
Qualche tempo fa su queste pagine ci chiedevamo quale fosse il segreto del mostruoso successo di Demon Slayer. Letti e riletti tutti i volumi pubblicati in Italia eravamo arrivati alla conclusione che forse l’incapacità di godere a fondo delle avventure del giovane Tanjiro fosse dovuta alla differenza d’età tra noi che leggiamo il manga di Koyoharu Gotōge solo per scriverne e chi invece quel fumetto lo legge perché appassionato.
In altre parole, noi e il fandom di Demon Slayer parliamo due lingue diverse. Possiamo provare ad avvicinarci e a esporre le nostre ragioni, ma questo non significa che si riesca per forza di cose a capirsi a pieno. Le critiche più grosse mosse alla serie sono sempre quelle. Per i lettori più scafati si tratta di un lavoro derivativo, troppo debitore dei capisaldi dello shonen e incapace di scendere in profondità nei meccanismi del genere.
D’altro canto, i suoi appassionati se ne fregano alla grande di quello che è venuto prima e continuano a premiarlo con vendite record e una costante ascesa degli streaming dell’anime. Difficile dare loro torto, visto che nessuna delle serie segnalate come migliore alternativa a Demon Slayer era serializzata in concomitanza con il loro sviluppo come lettori. Anzi, spesso di parla di opere pubblicate 20 anni prima della nascita di questi nuovi lettori. Per le giovani generazioni seguire i nostri consigli da lettori esperti significherebbe intraprendere un costante viaggio all’indietro nel tempo, costringendoli ad adattarsi a contesti che non gli appartengono. Allora meglio lasciarsi tutto alle spalle per dedicarsi solo all’ultima novità proposta? Magari fingendo di capirla e apprezzarla?
Un approccio rigido alla questione pretenderebbe una risposta chiara, definendo una volta per tutte se è meglio muoversi dopo aver studiato tutto quello che è venuto prima o semplicemente fingere di vivere in un eterno presente privo di profondità, dove il passato non ha importanza. Una faccenda complessa, che un articolo pubblicato un paio di anni fa su Vice potrebbe aiutarci a rivedere sotto una luce meno polarizzata e, di conseguenza, più stimolante. Si tratta di un’intervista al giovane produttore Peppe Amore, classe 1996, rilasciata in concomitanza con l’uscita di Ready For War, quello che all’epoca era l’ultimo singolo del trio romano Tauro Boys. Parlando della genesi del brano il musicista non aveva dubbio circa le coordinate in cui inserirlo:
«Con questo brano ho definito concretamente il mio sound, è il brano che più mi rappresenta e che evidentemente rimanda alla vita dei teenager nati negli anni Novanta. Un mood ripreso da classici intramontabili dei primi anni 2000 come American Pie, Jackass, Project X, Scary Movie ed ovviamente sound del momento pop punk, che ha subito forti influenze da tutta la wave Disney Channel… come High School Musical.»
Si tratta di una serie di riferimenti che nessun artista oltre i 25 anni oserebbe fare. Figurarsi in un ambito dove la street cred è tutto, come quello dove milita Peppe Amore. Eppure in quella sua dichiarazione c’è tutta la potenza di chi se ne frega della corretta storiografia dei trend musicali. Di chi vuole trovarsi nella posizione di poter de-contestualizzare tutta una serie di prodotti che non ha vissuto in prima persona a proprio piacimento. Non c’è ironia o post-modernismo nel suo approccio, solo voglia di riutilizzare suoni che apprezza in maniera totalmente slegata dal contesto in cui erano nati.
Così la colonna sonora di un innocuo musical per adolescenti prodotta da una major dell’intrattenimento diventa il punto di partenza per una serie di pezzi che del mainstream tradizionale non sanno che farsene. E stiamo parlando di un musicista tutto sommato già adulto, pensate cosa possa passare per la testa di un 14/16enne o di ragazzi e ragazze ancora più giovani.
Come abbiamo già detto non ha senso pensare che un lettore inscrivibile alle ultime generazioni possa approcciarsi a Demon Slayer paragonandolo a tutto quello venuto prima. Non ne ha la minima voglia, né tanto meno il dovere. Se per lettori più scafati si tratta di un’opera a un passo dalla fan-fiction perché troppo esagerata e melodrammatica, per lui probabilmente sarà il massimo della freschezza. Pazienza se noi non la pensiamo così.
Questo però non significa assolutamente che chi ha più esperienza debba farsi piacere per forza di cose tutto quello che esce sul mercato solo perché nuovo e fresco. Anni di letture, visioni e ascolti costituiscono un bagaglio che deve essere sfruttato per analizzare in profondità ogni nuovo Demon Slayer. E per affrontarlo con ferocia, se necessario. Trovarsi nella posizione di criticare è legittimo e costituisce una situazione spesso quasi obbligatoria, in cui ci si troverà per forza di cose superata la giovinezza.
