Storia e gloria della dinastia dei paperi

Con buona pace dei complottisti e di chi ancora non crede allo sbarco sulla Luna, nei fumetti Disney topi e paperi vi hanno messo piede decine di volte, ciascuna come se fosse la prima. Che si tratti di una storia promozionale pensata apposta per l’anniversario dell’allunaggio, o di una semplice “riempitiva”, il tema del viaggio spaziale è sempre una novità.

Può capitare ad esempio che Paperino e i nipoti facciano visita a Paperone, che proprio in quel momento si sta facendo spiegare da Archimede come raggiungere la Luna in poche ore (o minuti, a seconda di quanto è urgente l’affare che ha per le mani). Alla fine tutto si risolverà per il meglio, ma il soggetto, pur trito che sia, potrebbe essere ripreso già dalla storia successiva.

Ordinaria amministrazione, da Zio Paperone e le molecole in affitto (2017)

Questo discorso vale anche per la produzione disneyana degli anni Sessanta e Settanta, ma allora il tema era molto più fresco e la letteratura di fantascienza stava facendo i conti con un suo leitmotiv che diventava realtà: l’uomo sulla Luna. Pochi mesi dopo quel 20 luglio 1969, e più precisamente il 5 aprile dell’anno successivo, Topolino pubblicò il primo episodio di una nuova storia a puntate «scritta e sceneggiata – chiosava il direttore Mario Gentilini – da Guido Martina e illustrata da Giovan Battista Carpi e Romano Scarpa, […] tra i migliori scrittori e disegnatori italiani in questo specifico campo».

Il titolo dell’episodio era Zio Paperone e il rimbombo lunare, che iniziava e si sviluppava quasi come nel soggetto che ho riassunto poco fa: Paperone deve recarsi sul satellite per recuperare un cofano di valore che vi ha nascosto anni prima e che ora, con l’arrivo degli astronauti, è in pericolo. Coi nipoti al seguito, si reca da Archimede che gli fornisce le indicazioni necessarie e parte con lui.

Uno spunto banale, che di lì a poco sarebbe risultato stantio ma che all’epoca centrava in pieno lo zeitgeist, ottimo per inaugurare un arco narrativo che avrebbe riscritto – almeno nelle intenzioni e proprio come in un’odissea a ritroso nel tempo – le coordinate della genealogia disneyana: Storia e gloria della dinastia dei paperi.

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Una recente riedizione della saga in tiratura limitata

Storia e gloria non nacque come libero atto creativo di Scarpa, Carpi o Martina, ma dall’idea di quest’ultimo di sfruttare una necessità editoriale contingente. In quei mesi, Mondadori si era accordata con la Banca Commerciale per l’emissione di 6.500 “libretti di risparmio Topolino”, destinati ai giovani per educarli a fare economia. L’iniziativa fu incentivata dalle parole del giornalista Giovanni Arpino, i cui libri erano editi proprio da Mondadori e che sul numero di quel 5 aprile suggeriva di familiarizzare col gadget in allegato: una moneta d’oro con l’effigie di Zio Paperone che indossa un casco da astronauta. La prima di una serie di otto che avrebbe accompagnato altrettanti episodi di Storia e gloria. «Per la prima volta – scriveva il nostro Andrea Fiamma – un oggetto usciva dalle pagine dei fumetti per arrivare nelle mani dei lettori».

Lo sceneggiatore

Nato a Carmagnola nel 1906, Guido Martina è tuttora una presenza ingombrante nel fumetto Disney italiano. Dal 1948 al 1991 ha realizzato oltre 1.200 storie, alcune delle quali molto famose come L’inferno di Topolino – che nel 1949 inaugurò il filone delle Grandi Parodie -, Paperinik, il diabolico vendicatore (1969, prima apparizione del personaggio co-creato con Elisa Penna) e Topolino e il cobra bianco, l’ultima apparsa su Topolino giornale. Fino al 1956 fu anche l’unico sceneggiatore italiano del “libretto” (il secondo poco dopo di lui fu proprio Scarpa), discostandosi fin subito dallo stile di riferimento di Carl Barks e Floyd Gottfredson.

