
«Comincia come una barzelletta. Di quelle che si raccontano giù al crotto dei platani, davanti a un piatto di semuda e zincarlin, e vino fresco di cantina. Ci sono un italiano, un russo e un tedesco. Non si conoscono, non si piacciono, non si capiscono. D’accordo, il tedesco sa qualche parola di italiano e l’italiano qualcosa di russo, ma non vogliono capire, questo è il punto. E sono costretti a passare del tempo fianco a fianco. Una compagnia de mal tra’ insema, proprio. Sembra l’inizio di una barzelletta, no? Peccato che non fa ridere per niente».
A parlare, in questo misto di italiano e dialetto comasco, è Limonta Attilio, classe 1919, l’italiano della barzelletta, appunto, la cui voce impareremo a conoscere nel corso di La terra, il cielo, i corvi, denso (in senso sia grafico sia testuale) graphic novel della premiata coppia composta da Teresa Radice (ai testi) e Stefano Turconi (ai disegni e colori), già autori di libri come Viola Giramondo (Tunué, 2013), Il porto proibito (Bao Publishing, 2015) e Non stancarti di andare (Bao Publishing, 2017), nonché tra gli autori Disney più importanti della loro generazione.
Tutte vicende che partono dall’approccio avventuroso del cartoon (la scuola Disney come fonte primaria da cui attingere, anche solo per scardinarne le regole) e vi aggiungono un gusto “letterario” all’approfondimento, allo scavo psicologico, a una visione più “adulta” e complessa delle vicende narrate, capace di parlare a lettori di tutte le età. Se Il porto proibito (a oggi probabilmente il migliore lavoro dei due) attingeva dai grandi romanzi e poemi marinari (da L’isola del tesoro di Stevenson a La ballata del vecchio marinaio di Coleridge), in Non stancarti di andare Radice e Turconi avevano invece approfondito tematiche più contemporanee, facendo leva su un “iperrealismo emotivo” (come lo ha definito Alessandro De Cesaris) che indagava con grande cura una vicenda di rapporti interculturali nella loro soggettività, nei loro elementi caratteristici, rifuggendo da facili schematismi e generalizzazioni.
L’ispirazione per questa “barzelletta che non fa ridere” arriva invece dalle cronache dal fronte russo di Mario Rigoni Stern (Il sergente nella neve, 1953) e di Nuto Revelli (La strada del Davai, 1966) oltre che dai racconti e romanzi di Lev Tolstoj, le cui citazioni puntellano le varie parti della storia. L’atmosfera bellica offre lo spunto per mettere sullo stesso piano tre uomini che non soltanto appartengono a eserciti diversi, ognuno ponendosi dunque in esplicita opposizione all’altro, ma che sono anche estranei linguisticamente: non si capiscono e, se anche ognuno di loro riuscisse a interpretare qualche parola della lingua dell’altro, in realtà rifiuterebbero di capirsi.
Attilio, il narratore, è un anarchico deciso a sopravvivere a qualsiasi costo; il suo passato da contrabbandiere sui monti del lago di Como è l’unico ad essere rappresentato nel corso della storia, attraverso tavole mute che risultano particolarmente ispirate, perché lasciano che il disegno racconti senza sovraccaricare la narrazione. Fuchs, detto Volpe, è il tedesco tutto d’un pezzo, che nel corso della storia si troverà a rinunciare a molte delle sue certezze. Vanja, il soldato russo che finisce loro prigioniero, è invece la vittima predestinata, forse meno vittima degli eventi di quanto faccia credere. Il loro viaggio coatto dai Monasteri delle Isole Solovetskij, divenuti una base militare per prigionieri di guerra, lungo le famigerate steppe della Russia, obbligherà tutti e tre a un ripensamento di se stessi, delle proprie convinzioni e dei propri linguaggi: a una morte, non soltanto metaforica.
La mancanza di comprensione fra i tre personaggi si manifesta nella loro distanza linguistica. Non a caso, viene superata nel corso della storia attraverso la condivisione di esperienze, oltre i limiti del linguaggio verbale. La loro distanza linguistica è perfettamente rappresentata nei dialoghi, lasciati nella lingua originale, che creano nel lettore (a meno che non abbia lui stesso familiarità con le tre lingue dei personaggi) un effetto di stordimento.
I tre personaggi discutono, si offendono, si ribattono tenacemente ognuno nella propria lingua, intendendosi solo parzialmente, non offrendo alcuna concessione alla comprensione del lettore. Ed è forse proprio per evitare un eccesso di incomprensione che la narrazione viene spesso guidata dalla “voce fuori campo” del loquacissimo narratore Attilio che, peccando forse all’opposto di un eccesso di prudenza, non manca di commentare ogni evento accaduto, ogni sguardo in o fuori campo tra i personaggi, ogni gesto inatteso, ogni vignetta, con prolisse appendici testuali. Ricami poetici solitamente molto ben scritti, letterariamente potenti, ma talvolta didascalici, che nulla aggiungono al valore del racconto ma si limitano a spiegarlo linguisticamente.
Il che è proprio ciò che non accade ai personaggi del racconto, tutti chiusi nella gabbia della propria lingua e della propria vita, incapaci di interpretare i dolori della guerra che li ha messi insieme, perennemente storditi da ciò che succede, come personaggi di una barzelletta che non fa ridere, perché raccontata in un linguaggio a loro incomprensibile. L’elemento più significativo della vicenda è proprio questo stordimento perenne, questa babele linguistica che diviene ostacolo a una comprensione più profonda, lasciata invece alla linearità dei gesti e delle azioni, nell’ambito del pre-verbale. Il fumetto qui non ha avuto il coraggio di affidarsi solo a se stesso. Se lo avesse fatto, probabilmente avrebbe prodotto un capolavoro. Non si è fidato delle sue sole forze (visive, immaginifiche, e pertanto ambigue) per esprimere questo stordimento, affidando alla materia letteraria il tentativo (fallimentare) di una costruzione del senso.
Proprio perché lontano da una interpretazione univoca, letterale e letteraria, un’immagine lasciata più libera, più aperta all’ambiguità, meno vincolata alla didascalia che tutto interpreta e decodifica, avrebbe espresso meglio di qualsiasi tentativo testuale la difficoltà delle relazioni umane, l’incomprensibile evento che ha buttato questi uomini, questi linguaggi, prima l’uno contro l’altro e poi alleati, alla ricerca di un’impossibile sintesi.
Un fumetto che avesse avuto più fiducia nei propri mezzi, senza affidarsi così fortemente a quelli codificati e rassicuranti del romanzo, avrebbe saputo esprimere in modo più esatto la confusione e l’ambiguità dei personaggi, la mancanza di senso che caratterizza la guerra. Radice e Turconi hanno affidato troppo alle parole il senso di una storia dove le parole falliscono: lasciando anche noi storditi, incapaci di cogliere il senso, come quando si sente una barzelletta che non fa ridere.
La terra, il cielo, i corvi
di Teresa Radice e Stefano Turconi
Bao Publishing, settembre 2020
cartonato, 208 pp., colori
20,00 € (acquista online)
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