di Chris Ware*
Il seguente testo è un estratto dal libro “I Peanuts Charlie Brown, Snoopy e il senso della vita”, a cura di Andrew Blauner, pubblicato da La nave di Teseo e distribuito in libreria dal 25 febbraio 2021 (ordinabile anche online). Il volume – 418 pagine, 22,00 euro – raccoglie una serie di saggi di alcuni tra i più importanti scrittori e fumettisti contemporanei, che raccontano il loro rapporto con il capolavoro di Schulz indagandone i significati e le emozioni. Tra questi ci sono Jill Bialosky, Lisa Birnbach, Sarah Boxer, Ivan Brunetti, Jennifer Finney Boylan, Rich Cohen, Gerald Early, Umberto Eco, Jonathan Franzen, Ira Glass, Adam Gopnik, David Hajdu, Bruce Handy, David Kamp, Maxine Hong Kingston, Chuck Klosterman, Peter D. Kramer, Jonathan Lethem, Rick Moody, Ann Patchett, Kevin Powell, Joe Queenan, Nicole Rudick, George Saunders, Elissa Schappell, Seth, Janice Shapiro, Mona Simpson, Leslie Stein, Clifford Thompson, David L. Ulin e Chris Ware.

Da bambino passavo molto tempo da solo. Visto che mia madre era single e lavorava tutto il giorno, casa dei miei nonni era per me una sorta di seconda casa in cui, quando nessuno mi teneva d’occhio, passavo le ore disegnando o leggendo mentre mia nonna e mio nonno si prendevano cura del giardino e della casa. Il nonno aveva lavorato come giornalista sportivo (e in un secondo momento come caporedattore) all’“omaha World-Herald”, dove, in quest’ultima veste, si era occupato della composizione delle pagine dei fumetti, sia del quotidiano che del domenicale. Quel compito gli dava una sorta di piacere ancestrale perché da ragazzo avrebbe voluto diventare un fumettista, anche se poi le circostanze e la necessità (l’avevano sbattuto fuori dall’università per aver rubato della cancelleria e aver spedito a tutte le confraternite una falsa convocazione per un test sulle malattie veneree di domenica mattina) avevano deciso diversamente.
In qualità di selezionatore di fumetti aveva ricevuto, e conservato in uno scaffale del suo ufficio nel seminterrato, le raccolte delle varie strisce che il “World-Herald” aveva acquistato, che ero libero di sfogliare nei miei vagabondaggi casalinghi pomeridiani, mentre lui e la nonna rastrellavano, tosavano e irroravano il prato di DDT. Era stato uno dei primi caporedattori del paese ad aggiungere alle pagine del “World-Herald” una striscia strana, iconografica e appositamente progettata come “salvaspazio”: i Peanuts – una volta mia nonna mi ha raccontato che avevano letto insieme le strisce campione del lancio d’agenzia, seduti al tavolo della cucina, “ridendo come matti”. Le prime raccolte dei Peanuts in formato tascabile pubblicate da Rinehart and Co. erano quelle che preferivo, un mondo ospitale in cui ogni volta mi perdevo.
Dire che i personaggi dei Peanuts per me erano reali sarebbe riduttivo. Man mano che prendevo confidenza con il cast della striscia, leggendo le raccolte degli anni Cinquanta e Sessanta e la pagina che mio nonno aveva curato negli anni Settanta – per non parlare degli speciali televisivi, veri riti di passaggio di ogni autunno e inverno della mia generazione TV-dipendente – Charlie Brown, Linus e Snoopy diventarono qualcosa in più di un semplice passatempo: diventarono miei amici. Di fatto, a un certo punto, dopo aver letto una striscia di San Valentino particolarmente traumatica in cui, come al solito, Charlie Brown non riceveva nessun biglietto, realizzai una stramba cartolina e ordinai a mia madre di spedirla direttamente al giornale, dove sapevo che aveva “un aggancio”, e da dove speravo che in qualche modo potesse finire nelle sue manine dalle dita paffute. Ma che tipo di artista, con dei semplici disegni sul giornale, può arrivare a spezzare il cuore di un bambino?