Nelle loro storie, topi e paperi godevano di un grande spessore psicologico e spesso davano prova di buon cuore, inclusi quelli da cui meno ce lo si aspettava. Questa caratteristica però non ha mai suscitato l’interesse di Martina: il punto debole di quasi tutti i suoi fumetti è stato aver riposto troppa fiducia in certi atteggiamenti idiosincratici dei personaggi (l’acume di Topolino, la pigrizia di Paperino eccetera), privandoli del loro retroterra sentimentale e facendoli diventare delle maschere, modellate sullo “spettro visibile” che li caratterizzava all’inizio.

Paperone, ad esempio, negli anni Sessanta era ormai un protagonista rodato, a tutto tondo: un individuo che viveva di paradossi e il cui unico scopo nella vita non era ammucchiare denaro solo per il gusto di possederlo, ma per tuffarcisi a capofitto “come un pesce baleno”. Molto diverso quindi dalla sua prima apparizione, alla quale però l’autore piemontese deve aver sempre fatto riferimento, approfondendo così la sfumatura più grigia del suo carattere.

I dolori del “giovane” Paperone, da Paperino e l’ora dell’oro (Martina, Scarpa)

Martina inoltre, a differenza dei “modelli”, non era nato come autore unico o come fumettista propriamente detto. Il suo era un approccio trasversale, quello di uno sceneggiatore reduce da un’esperienza da documentarista in Algeria per conto della Metro-Goldwyn-Mayer e dalla collaborazione con le Edizioni Alpe. Solo in un secondo momento si era dedicato al fumetto, perché in origine desiderava soltanto pubblicare un romanzo in prosa. Neanche aver preso parte ad alcune riviste satiriche pochi anni prima poteva permettergli di maturare quelle conoscenze tecniche di cui disponevano Gottfredson e Barks.

È per questo che in molte sue storie, a dispetto di un intreccio interessante, la sceneggiatura è ricca di elementi superflui e può risultare verbosa, tanto che i dialoghi sovrastano i disegni. Gli “attori” non agiscono spontaneamente, ma recitano col pilota automatico un canovaccio illustrato che segue alcune tappe ricorrenti, dalla presa di coscienza di un problema fino all’epilogo, il più delle volte “tragico” nei fumetti coi paperi.

Altre volte invece capita che la dimensione sequenziale abbia la meglio su quella tabulare, e che per non sprecare spazio Martina debba inserire una o più vignette totalmente inutili, solo per rientrare nel numero di pagine. Questo almeno fino agli anni Ottanta quando, specie per merito di Carpi, anche la presentazione godrà finalmente di un ordine rigoroso, in maxi-storie come Messer Papero o Paperino e il vento del Sud. Ma proprio qui, per assurdo, si esaurirà la sua verve dissacrante che ancora oggi lo rende molto amato da chi vi vede una critica alla società del tempo, oppure ricordato con piacere da chi l’ha letto in gioventù.

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Come scrivere sceneggiature verbose. Prima lezione del Professor Martina: mai lasciare una vignetta muta quando la puoi riempire di balloon totalmente inutili

Storia e gloria fu molte cose per lo sceneggiatore, che nel 1970 aveva oltre vent’anni di esperienza alle spalle. Fu un’occasione utile per dimostrare a se stesso e agli altri che poteva reggere il peso di una storia lunga anche a distanza di due decadi dall’ultima (l’Inferno, di “sole” sei puntate), e che era ancora in grado di tenere il lettore sulle corde, proprio come aveva fatto in Topolino e il doppio segreto di Macchia Nera (1955), più breve, di quattro puntate, ma dove i cliffhanger alla fine di ciascuna si erano rivelati decisivi per la buona riuscita complessiva.

Lo sceneggiatore elaborò quindi una vicenda che aveva al centro del proprio racconto le monete allegate al settimanale, parte di un tesoro più grosso che Paperone ha ereditato dai suoi avi (e che in un primo momento ha deciso di nascondere sulla Luna). Nella finzione, le monete hanno il potere di mostrare le storie dei personaggi effigiati, antenati dei paperi dalla nascita della dinastia fino alla contemporaneità. «La nostra origine – spiega infatti Paperone – risale all’antico Egitto. Allora eravamo faraoni, poi divenimmo galli e infine paperi.»

