Quello che è stato l’ultimo film di Satoshi Kon, a causa della sua prematura scomparsa, non ha le caratteristiche di un film testamento. Prima della sua morte Kon stava lavorando a The Dreaming Machine, che sarebbe dovuto essere un’ulteriore riflessione sul labile confine tra realtà e immaginazione, sui significati nascosti della visione e sul potere dell’immagine. Eppure, Paprika – Sognando un sogno riassunse perfettamente le coordinate essenziali della sua poetica profonda e radicale.
In un futuro prossimo, uno strumento incredibile e pericoloso come il DC Mini permette di condividere l’esperienza del sogno. Ma una serie di morti sospette rivelano alla dottoressa Atsuko Chiba e al detective Toshimi Konakawa un piano malefico che rischia di frantumare la realtà per come la conosciamo. Inutile aggiungere altro sulla trama: Paprika, seguendo l’insegnamento di artisti visionari che dialogano con la dimensione onirica quali David Lynch o, ancora prima, Luis Bunuel, è un intersecarsi di piani diversi di realtà e di sogno, un vortice che porta lo spettatore a non poter discernere l’uno dall’altro.

In tutta l’opera di Kon, persino nella sua produzione fumettistica, c’è questa tendenza a voler indagare quali significati e interpretazioni si celino in quel confine invisibile che divide la concretezza della realtà e l’astrattezza del sogno, i fatti e la loro rappresentazione. Per farlo, Satoshi Kon in Paprika osò ancora di più rispetto a quanto fatto nei suoi lungometraggi precedenti. Se prima le incursioni nel sogno erano un artificio del racconto, una forzatura ottenuta spesso con espedienti narrativi (in Perfect Blue le visioni della protagonista sembrano frutto di un suo disturbo mentale, in Millennium Actress la confusione tra sogno e realtà è narrativamente giustificata dalla labilità della memoria di Chiyoko) e soprattutto con un montaggio funzionale, qui l’autore scelse esplicitamente di far entrare i suoi personaggi dentro al sogno. Anzi, è il sogno stesso, con le sue dinamiche folli e imprevedibili, a far breccia nella realtà, fino a scombinare le certezze fisiche che tutti conosciamo.
Da un punto di vista meramente concettuale, Paprika diventa la riflessione konniana definitiva sul suo amore per la Settima Arte. Non è solo una dichiarazione d’amore per il cinema, è anche e soprattutto una riflessione sul potere dell’immagine. Perché, secondo Kon, il cinema è rappresentazione della realtà piegata alla volontà dell’artista. In altre parole, il cinema è come il sogno. Queste traiettorie tematiche vanno a scontrarsi in un unico, fantastico discorso metacinematografico e filosofico sul ruolo dell’immagine nella contemporaneità. Discorso ancora più urgente oggi, dove le dinamiche social e di Internet impongono un nuovo, inedito ruolo dell’immagine che prevarica la realtà. Su Instagram e su Tik Tok l’immagine è al centro di tutto, è assoluta. Ma quell’immagine non è la realtà, assume un significato diverso a seconda del filtro che l’autore le dà. La stessa cosa avviene nel cinema e nell’animazione ma su un piano meno diretto e più complicato, poiché c’è una struttura narrativa, la profondità dei personaggi, un rapporto con chi guarda che lavora sulla sospensione dell’incredulità.

Kon aveva anticipato tutto questo e ne aveva fatto il centro nevralgico del suo discorso autoriale. Lo era in Perfect Blue, che raccontava di una idol che iniziava la carriera di attrice, perseguitata da uno stalker fino a non essere più in grado di distinguere l’incubo dalla realtà; lo era in Millennium Actress, in cui l’attrice Chiyoko Fujiwara ripercorre la sua carriera, intersecandola con i ricordi della sua vita; lo era persino in Tokyo Godfathers, in cui la componente metacinematografica era apparentemente in secondo piano, ma scorreva sotto un primo strato del racconto con forza, come abbiamo avuto modo di spiegare qui.
Paprika è la sintesi di un discorso complesso, multidisciplinare, filosofico che era al cuore di un’altra opera di Satoshi Kon, probabilmente la sua più importante: Paranoia Agent, una serie animata composta da 13 episodi. Da questo punto di vista, Paprika appare come un passo fatto di lato più che in avanti, se confrontato con la densità di quella serie. I temi sono gli stessi e, anche per una questione di minutaggio, Paranoia Agent risulta essere più completo e riuscito. Ma Paprika ha un’importanza cruciale nel percorso di Kon perché avrebbe dovuto essere il confine oltre il quale ricominciare nuove esplorazioni tematiche in un viaggio autoriale ricco e sorprendente come pochi nella storia dell’animazione giapponese e del cinema in generale.

Paprika, inoltre, ha avuto un ruolo importante nel rivelare al mondo la personalità eclettica di Satoshi Kon, in quanto presentato nel 2006 in concorso alla 63ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, al fianco di autori come Darren Aronofsky (che da Kon ha preso tantissimo), Gianni Amelio, Alfonso Cuaròn, Brian De Palma e Johnnie To. In quella storica edizione ci fu una strana coincidenza votata al cinema: con Kon, era presente David Lynch (che può essere considerato tra gli ispiratori di Kon) con un film per certi versi gemello di Paprika, Inland Empire, e soprattutto il suo maestro Katsuhiro Otomo, in concorso con il live-action Mushishi.
In quell’occasione, di fronte a occhi poco avvezzi all’animazione giapponese, critici, intellettuali e pubblico generalista scoprirono l’esistenza di un cinema animato capace di erigersi sullo stesso piano di quello dal vivo. Anzi, un cinema in grado di sfruttare i propri elementi costitutivi (l’immaterialità dell’immagine animata) per stimolare nuovi e affascinanti percorsi di analisi del Reale. Satoshi Kon è stato anche questo: un innovatore in grado di ripensare il meccanismo cinematografico, rifondarlo e aprire nuovi orizzonti della visione.

Leggi anche: 10 anni senza Satoshi Kon
Entra nel canale WhatsApp di Fumettologica, clicca qui. O seguici su Telegram, Instagram, Facebook e Twitter.