Anche il meno critico dei lettori o degli osservatori riesce a percepire la falsità e la cattiva fede di un fumettista incompetente (o peggio, disonesto). Poiché le strisce a fumetti sono oggetti a cui si attribuisce poco valore, cestinati il giorno successivo, il disegnatore deve conquistarsi la fiducia del lettore senza l’aiuto del consenso critico, delle pareti dei musei e dei soldi dei collezionisti. Nella striscia il fumettista si denuda sulla pagina, in una sintesi definitiva delle sue conoscenze, non solo su ciò che in teoria rende divertente la vita, ma anche su ciò che la rende degna di essere vissuta.
L’impegno artistico, quindi, non deve esprimersi in una manciata di capolavori spalmati nel corso di un’intera esistenza, ma ogni singolo giorno. ogni mattina il lettore scettico si ritrova tutt’a un tratto di fronte a una fila di vignette e concede al disegnatore quattro secondi, massimo cinque: “ok, fammi ridere”. Non c’è da stupirsi se Schulz si svegliava “di umore funereo”, o con la sensazione “di dover consegnare una tesina ogni giorno”. o se, come disse in un’occasione: “In una striscia, ieri non vuol dire niente. Esistono solo oggi e domani.”
Non sono il disegno, o le linee, o il lettering, o le parole buffe a far funzionare una striscia. “Il tempismo” è la forza vitale dei fumetti: anche con una perfetta padronanza del tratto, della scrittura e della composizione, senza una sensibilità al ritmo e alla musica – ovvero alla realtà – della vita una striscia nascerebbe morta, nient’altro che un pugno di stupide illustrazioni. Quando il lettore di fumetti (nel caso di Schulz erano circa duecento milioni) infila quelle quattro vignette con i loro minuscoli geroglifici ripetuti, i personaggi devono prendere vita sulla pagina con la ferocia e la concretezza delle persone che popolano la sua vita e i suoi ricordi. Il tempismo è sotteso, il motore sempre acceso di questo linguaggio narrativo visuale, e Charles Schulz l’ha plasmato e forgiato come suo mezzo espressivo. Il lettore non si limita a guardare Charlie Brown, Linus, Lucy e Snoopy, ma li legge quasi come le note musicali di un componimento silenzioso di ilarità, crudeltà e sporadica malinconia.
I primi esperimenti di Schulz con questo formato, tuttavia, non erano stati così sofisticati. A vent’anni, chino sul tavolo della lavanderia nel suo seminterrato, disegnava ogni notte una striscia d’avventura ambientata nella legione straniera mentre di giorno lavorava nell’azienda di corsi per corrispondenza Art Instruction, Inc. (un tempo Federal School of Cartooning – i primi ad averlo incoraggiato a proseguire), cercando di ricreare uno stile perfettamente in linea con quello di fumetti alla moda come Captain Easy di Roy Crane e Terry e i pirati di Milton Caniff.
Queste avventure illustrate si distaccavano dalle origini vaudeville del fumetto (pensate a Mutt and Jeff o a Krazy Kat) per viaggiare parallele all’ascesa dei film sonori e alla Seconda Guerra Mondiale, adottando un approccio cinematografico in fumetti che ridefinivano la vignetta d’impostazione teatrale come il mirino di una fotocamera, introducendo nel linguaggio primi piani, campi lunghi e un’illuminazione espressiva e di fatto rielaborando il fumetto come un “film su carta”. Strappare il lettore dal cuore del fumetto per fargli acquisire un punto di vista determinato poteva funzionare per i gialli o per le storie di guerra, ma non avrebbe potuto essere più disastroso per ciò che serviva a far fiorire i Peanuts (immaginate Charlie Brown come un bambino di otto anni disegnato in maniera realistica, con il viso mezzo oscurato da un’ombra melodrammatica).