Il ciclo concepito da Martina fu una riscrittura totale delle convenzioni tradizionali a cui erano abituati gli appassionati dell’epoca, sia nello stile che nelle parentele dei personaggi, lasciate trapelare da Barks di rado, solo in alcune storie.

I disegnatori

Non a caso Mario Gentilini li aveva definiti i “migliori in questo specifico campo”, anche se forse sarebbe stato più onesto definirli “i più famosi (loro malgrado)”. Solo pochi anni prima, infatti, di Romano Scarpa e di Giovan Battista Carpi avevano sentito parlare milioni di italiani quando, durante la puntata del 14 dicembre di Canzonissima ‘68, erano stati inquadrati dalle telecamere per parlare brevemente del loro mestiere, in un servizio in attesa dell’incontro di pugilato tra Nino Benvenuti e Don Fullmer. In realtà non avevano detto quasi nulla: avevano solo disegnato su una lavagnetta per tutto il tempo, perché il centro della scena se l’era preso proprio Gentilini.

Giovan Battista Carpi Romano Scarpa
Giovan Battista Carpi e Romano Scarpa, terrorizzati prima di andare in onda

All’alba del nuovo decennio, lo stile di Scarpa si stava muovendo verso una nuova direzione. Per molto tempo, nel disegnare Topolino, si era ispirato alle animazioni di Fred Moore, caratterizzate da un dinamismo frenetico, e aveva trovato campo libero per sperimentare con la recitazione dei personaggi. In quello stesso periodo però le storie su commissione si intensificarono e presero via via sempre più pagine e più tempo: oltre a Storia e gloria, Scarpa disegnò altri due cicli corposi, Topolino allo Zecchino d’Oro (nel 1969) e Zio Paperone e la grande caccia al tesoro (1971), per le quali dovette virare su un taglio più classico, molto meno cinetico ma più preciso nella rifinitura dei volti e nella scelta delle proporzioni.

Per Carpi, invece, si apriva un periodo di consolidamento. Nell’ottobre del 1969 era uscita la prima edizione del Manuale delle Giovani Marmotte, che lo aveva fatto affermare come illustratore e gli aveva dato notorietà anche “all’estero” (suoi furono i disegni dei personaggi Disney comparsi sui francobolli di San Marino) e a scuola (realizzò, in parte o in toto, 14 diari a tema).

Sia lui che Scarpa calcarono molto la mano sugli aspetti più farseschi della sceneggiatura di Martina, che anche stavolta si era divertito a inserire gag senza senso ed espressioni di crisi arcaiche e quasi solenni, dal celebre “me misero, me tapino” a tutti i suoi derivati. In quegli anni però l’agenda di Carpi cominciava a infittirsi: impegnato nella realizzazione della prima Enciclopedia Disney, non poté disegnare più di 3 capitoli, mentre gli altri 5 spettarono a Scarpa (rispettivamente il primo, il quarto, il sesto, il settimo e l’ottavo).

Una prova del contributo di Scarpa: l’ombra minacciosa di Paperone nella terza vignetta getta un velo di inquietudine sulla scena, ricorrente nelle storie di Martina

A nessuno dei due, tuttavia, venne in mente di differenziare gli antenati dei paperi dai loro discendenti. Man mano che la storia proseguiva, e che Paperino e i nipoti sfregavano le magiche monete, ai lettori non venivano proposti personaggi nuovi, ma semplici variazioni sul tema di quelli canonici, sia graficamente che caratterialmente. Scoprire le gesta di un avo di Paperino nella Spagna tardomedievale significava quindi fare i conti con la (solita) pigrizia dell’originale martiniano, portato allo stremo nella sua indolenza. Stessa cosa per il Paperino egiziano, per quello scozzese e per tutti gli altri: cambiavano solo il loro modo di vestire e le abitudini socio-culturali dell’epoca in cui si trovavano.

