con la pistola più grossa».

steve rogers

Conosciamo una nuova organizzazione criminale che ha colmato il vuoto lasciato dall’Hydra, l’Elite al Potere, che incastra Rogers per un omicidio diffondendo la notizia che quella del clone malvagio di Cap fosse una bufala orchestrata per riabilitare l’eroe presso l’opinione pubblica. Il Capitano è costretto alla fuga, braccato dalla legge e aiutato da un gruppo di eroine ribattezzate Figlie della Libertà. Già in passato Cap era diventato un nemico dello stato o si era confrontato con gli eventi politici che stavano accadendo fuori dai fumetti. Deluso dallo scandalo Watergate, che aveva tradito gli ideali rappresentati dal personaggio, negli anni Settanta aveva cambiato identità in Nomad, e lo stesso aveva fatto anni più tardi, quando la Commissione per le attività superumane aveva deciso di imporre la sua autorità sull’eroe, privandolo dell’indipendenza. Come spiegato da Coates al New York Times, «Capitan America è un eroe politico. È impossibile scrivere una storia apolitica di Cap. Ha una bandiera sul petto, non è un caso».

Scrivendo delle proprie idee sulla serie sull’Atlantic lo sceneggiatore disse che Capitan America rappresenta l’America ideale che si confronta con l’America reale, non altrettanto perfetta. Egli è – letteralmente – l’America del passato, è un’idea che forse non è mai stata vera ma che di certo ha perso qualsiasi credibilità negli ultimi tempi: condividere un simbolo, stare sotto la stessa bandiera e potersi definire tutti cittadini della stessa nazione. «Un tempo potevi fidarti di un patriota» osserva Steve, constatando che di fronte alla bandiera ora giurano col cuore in mano perfino gli stragisti. Di nuovo, la scena fa eco a Super-Patriota, un cattivo creato negli anni Ottanta con gli stessi ideali di Capitan America ma declinati secondo una morale diversa.

marvel comics

Dai titoli degli archi narrativi (Inverno in America, Capitano di niente, La leggenda di Steve) si intuisce che la crisi in cui Coates fa sprofondare l’eroe è diversa dalle precedenti. Se è vero che Capitan America è sempre stato un uomo fuori dal tempo che faticava a trovare il proprio posto nella contemporaneità, a lui si poteva sempre guardare come a un modello, un veterano da cui poter trarre insegnamenti per decodificare il presente. Ora però le battaglie della Seconda guerra mondiale in cui ha combattuto Steve non significano più niente, stanno diventando via via ricordi sbiaditi, testimonianze di un’epoca morta – con tutte le pericolose derive che comporta non tenere vive queste testimonianze. Più passa il tempo, più tutto ciò che rappresenta Capitan America perde di rilevanza nel discorso sociale d’oggi. I conflitti simbolo degli Stati Uniti contemporanei sono tutti interni (le sparatorie nelle scuole, la brutalità poliziesca) e Cap quelle cose non le può rappresentare, non è nel suo DNA.

In una scena di La leggenda di Steve prova perfino a trovare dei punti di contatto tra le due esperienze, la sua e quella dei lettori: Cap definisce un gruppo di suoi antagonisti come «perdenti che sognavano di fare una sparatoria a scuola solo perché le cheerleader non erano andate dietro le tribune con loro» e poi «conobbi uomini così durante la guerra. Imbecilli a cui non fregava niente dei campi di concentramento, dei massacri o degli ebrei. Volevano solo qualcuno da combattere perché pensavano che questo fosse quello che fanno gli uomini». Cap cerca di riportare dinamiche moderne a eventi che aveva vissuto in prima persona, ma il discorso si ferma a queste parole. Già nel caso dell’11 settembre Steve si era sentito fuori posto ed era in qualche modo riuscito ad aggrapparsi all’idea di un antagonista esterno, ma adesso anche quell’attentato è una ferita storica cicatrizzata. E l’America stessa, tutta questa urgenza di ricostruire un simbolo che non sente più suo, non ce l’ha.

capitan america ta-nehisi coates marvel

Con Captain America, Coates è al suo secondo incarico per Marvel Comics, dopo la gestione su Black Panther – che dura dal 2016. È diventato uno sceneggiatore di fumetti più capace. Quanto sia merito dei suoi editor non è dato sapere, ma è evidente che Captain America fa a meno di certi vizi di Black Panther come la verbosità e l’affastellamento di scene senza ritmo. C’è un momento preciso in cui si vede lo scatto: a partire dalla saga di Black Panther intitolata Avengers del Nuovo Mondo, che conteneva un episodio tutto basato su una lunga sequenza d’azione senza dialoghi, Coates ha imparato a fidarsi del disegnatore. Anche se ha asciugato la narrazione, ha ancora il difetto di usare l’azione per giustificare le parole, cioè spalma la voce narrante sopra sequenze d’azione senza preoccuparsi troppo di quello che sta accadendo sulla pagina e di conseguenza togliendo specificità al peso dei combattimenti.

Di sicuro, Captain America non ha fatto parlare di sé anche per colpa dei disegni, che se all’inizio sono stati affidati a due autori rodati (Leinil Francis Yu, che in realtà qui lavora a tirar via, e Adam Kubert, capace di evocare la claustrofobia con piccole vignette bordate da una cornice che aumentano il confinamento spaziale dei personaggi) con il passare dei numeri diventano una parodia del buongusto per colpa di disegnatori di ultima fascia, segno che le vendite non hanno lasciato margini per l’impiego di autori di primo piano. Le pagine di Captain America diventano legnose, piene di pessime facce e brutti movimenti e solo le copertine di Alex Ross si salvano in questa sfilata di imbarazzi.

Non c’è nulla di sbagliato nella scrittura, ma gli elementi non coagulano a rendere profonda, sentita o appassionante la serie. Coates fa domande, si chiede cosa ci rende umani, mostra scenari talmente plausibili da risultare banali (la Russia che manipola gli Stati Uniti attraverso gli organi d’informazione), il femminismo – le uniche alleate di Cap sono il gruppo delle Figlie della Libertà, team di supereroine che cita l’omonimo movimento che pose le basi per la Rivoluzione Americana, e c’è un fugace accenno alla rappresentazione dei corpi maschili e femminili (Sharon e Cap discutono del fatto che lei è invecchiata mentre lui è ancora giovane).

capitan america ta-nehisi coates marvel

Nello stesso periodo in cui debuttava la gestione di Coates, Marvel ha varato un’altra testata, che con Captain America aveva in comune le copertine di Alex Ross e un protagonista importante: L’immortale Hulk di Al Ewing e Joe Bennett.

Ma L’immortale Hulk partiva da presupposti diametralmente opposti: un ribaltamento delle atmosfere che avevano contraddistinto il supereroe, era realizzata da due autori di fascia medio-bassa e il suo protagonista era un personaggio di peso che però da anni non stuzzicava più la fantasia di lettori e fumettisti. E invece, questa versione a fumetti de La cosa aggiornata ai giorni nostri ha mandato su di giri la critica, che si è esaltata come una scolaretta alla sua prima cotta, i premi sono piovuti, il pubblico ha apprezzato. Nonostante le premesse, tutto ha funzionato. Nel caso di Capitan America, che aveva dalla sua autori di grido e un personaggio fresco, il riscontro è stato inficiato proprio dalle premesse, troppo grandi, troppo perfette, troppo impossibili da sbagliare.

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