Solo quando Schulz iniziò a proporre singole vignette umoristiche alla Catechetical Guild Educational Society di St. Paul, si riavvicinò leggermente alle atmosfere dei leggendari, originari esordi del fumetto. Just Keep Laughing, creato per Topix Comics, ritraeva bambini semirealistici che però restavano schiacciati da un predecessore ingombrante come lo Skippy di Percy Crosby, una pennellata libera e sciolta che dipingeva calzettoni scivolati sulle caviglie, marciapiedi di quartiere e capelli arruffati. Fu poi l’ormai famoso Li’l Folks, illustrazioni umoristiche sui bambini uscite su vari quotidiani locali del Minnesota, insieme ad altre vignette ancora più semplificate inviate al “Saturday Evening Post”, a trasformarsi nel corso del tempo nei Peanuts. Considerando che molti fumetti degli anni Cinquanta erano caotiche accozzaglie di dialoghi e illustrazioni, alcune di queste prime strisce sono incredibilmente essenziali – i bambini che fanno su e giù nell’erba alta su un’altalena inclinata, un semplice fiore che si allunga per tutta l’altezza della vignetta – ma Schulz non era l’unico a utilizzare questo approccio “minimalista”.
Un gran numero di strisce (l’angosciante Henry, il telegrafico Little King di otto Soglow, il sommesso capolavoro di Crockett Johnson, Barnaby, e l’algido Arturo e Zoe di Ernie Bushmiller) aveva come cifra un linguaggio visuale altrettanto stringato. I Peanuts, però, furono i primi a essere pensati per essere stampati in formato francobollo. Negli anni Cinquanta i riquadri nella pagina dei fumetti erano più o meno tutti assegnati ed era difficile che qualche nuova striscia riuscisse a conquistarsi un suo spazio, ma fin dall’inizio i Peanuts vennero proposti proprio come salvaspazio. I personaggi della striscia avevano teste sproporzionate e corpi minuscoli, e la loro semplificazione quasi tipografica non solo faceva risparmiare centimetri sulla dimensione della rubrica, ma era di fatto un requisito perché la striscia venisse letta. Inoltre, in modo quasi alchemico, permetteva la trasposizione di questi “bambini” da un mondo esterno, conosciuto, a uno interno, basato sul ricordo. Chi avrebbe mai pensato che una decisione commerciale così intransigente avrebbe catalizzato la miglior opera di arte pop del ventesimo secolo?
In effetti, le prime strisce dei Peanuts sembrano quasi considerare le dimensioni ridotte come una fastidiosa ragione di vita, una sorta di umiliazione che i “piccoletti” devono subire in uno spazio che non riesce a ospitare la grandezza delle loro idee, dei loro impulsi e dei loro sentimenti. Ma nel corso del 1951 e 1952 questi proto-Peanuts, piccole planarie schiacciate con gli occhi delle statue sumere e i corpi minuti, si trasformarono rapidamente sotto gli occhi dei lettori. Reintroducendo d’istinto un minimo di realismo nelle proporzioni e nel portamento, e forse, a mio parere, modellandoli
ineffabilmente secondo le idiosincrasie della sua stessa grafia, già nel 1954 Schulz intuiva e interiorizzava i suoi personaggi con una tale maestria che le loro sagome sembravano bruciare la pagina, alternando sussurri a eruzioni apocalittiche così violente che le vignette riuscivano a malapena a contenerne la furia. (Contribuì anche il fatto che la predominanza di punti esclamativi delle prime strisce lasciò il passo a un uso delle ellissi che ampliò la possibile gamma di “volumi”). L’insulso uomo qualunque Charlie Brown delle prime vignette si trasformò in un perdente insicuro, Lucy diventò un’aguzzina, il fratello minore Linus finì per diventare il filosofo della striscia, ecc. Schulz riversò sé stesso in ognuna di queste matrici, come metallo fuso che inonda uno stampo vuoto.