La storia

A ben vedere l’omologazione grafica attuata dai disegnatori non fu una caduta di stile, ma una scelta molto precisa che ci fa capire meglio un aspetto fondamentale del racconto: Martina volle fissare una genealogia alternativa solo di facciata, perché ciò che gli interessava davvero era poter dimostrare che i suoi personaggi (i paperi di Barks filtrati dalla sua visione) erano perfetti per la commedia dell’arte e potevano adattarsi tali e quali in ogni tempo e in ogni spazio, senza il rischio di annoiare.

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Alcuni dei paradossi storici di cui Storia e gloria è infarcita

Nonostante sia sovraffolata di comprimari, Storia e gloria non è una vicenda corale, perché ogni puntata segue lo stesso schema narrativo a cui siamo già abituati: un papero arrivista e cinico come Paperon de’ Paperoni che ha un affare urgente da portare a termine, un nipote ozioso e fannullone che combina solo guai e tre nipotini saccenti che risolvono le situazioni più spinose, ponendo fine ai diverbi tra gli zii. Tre sono i modelli ricorrenti. A questi vanno ad aggiungersi decine di comparse, tra recuperi noti e meno noti, talvolta provenienti dal cast di Topolinia (anche se la compresenza delle due “dinastie” non viene mai chiarita).

La loro partecipazione, però, è dovuta solamente a esigenze di scrittura da soddisfare. Che siano paperi o topi, Rockerduck o Pippo, Paperina o Topolino, poco conta: l’importante è catturare l’attenzione del giovane lettore che riconosce con stupore la presenza di tanti personaggi così diversi nello spazio di poche vignette. Spostando questo discorso sul piano storico è evidente che il passato rivisitato da Martina è quanto di più scontato possa esistere. Le tappe dell’evoluzione della civiltà, dai geroglifici a Neil Armstrong, non hanno grandi ripercussioni sulla trama, ed è più la loro immagine nel senso comune ad essere chiamata in causa: la Spagna e la corrida, la Scozia e il mostro di Loch Ness, la Guerra di Secessione e il Mississippi…

Stando al potere delle monete, tutto ha inizio in Egitto, dove un antenato di Paperone deve mettere in salvo il tesoro di corte dai tentativi di furto dei B.B. (Beduini del Basso Nilo, chiari precursori dei Bassotti), nascondendolo in un luogo sicuro e inaccessibile. L’azione si sposta quindi nell’antica Roma del I secolo a.C. e nella Scozia del 1392, abitata dai discendenti del gran tesoriere che vi si era trasferito con le legioni dell’Urbe, più di mille anni prima. Qui ci viene detto che il tesoro dell’antenato egiziano si cela nel castello abitato dall’avo corrente dello Zione, che infatti lo trova con l’immancabile aiuto dei parenti. Eppure, già dall’episodio successivo, non se ne sente più parlare: la dinastia passa dal vecchio al nuovo continente, in questo caso direttamente dalla Spagna e non dalla Francia come aveva scritto Martina nel 1957, nel finale della parodia dei «Tre moschettieri».

Date ed eventi precisi non gli interessavano sul serio. Gli unici aspetti peculiari di questi personaggi, per lui, erano la duttilità e la tendenza al protagonismo: non importava che Paperone seguisse il proprio “sogno americano” partendo dalla Francia, dalla Spagna o dall’Italia (come nel già citato Messer Papero). Ciò che contava era che lo seguisse, come si conviene a un’intelligenza superiore disposta a tutto pur di raggiungere i propri fini. Anche a compiere delle efferatezze, come trasformare le monete egizie in sesterzi (stesso peso ma valore più alto) o derubare i propri nemici di un quintale di platino. Sue sono la storia e la gloria cantate nel titolo, e suo è il ruolo da protagonista in ogni episodio a eccezione del sesto, ambientato nelle colonie spagnole del 1600.

