
Di creativi come Crockett Johnson ne hanno fatti pochi. Oltre ad aver lasciato il segno nel mondo dei fumetti con Barnaby, è stato autore di rivoluzionari libri per bambini (la serie di Harold), nonché “pittore di teoremi matematici”. Conseguimenti di tutto rispetto per colui che una volta si definì «l’uomo più pigro del mondo».
Nato a New York City nel 1906, David Johnson Leisk – in arte Crockett Johnson – è l’autore della striscia Barnaby, con protagonista il bambino eponimo, e dei libri con protagonista Harold, bebè che viaggia in mondi disegnati da sé stesso con una matita. Il primo libro della serie, Harold e la matita viola, è diventato un classico della letteratura per l’infanzia. L’editore Camelozampa, vincitore nel 2020 del premio come miglior casa editrice al Bologna Children’s Book Fair – sta ripubblicando l’opera di Johnson dopo vent’anni di assenza dagli scaffali. Per la prima volta i lettori italiani potranno leggere, nella traduzione di Sara Saorin, le avventure integrali di Harold, impegnato a creare mondi fantastici con il suo pastello viola.
Dopo un’infanzia passata a disegnare ovunque, perfino sui margini degli inni religiosi, Johnson intraprese gli studi artistici, per poi lavorare come operaio in una fabbrica di ghiaccio, pubblicitario da Macy’s e giocatore di football, fino a diventare direttore artistico della rivista Aviation, dove imparò dal designer Frederic Goudy importanti lezioni che influenzarono fortemente il suo stile di disegno.
Negli anni Trenta iniziò a firmarsi con il nome Crockett Johnson, che aveva inventato da piccolo rubandolo a un cartone animato su Davy Crockett. I motivi: c’erano troppi David nel quartiere e il suo cognome era troppo difficile da pronunciare. Si affezionò così tanto allo pseudonimo che se l’aveste cercato sull’elenco telefonico di New York lo avreste trovato col suo nome d’arte. Costruitosi una reputazione di art director, ripensò l’aspetto grafico di alcune pubblicazioni come la comunista New Masses che, come scrive Andrew Hemingway nel libro Artists of the Left «sotto la direzione di Johnson diventò un giornale visivamente molto più vivace».
Barnaby debuttò il 20 aprile 1942 e raccontava le avventure del bambino di cinque anni Barnaby Baxter e della sua fata padrina Jackeen J. O’Malley, che solo Barnaby e i lettori riuscivano a vedere. O’Malley, però, è ben diverso dal tipico protettore immaginario: ha l’aspetto di un detective privato uscito da un romanzo hard boiled, fuma il sigaro e i suoi espedienti magici sembrano limitarsi a piccole apparizioni e a conoscenze di altri strani esseri che popolano il mondo immaginario del bambino.

Col suo bilanciato mix di fantasia, politica e sottile ironia, capace di evidenziare le diversità fra il mondo degli adulti e dei bambini, Barnaby è ancora oggi un cult. Il suo segno, caratterizzato da un tratto minimalista affine alla linea chiara francese o alla scuola del New Yorker, e da un lettering reso col carattere tipografico Futura, rimane tutt’oggi uno dei migliori esempi della sintesi nel fumetto degli anni Quaranta e Cinquanta. «Barnaby», ha scritto Chris Ware, «è l’ultima grande striscia a fumetti. È grande quanto Beethoven, o Steinbeck, o Picasso».
Ammirata da Milton Caniff, Duke Ellington e Dorothy Parker, Barnaby non si diffuse mai con la stessa forza di strisce come Blondie o Dick Tracy. Nel periodo della sua massiva diffusione, Barnaby compariva su 52 quotidiani, mentre Blondie su 850. Johnson scrisse e disegnò Barnaby fino al 1946, anno in cui la striscia passò di mano a Jack Morely e Ted Ferro. Johnson continuò comunque a supervisionare la sua creazione, disegnando l’ultima storia, pubblicata il 2 febbraio 1952.
Nonostante una buona popolarità (ci fu un revival della striscia negli anni Sessanta, e diversi tentativi di adattamento in altri media), Johnson si disaffezionò presto al fumetto per ragioni non ben precisate. Secondo il documentarista e amico Gene Searchinger, il fumettista potrebbe essersi stancato delle rigide scadenze di consegna, oppure alcuni giornali potrebbero aver iniziato a rifiutare Barnaby negli anni caldi del maccartismo, perché Johnson era stato editor di New Masses.
Anche se all’inizio non pensava di intraprendere la carriera di illustratore, ci finì per via della moglie, Ruth Krauss, autrice di libri per bambini (alcuni illustrati da Johnson) conosciuta nel 1939. Spronato da Krauss, dopo la fine di Barnaby Johnson scrisse ed illustrò il suo primo libro per bambini, Who’s Upside Down?.