Mentre il formato haiku della striscia quotidiana serviva a sviluppare le personalità dei personaggi, la domenicale – un fumetto a colori nel quale raddoppiavano le dimensioni e il numero delle vignette – consentiva un’espansione dello spazio e del tempo della striscia. Qui Schulz dipingeva periferie evocative e realistiche, in evidente contrasto con l’asciuttezza dei suoi personaggi. Questa forma più estesa gli permetteva anche di elaborare la sua “musica”, orchestrando quadri più complessi di quanto non gli concedesse l’essenziale striscia quotidiana.
Un perfetto esempio di quanto fossero ben bilanciate, melodicamente feroci e potenti le strisce domenicali dei Peanuts è l’episodio del 20 marzo 1955 (Schulz si era aggiunto alla più ampia pagina domenicale nel gennaio del 1952, poco più di un anno dopo la comparsa della striscia quotidiana dell’ottobre 1950) in cui Charlie Brown e Schroeder giocano a biglie e Lucy irrompe nel gioco per poi infuriarsi sempre di più a ogni tiro sbagliato (Uffa… Uffa! UFFA!) e, in modo totalmente inverosimile e violento (CHE GIoCo STUPIDo!), pestare in esposizione multipla tutte le biglie (SToMP! SToMP! SToMP! SToMP! SToMP!), con una penultima vignetta che la ritrae mentre se ne va arrabbiata con nient’altro che una matassa di linee nere nel balloon – una matassa che il lettore “sente” come nota finale della frastagliata composizione musicale che la precede.
Viceversa, appena nove mesi prima, nel maggio del 1954, Schulz aveva creato una sequenza domenicale in più parti che resta uno degli inciampi più bizzarri nello sviluppo della striscia, guarda indietro verso le strisce di avventura che Schulz aveva abbandonato: Lucy, su suggerimento di Charlie Brown, si iscrive a un torneo di golf per adulti. Il fatto che questi bambini possano giocare a golf (come abbiamo già visto in qualche striscia precedente) è già abbastanza strano, e lo è ancor di più l’idea che possano partecipare a un torneo, per non parlare della decisione di Schulz di spalmare una linea narrativa così improbabile su quattro settimane (ogni episodio termina con la sospensione di un “continua”, più che con una battuta finale), ma il fatto che abbia messo Charlie Brown e Lucy accanto a degli adulti – proprio così: nella striscia compaiono dei veri adulti – suona alle nostre orecchie come una nota stonata.

Rispetto alla melodia pesta-biglie di cui sopra, questa sequenza è piena di stecche e disaccordi, e produce un curioso senso di straniamento e falsità. È quasi come se la striscia si fosse presa un brutto virus. Perfino Schulz sembra consapevole del problema: in una vignetta, i due bambini si ritrovano in mezzo a una foresta di gambe, e Charlie Brown dice a Lucy “Devi dimenticarti di tutte queste persone, Lucy… pensa a concentrarti”. Anche se l’esperimento dimostra la propensione di Schulz a testare i limiti del suo fumetto, non fa che consolidare la prima regola dell’universo dei Peanuts: degli adulti si può parlare (campioni dello sport, presidenti, il padre di Charlie Brown) e alcuni possono perfino essere oggetto di monologhi (l’infatuazione di Linus per Miss othmar) ma devono sempre restare, abbastanza letteralmente, fuori dall’inquadratura.
Col tempo, i Peanuts diventarono una striscia in cui i bambini si comportavano come adulti (a differenza dei primissimi fumetti usciti sui quotidiani, nei quali erano gli adulti a comportarsi come bambini). In un fumetto, e una nazione, che cavalcava l’onda dello sviluppo economico del dopoguerra, un capovolgimento psicologico del genere sembra fin troppo appropriato per i baby-boomers che lo leggevano nel suo momento di massimo splendore.
Negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta Schulz scrisse e illustrò una seconda serie, questa volta con adulti, per la United Features, È solo un gioco, e diede vita a un fumetto per adolescenti destinato a una rivista religiosa, quindi il mondo degli adulti non era certo oltre la portata della sua matita; è solo che non apparteneva ai Peanuts. Proprio come l’architettura sembra contenere e al tempo stesso trasformare i nostri ricordi, c’è qualcosa nell’essenziale scenario psicologico dei Peanuts che sembra cogliere quella particolare assenza di coordinate temporali in cui immaginiamo e incarniamo la nostra percezione di noi stessi.
Citando liberamente Vladimir Nabokov, in tutti noi, da qualche parte, c’è un bambino sepolto vivo. “Nella striscia bisogna mettere se stessi, tutti i propri pensieri, tutte le proprie considerazioni e tutto ciò che si sa” disse Schulz nel 1984. I Peanuts potrebbero anche essere descritti, come mi disse causticamente un giorno al telefono Art Spiegelman, come “Schulz che si scompone in tanti pezzettini formato bambino e lascia che si accapiglino per cinquant’anni”.
Invischiato nei ricordi di torti e affronti secolari, Schulz viaggiava sui solchi profondi di una strada che portava al passato, e ogni striscia sembrava schiudere di qualche millimetro i cancelli dell’ingiustizia. Rifiuti, rigetti e delusioni si riversavano nelle trame dei Peanuts come l’inchiostro dalla sua penna. I suoi ricordi erano talmente accessibili e immediati che dopo la fine di un matrimonio ventennale gli sembrò perfettamente normale andare a cercare una vecchia fidanzata, Donna Johnson Wold, meglio conosciuta come “la ragazzina dai capelli rossi”, che l’aveva respinto altrettanti anni prima ed era, a detta di tutti, felicemente sposata con un altro.
Negli ultimi anni di vita, Schulz annotò regolarmente nell’annuario scolastico (per il quale, tra l’altro, i suoi disegni erano stati bocciati) la morte di ogni singolo compagno di classe. Non c’è da stupirsi se non amava rompere la sua routine; il tavolo da disegno rappresentava il suo mondo, le sue speranze e i suoi ricordi. Dal canto mio, posso confermare che nella mia vita da fumettista ho preso decisioni altrettanto sconsiderate, e che a volte una parola crudele rivoltami da un bambino cattivo quarant’anni prima è riaffiorata mentre lavoravo, e mi è capitato di rispondere direttamente al tavolo da disegno, a voce alta. Nella nostra professione c’è decisamente qualcosa di bizzarro, e basta il fatto che io possa scrivere “la ragazzina dai capelli rossi” senza spiegare chi è a dimostrare il modo geniale in cui Schulz l’ha incanalato. Tutti quanti abbiamo una nostra ragazzina dai capelli rossi.
I fumettisti, come i padroni dei cani, tendono ad assomigliare ai loro lavori, ma Schulz in qualche modo eludeva questa regola: gli occhi vicini, delimitati da piccole parentesi, in mezzo al testone pelato di Charlie Brown non ricordano affatto quelli di Schulz, che aveva due occhi ben distanziati e un lungo naso importante, e che sfoggiò fino alla morte una discreta capigliatura. Ma questo fa parte del genio di Schulz: anche se Charlie Brown non gli somiglia fisicamente, è la sua essenza a ricordarlo. Da Yellow Kid a Barnaby, da Henry a Tintin, per arrivare fino a Charlie Brown, c’è una lunga tradizione di enormi volti bambineschi, bianchi e senza capelli, attraverso i quali il lettore può “vedere” i rispettivi mondi a fumetti. Non è un caso che meno particolare sarà il personaggio, più sarà adatto a diventare il protagonista (o la protagonista – dove sono le nostre protagoniste?) del fumetto, “l’uomo qualunque”. Culturalmente, per quanto ingiusto sia, il disco rosa del faccione da neonato di Charlie Brown è la massima espressione dell’ordinarietà e della genericità.
