
Dopo la chiusura di Mercurio Loi, Alessandro Bilotta non ha perso tempo nel rilanciarsi, proponendosi su vari fronti. In attesa della sua nuova serie per Sergio Bonelli Editore – intitolata Eternity – lo sceneggiatore romano ha pubblicato un graphic novel per Feltrinelli Comics (La funzione del mondo, con i disegni di Dario Grillotti) e sta per lanciare con il disegnatore Sergio Ponchione una serie in volumi per Panini Comics, intitolata Gli uomini della settimana (di cui è uscito a dicembre uno speciale albo numero zero).
Intanto, la sua serie spin-off su Dylan Dog, Il pianeta dei morti, ambientata in un possibile futuro distopico del personaggio, continua la propria corsa con albi in uscita a cadenza annuale, ai quali si è da poco affiancata la riproposta – in edizione cronologica e integrale, all’interno di una serie di pregiati volumi cartonati da libreria e fumetteria in grande formato – delle prime introvabili storie.
Proprio dal primo di questi volumi siamo partiti per una chiacchierata con Bilotta su Dylan Dog, Tiziano Sclavi, Il pianeta dei morti e il ruolo degli eroi a fumetti nella società contemporanea.
Nella serie regolare di Dylan Dog, Roberto Recchioni ha fatto uccidere Sclavi dal suo personaggio, rappresentando in modo molto esplicito l’umana necessità di dover “uccidere il proprio padre” come risoluzione di molti possibili complessi mentali (in questo caso forse più che altro editoriali). Tu invece in che modo hai dovuto uccidere il “tuo” Sclavi, per poter dare forma alle tue storie del Pianeta dei morti?
Io non provo complessi edipici, soprattutto rispetto al figlio di qualcun altro. Fondere il piano della realtà con quello della fantasia, il creatore con la creatura, porta a una strada metanarrativa. Questa è una direzione, quella che ho intrapreso io è opposta. Il pianeta dei morti nasce come altare al padre, o più precisamente alla sua opera.
La strada narrativa che trovo interessante da lettore è quella degli autori che sanno cogliere l’anima delle creature altrui e nel cogliere il vero spirito del personaggio ne perpetuano gli elementi di interesse e attualità.

Nell’introduzione al volume affermi che «Dylan Dog è stato il fumetto perfetto perché si prestava a una lettura di semplice evasione e allo stesso tempo a una più profonda ed esistenziale. Era quel luogo di incontro dove parlare di certi temi innominabili e dove avere il coraggio di lasciarsi andare a certe paure». Perché secondo te l’alchimia delle storie di Sclavi è andata poi perdendosi nel corso degli anni? Sono stati i cambiamenti della società a rendere il tutto definitivamente obsoleto o gli autori incapaci di sintonizzarsi del tutto sulle nuove frequenze?
Penso molto semplicemente che Dylan Dog fosse Tiziano Sclavi. Quindi un modo di lanciare uno sguardo sul mondo. Il problema non è nel cambiamento del mondo, ma nella perdita di quel tipo di sguardo nel momento in cui Dylan ha perso la propria controparte alla macchina da scrivere. Tuttavia i temi del personaggio e del suo autore sono molto chiari, eterni, e riguardano tutti. Se messi al centro del discorso non finirebbero mai di dire ciò che hanno da dire.
Non è strano considerare quasi “rivoluzionaria” l’idea di raccontare le storie di un Dylan Dog più anziano o – per quanto mi riguarda – anche di un Tex più giovane? Come hai sottolineato anche tu, sembra che il “tempo” possa essere a volte, alla lunga, il peggior nemico di un eroe a fumetti.
I personaggi di maggior successo nella cultura popolare si sono ripetuti e si ripetono uguali a loro stessi per decenni, spesso in storie con granitici elementi rituali. Mi domando se strappare via un personaggio dal proprio paradosso temporale serva a far del bene a lui o ai suoi autori.

Hai sottolineato anche come tra le caratteristiche fondamentali delle storie di Sclavi ci fossero l’assenza di punti fermi e il fatto che il personaggio sapesse porsi le giuste domande senza darsi risposte. Mi sembra che il tuo Dylan Dog sia molto “sclaviano” in questo, ma in che modo le domande sono cambiate oggi rispetto agli anni Ottanta e Novanta?
I temi di cui ti dicevo prima sono gli stessi, la nostra esistenza resterà sempre un problema che dobbiamo risolvere. L’evoluzione dell’uomo e del suo scenario possono a turno dare la precedenza a un tema rispetto a un altro, come in una ruota della fortuna.
Potrei sbagliarmi, ma penso che nei prossimi tempi sarà centrale il nostro rapporto con la solitudine e di conseguenza la nostra relazione con il mondo esterno.
Tra i tuoi nuovi progetti in uscita c’è anche Gli uomini della settimana, in cui affronti i supereroi con un taglio molto post-moderno. Che cosa hanno da dire di nuovo oggi ancora i supereroi, andando al di là dei blockbuster cinematografici? Che cosa dobbiamo aspettarci da questa serie?
In questa serie mi sentirei di dire che il fatto che i protagonisti siano supereroi è incidentale. Con Sergio Ponchione volevamo raccontare la differenza tra idee e idoli, il fatto che una messinscena e un evento reale concettualmente non sono più differenti. Poi nella storia sono entrati questi individui che hanno la capacità di far succede quello di cui parliamo e che sono abbigliati di conseguenza.
I supereroi sono e saranno sempre tutto. Hanno da dire su ogni cosa che ci riguarda, perché sono i miti e ci parlano del coraggio, dell’amore. Sono fondamentali, nonostante ciò che sembri guardandone i campioni d’incassi cinematografici.

A differenza di altri fumetti di supereroi italiani, mi è sembrato che tu abbia cercato innanzitutto di contestualizzare i tuoi personaggi all’interno del nostro panorama sociale e culturale. Voglio dire, mi pare che quasi tutti i supereroi inventati in Italia finora abbiano lo stesso problema, quello di essere in fin dei conti molto americani, solo spostati a Roma o a Milano. Qual è stato il tuo approccio alla materia?
Ho cercato di renderli umani e l’umanità che conosco è naturalmente quella della realtà in cui vivo. Sei eroi, o presunti tali, malauguratamente ridotti a cinque, si sono messi insieme per un insolito gioco del caso. Egoisti, egocentrici e presuntuosi come artisti, a guardarli non si direbbe che il loro primo interesse sia quello di salvare il mondo.
A proposito di supereroi, abbiamo visto le tavole del tuo progetto con Manuele Fior, in cui sono raffigurati Batman, Robin e il Joker, e ci è sembrato un progetto molto ambizioso, di alto profilo, più “ufficiale”. È coinvolta in qualche modo anche DC Comics?
Non posso ancora risponderti né affermativamente, né negativamente.
C’è qualche progetto particolare su cui ti piacerebbe lavorare, prima o poi?
Mi piacerebbe ricostruire Dylan Dog narrativamente, in autonomia creativa. Scriverlo per riportare in vita il personaggio delle origini e proporlo ai lettori di oggi.
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