Ispirato dalla sorella Else, che nel 1953 aveva adottato un bambino di nome Harold David – Harold come l’avvocato che l’aveva aiutato con l’adozione e David come suo fratello – inventò il personaggio di Harold, un bimbo che disegna con un pastello viola («è il colore dell’avventura» diceva Johnson) le scene in cui vive, usando la matita per crearsi ostacoli e soluzioni agli stessi e riuscendo sempre a tornare a casa sano e salvo. Il tratto morbido e paffuto del pastello di Harold si stagliava contro il bianco della pagina, creando un contrasto essenziale ma d’effetto, rinforzato dalla presenza del bambino, ritratto con il segno che aveva reso famoso Johnson per Barnaby.
All’inizio il manoscritto non raccolse grandi critiche. L’editor di Harper & Brothers Ursula Nordstrom, una delle più importanti personalità della letteratura per bambini americana, gli disse di non aver capito il meccanismo sotteso al racconto e ammise di «non aver letto la storia con grande sforzo immaginativo». Johnson aggiunse alcune scene seguendo i suggerimenti di Nordstrom, che gli scrisse nel 1954 complimentandosi del risultato finale: «Mi sono sbagliata, è un libro molto divertente».
Pubblicato senza grandi aspettative nell’autunno 1955, Harold e la matita viola fu un successo immediato, esaurendo la prima tiratura di 10.000 copie in meno di un mese. Maurice Sendak descrisse la serie di Harold come «puro divertimento, perché Harold fa esattamente quello che vuole, non ci sono adulti a spiegargli le cose o rimproverarlo. L’idea è lasciare che i bambini facciano come vogliono, che si divertano, senza impartirgli una lezione».
«A una lettura superficiale» ha detto Chris Ware, «sembrerebbe il pistolotto ideale sul valore dell’immaginazione e della creatività̀, fatto apposta per piacere ai bibliotecari, ma l’impulso che diverte Harold segna la sua stessa rovina: alla fine del libro, stanco delle sue esplorazioni, torna a casa e si mette a letto. O, più precisamente, schizza la sua stanza e il letto e “si disegna” sotto le coperte. Le implicazioni metafisiche di questo finale estremamente estraniante mi turbano ancora adesso. Ma, presentato con la lieve fantasia tipica di Johnson, o slancio appassionante che porta i lettori a questo punto pare coincidere esattamente con il pensiero che tutto va a catafascio, ma in modo quasi indolore».

Sarebbe scorretto dire che Johnson inventò la soluzione narrativa del personaggio che interagisce con ciò che sta disegnando – già nel 1900 infatti J. Stuart Blackton aveva messo in scena una dinamica simile, in uno dei primi esempi di animazione, The Enchanted Drawing – ma è indubbio che fu lui a popolarizzare il topos della pagina bianca in cui il personaggio al tempo stesso crea e subisce le fantasie che lo circondano. Dopo lui nacque un sottogenere frequentato da moltissimi autori (Monique Felix, Anthony Browne, Quentin Blake, Lewis Trondheim, Kathrin Schärer) che, come scrivono su Libri calzelunghe, sfruttò al massimo la forma del picture book perché instaurò una modalità di lettura permettendo «la coesistenza di due testi (parole e immagini) che possono discostarsi leggermente, creando quella piccola distanza necessaria a dar vita a uno spazio immaginario, transizionale, fantastico, che pur non essendo vero ha delle conseguenze sul protagonista».
Lo spazio dell’immaginario non è calato dall’alto ma ricreato dal lettore. In questo, Harold è un libro illustrato che si avvicina tantissimo al fumetto perché, tra una pagina e l’altra, il lettore riempie di significato i vuoti lasciati più di quanto faccia con altri libri illustrati e in maniera molto simile a quella in cui si riempie lo spazio bianco tra una vignetta e l’altra. Harold disegna, si muove e vive solo grazie alla nostra collaborazione, in un modo che ci avvicina al testo più di quanto accada con un picture book.
Di Harold uscirono altri cinque libri, l’ultimo dei quali pubblicato nel 1963, ma già dal secondo, La fiaba di Harold, un’avventura in un mondo tra boschi, castelli e streghe, il gioco aumenta di complessità: Harold sembra quasi prendere consapevolezza di ciò che può fare con il pastello ma non riesce a stare dietro alla propria immaginazione ed è continuamente stupito dalle soluzioni che trova ai problemi appena disegnati, in un’escalation di world building che si muove frenetica sulle pagine.
Negli anni Sessanta, pur continuando a lavorare sui libri per bambini, intraprese una nuova carriera – la terza – e si appassionò alla matematica, ricavando dai principi e dai teoremi geometrici una serie di dipinti. Provò anche a elaborare dei teoremi geometrici nuovi, due dei quali furono pubblicati su Mathematical Gazette nel 1970 e nel 1975. La sua carriera di pittore-matematico non decollò con le precedenti, anche se lo Smithsonisan espose alcune suoi lavori. È una svolta che i fan di Barnaby si sarebbero potuti attendere: uno dei personaggi che popolano la striscia è Atlas, il “Mental Giant” che, armato di regolo calcolatore, giocava con le equazioni.

Nel febbraio 1975 Johnson – fumatore accanito – scoprì di avere un cancro ai polmoni. Morì nel luglio di quell’anno. L’amico psichiatra Gil Rose racconta che, negli ultimi giorni di vita, quando Johnson era preda di attacchi di panico, Rose cercava di calmarlo chiedendogli cosa avrebbe fatto Harold al suo posto. Johnson pensava a qualche soluzione che Harold avrebbe escogitato per uscire dai guai, e si placava. Morì l’11 luglio 1975, a 68 anni, lasciando una produzione contraddistinta dalla semplicità del segno e dall’amore per il mondano che sconfina nel fantastico (un detective-fatina, una matita capace di creare universi).
«Sembrerà un cliché dire che Crockett Johnson continua a vivere nei suoi lavori. Ma è così», ha scritto Phil Nel nell’articolo pubblicato su Comic Art nel 2004, Crockett Johnson and the Purple Crayon: A Life in Art. «Non solo i suoi personaggi dalla testa rotonda (e spesso calva) gli assomigliano, ma le persone continuano a leggere e farsi ispirare dalle sue storie. Come il pastello viola di Harold, Johnson continua a trasportare i suoi lettori in quel luogo che sta tra fantasia e realtà dove, se ci teniamo stretti il nostro ingegno e la nostra matita viola, saremo scuri di atterrare sempre in piedi.»
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