Questo, naturalmente, vale per il maschio bianco americano. Schulz però fece un tentativo: in risposta al fatto che alcuni lettori si sentivano “tagliati fuori” dalla striscia, nel 1968 introdusse il personaggio di Franklin, non senza il legittimo timore di sembrare condiscendente verso gli afroamericani. Ma le sue paure si dimostrarono infondate, perché a differenza dei giocatori di golf, Franklin appariva verosimile – o quantomeno non irrispettoso – nella parte del bambino gentile con cui Charlie Brown gioca sulla spiaggia (nel 1968 era ancora normalissimo che le piscine fossero riservate ai bianchi).
Anche se Schulz avrà vissuto una vita serena e isolata nel suo studio in California, possedeva una buona sensibilità sociale, e sapeva che per far “funzionare” un personaggio basta tenerci abbastanza, anche se il suo aspetto esteriore è diverso dal quello del suo creatore. Nonostante il complessivo sbilanciamento razziale nel cast dei Peanuts, questo amore per i personaggi è il vero potere segreto e misterioso della striscia di Schulz. Charlie Brown, Lucy, Linus, Snoopy, Schroeder, Franklin e tutti gli altri prendevano vita sulla pagina grazie alla capacità di Charles Schulz di farti amare e provare compassione – e, almeno nel caso di Charlie Brown, percepire i loro dolori in prima persona – per quasi tutti.
È la traslucidità, per non dire la trasparenza, del tratto di Schulz a rendere possibile questa empatia. Non è un divertissement né un virtuosismo – è qualcosa di semplice e immediato (lui lo definiva “tranquillo”). Più che guardare i disegni, è come vederci attraverso. Dalle forme abbozzate dei primi anni Cinquanta alle tavole elaborate degli anni Novanta, il semplice passaggio da una vignetta all’altra anima il ritmo essenziale dei movimenti, e la nostra comprensione inconscia dei tratti che definiscono i corpi dei personaggi e i loro spostamenti richiama, in qualche modo, una sorta di sintesi delle nostre esperienze. Nel 1981 la mano di Schulz, a causa di un quadruplo bypass, cominciò a tremare, ed è per questo che negli ultimi anni la sua estrema capacità di sintesi appare più incerta; a volte arrivava a tener fermo il polso con l’altro braccio per ridurre al minimo il tremore. Anche se questa frustrazione tecnica cambiò leggermente il “look” della striscia di Schulz (i miei insegnanti d’arte l’avrebbero definita “espressione”) non ne modificò l’essenza, né la dedizione dell’autore:
Sono ancora alla ricerca di quella meravigliosa linea all’ingiù – quando disegno Linus in piedi e appoggio la penna proprio dietro la nuca, poi la faccio scendere fino in basso e stacco il pennino, e la punta fa un piccolo svolazzo, e disegno in questo modo anche le linee del maglione, e tutto il resto… l’essenza è tutta lì – in quella sensazione di profondità e morbidezza, e il tratto della penna è il migliore possibile. L’essenza è tutta lì.
La mente di Schulz, seguita dalla sua mano, trasferì i personaggi dei Peanuts sulla carta e poi negli occhi e nelle menti di milioni di lettori. Lui sapeva che quei lettori erano certi che avrebbe “fatto il meglio che poteva”, e non li deluse mai. Del resto, nessun altro avrebbe potuto farlo al posto suo; nonostante la loro ingannevole semplicità, falsificare un disegno dei Peanuts – per non parlare di quattro vignette una dietro l’altra – è impossibile. Il linguaggio delle strisce a fumetti viene riportato alle origini, nel regno di ciò che viene letto e ricordato, e per mezzo secolo i Peanuts sono esistiti esclusivamente con il tratto e la grafia di Charles Schulz. In effetti, se c’è un primato nell’arte del fumetto che bisognerebbe riconoscere a Schulz, è quello di aver trasformato il fumetto in un linguaggio visuale più ampio dal punto di vista delle emozioni e, soprattutto, dell’empatia. Per questo motivo, tutti i fumettisti – soprattutto quelli di noi che si sono misurati con le graphic novel – devono a Schulz, be’, praticamente tutto.