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Un altro punto debole di Martina: la risoluzione dell’intreccio talmente frettolosa da sminuire la portata del “cattivo”. Qui bastano due tavole per demolire Rockerduck

Il tesoro proveniente dall’Egitto torna a far parlare di sé nell’ultima parte, quando i flashback ripercorrono i primi successi di Paperone. Questi, nelle pagine finali, dice di stare ancora cercando le ricchezze del faraone che in 2.500 anni non sono mai state ritrovate (anche se noi sappiamo che era stato l’antenato scozzese ad appropriarsene). Martina se lo doveva essere dimenticato, dato che la storia si conclude con il ritrovamento delle monete in una piramide. È una delle tante incoerenze per cui Storia e gloria è diventata famosa, forse la più celebre al pari delle otto monete presenti in una vignetta (invece di sette) o alla perdita di peso dei soldi di Paperone sulla Luna.

La frattura tra realismo e incoerenza era alla base della “poetica” di Martina, e uno degli aspetti più amati dai suoi sostenitori. Il Professore, come lo chiamavano scherzosamente i colleghi, l’avrebbe ribadito nel 1983 proprio con il ciclo di Messer Papero, per certi versi una sorta di “meta-Storia e gloria”. Qui zio e nipote si recano a Firenze per scrivere una guida turistica della città e Paperone decide di comporre un poema in prosa su un suo ipotetico ascendente vissuto nel Comune medievale del Trecento. A un certo punto la narrazione si interrompe e i protagonisti del “racconto nel racconto” sono lasciati al loro destino. Paperone dice di averli fatti viaggiare nel tempo, e all’indignazione del nipote ribatte: «I voli della fantasia non hanno limite».

Un modo elegante per nascondersi dietro a un dito e la conferma che a Martina non piaceva sentir parlare di “coerenza”, “canoni” o “continuity”, ma solo raccontare una storia ai bambini, certo del loro stupore di fronte ad alcuni snodi dell’intreccio.

Tutto questo naturalmente non basta a cancellare le debolezze di Storia e gloria, ma ce la fa inquadrare come figlia del suo autore, più che del suo tempo. In quegli anni, su Topolino, sia Scarpa che altri sceneggiatori proponevano un tipo di fumetto molto più maturo e in linea con i presupposti tradizionali, ma non per questo l’approccio del Professore era meno personale. Di sicuro il ciclo in otto puntate piacque molto, tanto che 7 anni dopo poté fregiarsi di una ristampa integrale negli Oscar del fumetto Mondadori.

Una questione di worldbuilding?

Per l’edizione Mondadori Carpi realizzò un disegno particolare, un grande colpo d’occhio degli antenati della saga riuniti in un improbabile albero genealogico. Era una semplice illustrazione decorativa, nient’altro. Non aveva grandi pretese filologiche, proprio come non ne aveva avute Storia e gloria che infatti, da allora fino ad oggi, non è mai stata ritenuta vincolante né dalla produzione italiana né da quella straniera. Martina si spense a Roma nel maggio del 1991, convinto di aver firmato con quest’opera l’atto d’amore più sfrontato nei confronti di un personaggio Disney. Non sapeva che proprio in quei mesi, dall’altra parte del mondo, un giovane fumettista di Louisville, Kentucky, aveva appena cominciato il lavoro della propria vita, anzi, di quella di Zio Paperone.

Il suo nome era Don Rosa e di lì a poco, in Italia, la sua $aga sarebbe stata accostata molte volte al ciclo del 1970, nonostante avessero due sole cose in comune: un’impronta autoriale inconfondibile e una lunghezza decisamente sopra la media. Nulla di più diverso, per il resto.

A suo modo, Storia e gloria è una grande parodia di se stessa e non si prende mai sul serio; nella $aga, invece, Rosa utilizza le caricature solo nel momento in cui critica la riduzione del protagonista a una caricatura, rendendolo meno invincibile e bilanciando l’afflato epico della narrazione. E anche la comicità della prima cozza con quella dell’altra: le gag che hanno reso celebre Martina sono sempre legate a un aspetto preciso del carattere di un attore, e sono pensate proprio per dei personaggi che recitano una parte, come se fossero a teatro. Non così nei fumetti di Don Rosa, dove spesso, se non è un particolare dello sfondo a far ridere, si fa affidamento sulle potenzialità del linguaggio a fumetti: tipi di inquadrature, closure, close up e così via.

