
Trasposizione animata dei primi 7 volumi dell’omonimo manga di Q Hayashida (pubblicato in Italia da Panini Comics), Dorohedoro racconta la storia di un mondo diviso fra due realtà: quella degli stregoni, esseri con maschere demoniache in grado di lanciare magie emettendo un fumo nero dal proprio corpo, e quella degli umani. Ed è proprio in quest’ultima che incontriamo Cayman, un uomo risvegliatosi senza memoria, con la testa da caimano e la passione per i ravioli giapponesi, che assieme a Nikaido, giovane proprietaria del ristorante Hungry Bug, va alla ricerca di chi lo ha trasformato, dando la caccia a tutti gli stregoni che invadono la città di Hole per esercitarsi.
Durante la loro ricerca Cayman e Nikaido finiranno per scontrarsi con i bizzarri subordinati di En, una specie di capofamiglia mafioso del mondo degli stregoni con i capelli di Vegeta e il potere di trasformare in fungo qualsiasi cosa, e la misteriosa banda degli Occhi Crociati (se ve lo state chiedendo: sì, hanno le croci sugli occhi), scoprendo che proprio nel mondo magico pare celarsi il segreto dietro l’identità di Cayman.

Procedendo con gli episodi un costante dualismo ipnotico e travolgente ci porta a riconsiderare la realtà per come ci viene presentata: se inizialmente infatti viene naturale parteggiare per i poveri esseri umani, tutti i personaggi – apparenti buoni e presunti cattivi – sviluppano una propria identità grazie a una forte caratterizzazione fatta di abbondanza di dettagli sul loro passato, in grado di far guadagnare loro uno spazio sotto ai riflettori (e nel nostro cuore) rimescolando le carte sui concetti di bene e male.
Allo stesso tempo questa dicotomia è utilizzata dagli autori per esporre una palese critica sociale: là dove il mondo degli stregoni rappresenta la nostra società – ostentando una sregolata opulenza così sfrenata da immaginare le scope come moto in stile cyberpunk che sembrano appena uscite da Akira – la città di Hole ne è invece una perfetta immagine distopica in cui regnano povertà e abbandono, dipinta come una baraccopoli industriale tipica dell’immaginario dieselpunk giapponese in cui la pioggia stessa è nociva perché scaturita dalle nuvole nate dal fumo nero degli stregoni.

Trattandosi di un’opera gore non mancano i richiami alla cultura horror fantasy più classica come L’alba dei morti viventi (a cui è dedicato l’episodio 3), Venerdì 13 (la maschera di uno stregone è infatti ispirata a quella di Jason Voorhees) o ancora Doom, al punto che una delle ending ne sembra una mod a tema Dorohedoro.
A ciò si alternano scene di spinta demenzialità – quasi sempre attorno a Ebisu, una sfigatissima subordinata di En – e momenti più intimi, come la scoperta della vera identità di Nikaido. il tutto accompagnato dalle azzeccate musiche j-pop dei (K)NoW_NAME e da una sigla psichedelica e ipnotica perfetta per il binge-watching.

Mescolando abilmente CGI e 2D, gli autori sono riusciti a rendere al meglio lo stile graffiante e grezzo del manga di Q Hayashida, mantenendo i livelli di dettaglio in linea con l’opera originaria seppur con le dovute eccezioni, come la testa di Cayman che – ahimè – passa dall’essere stupendamente bitorzoluta a essere fatta di scaglie piatte che stonano con il mondo circostante.
Il manga dai toni grotteschi e carico di black humor è stato quindi trasposto fedelmente dallo studio MAPPA, uno dei più attivi degli ultimi anni e attualmente al lavoro su Jujutsu Kaisen e L’attacco dei giganti. Dorohedoro è un’opera di ottima fattura, in grado di portare la serie sul podio degli anime originali Netflix (finora molto scadenti) assieme a Devilman Crybaby e Beastars.
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