Come ho detto altrove, Charles Schulz è l’unico autore che ho sempre letto. Dai primissimi tentativi di comprendere un testo su una pagina al momento in cui ho tagliato il traguardo dei cinquanta nei panni di un fumettista roseo e stempiato, l’opera di Schulz mi ha sempre offerto qualcosa di rasserenante, gentile, triste, divertente, caustico, onesto – e soprattutto di vero. E in questo momento storico del nostro Paese, in questo secolo ancora nuovo in cui stiamo ancora frugando tra le macerie del vecchio per decidere cosa tenere, non credo sia una coincidenza che Charles Schulz e Fred Rogers, uomini agli antipodi da quello che vive alla Casa Bianca, stiano vivendo una specie di seconda vita. Ho spesso associato mentalmente Rogers e Schulz per una certa visione comune della vulnerabilità maschile, per la loro generosità cristiana e, soprattutto, per la loro sincerità. Una volta Fred Rogers ha definito l’aria tra gli occhi di un bambino e la televisione come “uno spazio sacro”, e sono certo che anche Charles Schulz pensasse lo stesso della sua striscia e dei suoi lettori.

Per la mia generazione, ogni anno le nostre due festività principali venivano scandite da due speciali televisivi: uno, Un Natale da Charlie Brown, nel quale in una scena commovente Linus citava il vangelo di Luca per evocare il vero spirito della festa; l’altro, È il Grande Cocomero, Charlie Brown, compensa con una parodia di come il fanatismo religioso possa portare a una percezione distorta della vita – anche qui servendosi delle rivelazioni di Linus. Entrambi sono stati scritti da Charles M. Schulz. Cristiano devoto almeno nella prima parte della sua vita, Schulz teneva gruppi di studi biblici e lasciò la sua grande casa di Sebastopol, in California, alla Chiesa di Dio; fu un uomo dalla profonda religiosità.
Benché io sia nato ateo e non abbia mai creduto in Dio, credevo in Babbo Natale. La mia fede s’incrinò in un giorno di primavera, quando scoprii in un cassetto la lettera sigillata e affrancata che avevo detto a mia madre di spedire al Polo Nord cinque mesi prima. Messa di fronte alle prove, lei dovette ammettere la sua complicità, partecipando involontariamente al conseguente rituale della disgregazione della fiducia di un bambino nella magia, nei genitori, ecc. (rituale attraverso il quale, a quanto pare, tutte le bambine e i bambini americani devono passare).
Comunque sia, quando ho scritto quel biglietto per Charlie Brown sapevo bene che non esisteva – non ero così stupido. Ero consapevole che fosse solo un disegno fatto da un artista. Ma inviargli un biglietto di San Valentino era l’unica cosa che mi veniva in mente per alleviare la profonda, lancinante tristezza che sentivo per lui. Volevo tanto farlo felice, e far felice me stesso. In poche parole, la mia fede in Charlie Brown non ha mai vacillato. Ho sempre saputo che mi piaceva – e che forse, dico forse, anche io sarei piaciuto a lui.
© 2019 by Literary Classics of the United States, Inc. N.Y.
Per l’edizione italiana © 2021, La nave di Teseo
© 2019 Chris Ware, Drawing Empathy: A Cartoonists’-Eye View. Traduzione italiana di Chiara Baffa
*Chris Ware, Omaha, 1967, è uno dei più improntati fumettisti contemporanei. Tra i suoi fumetti ricordiamo “Jimmy Corrigan” e “Rusty Brown“, entrambi pubblicati in Italia da Coconino Press. Il testo dell’articolo è qui ripubblicato per gentile concessione di Berla & Griffini Rights Agency.
Leggi anche: “Rusty Brown”, il fumetto infinito di Chris Ware
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