L’umorismo ‘del teatro’ di Martina (sopra) a confronto con quello ‘del fumetto’ di Rosa (sotto)

Ma soprattutto – a differenza della $aga, il cui obiettivo è fare luce sul passato di Paperone approfondendo l’opera di Barks – Storia e gloria non si rifà a nessuno, non offre nulla di definitivo ai lettori, se non una versione esemplare dei paperi di Martina. Del resto, era la prima volta che uno sceneggiatore si rimboccava le maniche e decideva di raccontare per filo e per segno l’origine della loro famiglia. Per farlo (o meglio, con la scusa di farlo), scelse di rivisitare la Storia tramite Paperone, senza mai collocarlo in un vero contesto specifico, ma soltanto concedendogli il privilegio di ripetersi nel tempo, sempre uguale a se stesso. Rosa, invece, col suo pensiero programmatico avrebbe gettato le basi per un nuovo canone, al quale oggi si attengono più o meno fedelmente autori come Vito Stabile, Pietro Zemelo, Bruno Enna, Francesco Artibani e Marco Gervasio, oltre al sito ufficiale di Topolino.

“Più o meno” perché, come in tutti gli universi narrativi di queste dimensioni, le alternative si sprecano. Nel 2003, ad esempio, Alessandro Sisti aveva proposto una versione ibrida che prendeva per buoni solo i primi quattro capitoli di Storia e gloria, fino alla trasferta in Scozia, ricollegandosi facilmente ai fumetti di Barks (e quindi alla $aga) in cui Paperone è nato là. In tempi più recenti, Sisti ha anche scritto un seguito dell’opera di Martina, Scarpa e Carpi, che ne riprende fedelmente la struttura ma dove i nostri sono coinvolti nelle disavventure dei loro discendenti e le loro azioni hanno un peso molto maggiore rispetto all’originale.

Diverso, invece, era lo scopo di Alberto Savini e Andrea Freccero, che nel 2005 realizzarono un sequel del secondo capitolo, destinato anche a chi non aveva mai letto la serie. Era ovviamente ricco di citazioni fino al midollo ma non seguiva di pari passo l’impianto narrativo degli altri episodi: preferiva valorizzare il ruolo di certi comprimari, come le storiche mascotte di Amelia e dei Bassotti (Gennarino e Ottoperotto), molto spesso tramite il loro punto di vista.

Trame e brame sullo sfondo, personaggi minori in primo piano

Conclusioni

Storia e gloria della dinastia dei paperi non regge la prova del tempo che passa, i suoi cinquant’anni si sentono, specie se posta a confronto con la Saga di Paperon de’ Paperoni di Don Rosa. Anche le statistiche ci dicono di questo scarto: se escludiamo le edizioni di pregio in tiratura limitata, la prima è stata pubblicata meno di 50 volte in 14 paesi, peraltro mai negli Stati Uniti. La seconda invece, più giovane di 21 anni, ha colonizzato 4 continenti superando le 70 ristampe “economiche”, 6 delle quali proprio qui in Italia (dove di recente anche Storia e gloria ha vissuto di rendita, ma solo nel circuito delle fiere e delle fumetterie).

Non sono tanto la scarsa originalità, l’ingenuità di alcuni passaggi, l’esiguità della trama o la totale assenza di worldbuilding a penalizzarla, ma il suo incessante ritorcersi su se stessa, puntata dopo puntata, fino a farne perdere di vista lo scopo. Anche gli ammiratori di Martina sono costretti a riconoscere che non è uno dei suoi lavori migliori, e che spesso si rasenta il confine col trash.

Ce n’era davvero bisogno? Forse no, ma per il Professore questo era lo stesso un buon modo per scendere a patti con l’esistenza. Come disse di sé in tarda età, «io lavoro per disperazione: se non scrivessi, se non mi documentassi per poi raccontare le storie, mi annoierei a morte. Per l’anagrafe avrò più di 70 anni, ma il mio cervello si rifiuta di pensare a questo e continua a farmi sognare…».

A sinistra e a destra, Storia e gloria del patrimonio di Paperon de’ Paperoni

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