Solo perpetrando questo meccanismo si verrà a creare quella tensione indispensabile per la continua evoluzione del linguaggio. Se nel 1976 la BBC non avesse vietato la messa in onda di God Save the Queen dei Sex Pistols per eccesso di cattivo gusto, dubito che la canzone avrebbe raggiunto il secondo posto dei singoli più venduti in Inghilterra. Mentre i canali istituzionali non riuscivano a concepire quel nuovo modo di fare musica – rozzo, sgrammaticato, volgare – le testate più cool lo abbracciavano in pieno. Dimenticandosi che fino a qualche mese prima la loro opinione non differiva poi troppo da quella dei vecchi noiosi, come testimonia questo ritaglio da NME.

Se spostassimo la discussione in ambito molto più politico verrebbe da citare il musicista e scrittore Ian Svenonius, secondo cui l’arte ha bisogno di essere bloccata dal sistema per riacquistare il suo potere destabilizzante. «Ci sono sempre stati dittatori, coi loro diktat su cosa fosse o non fosse accettabile nell’arte. Era un segno di rispetto nei confronti del ruolo dell’arte e dell’artista; era l’ammissione che l’arte avesse una sua importanza, un significato e un potere, in rapporto a una consapevolezza internazionale e a dei sistemi ideologici» scriveva in Censura subito!!!.
Nel saggio in questione il discorso era molto più radicale, improntato sull’abbattimento dell’industria dell’intrattenimento come palliativo dell’arte e macchina produttrice di consenso, ma è chiaro che anche in questo caso si sta parlando della necessità di una tensione culturale tra il frastuono del nuovo e la solidità del museale. L’assoluta libertà di espressione elimina ogni forma di antagonismo e depotenzia ogni spinta eversiva abbassando l’atto creativo a “vanità da pischelli”.
«Un artista che si dichiari “anticensura”, di base, sta sventolando bandiera bianca, sta affermando che il proprio lavoro è insignificante, uno sbuffo, uno scarabocchio, una patacca, un pois.» Un discorso molto più impegnativo rispetto a serie a fumetti e canzoni trap che probabilmente andranno comunque dimenticate tra un pugno di anni, ma che sintetizza bene il nocciolo della questione: se qualcosa parla davvero a chi è venuto dopo di noi, probabilmente ci irriterà parecchio. Quando da ultratrentenni finirete per capire i meccanismi dell’ultimo social network adorato dagli adolescenti e andrete a colonizzarlo in massa, sappiate che probabilmente i precedenti inquilini se ne staranno già andando. La storia di Facebook parla chiaro.
Proprio sulle pagine di Fumettologica lo sceneggiatore Donny Cates affrontava la questione dal punto di vista di chi lavora all’interno del mondo dell’intrattenimento e deve affrontare l’ennesimo cambio di pubblico: «L’altra settimana ero a Parigi. La guida che ci accompagnava ci stava parlando della piramide di vetro davanti al Louvre, e ci ha chiesto “A quanti di voi piace?”. Io l’ho adorata, pensavo fosse stupenda. E invece ci ha detto che gran parte dei parigini la detesta. E sai cos’altro ci ha detto detestavano i parigini? La Torre Eiffel. La odiano da quando è stata costruita, pare. Ogni nascita richiede sangue e urla. Non c’è un modo semplice di creare qualcosa di nuovo. Devi solo trovare il tuo pubblico e capire quale parte di quel pubblico si allontanerà. […] Ti ricordi quando hanno annunciato Miles Morales? C’era stata una grossa controversia perché un ragazzino nero sarebbe stato il nuovo Spider-Man. Qualcuno si lamentava online di questa cosa. Non è successo neppure dieci anni fa e ora Miles Morales per un’intera generazione di bambini è Spider-Man». Anche in questo caso si parlava di riscrivere la storia, ripartendo da capo e lasciandosi alle spalle un’eredità di quaranta anni di narrazioni.

Come ci ricordava lo scrittore in principio le reazioni furono furiose, ma il tempo ha abbondantemente dato ragione a chi credeva nella necessità di uno strappo con il passato. Oggi per un’intera generazione Miles Morales è il volto dell’amichevole Spider-Man di quartiere tanto quanto, se non più di, Peter Parker. Si è trattata di una mossa ben ponderata e portata avanti in un contesto corporate, di certo frutto più di lunghe riunioni tra dirigenti che di autentico impeto punk, ma il segno è riuscito a lasciarlo lo stesso.
Naturalmente in quel caso remare contro era segno di una propensione reazionaria che andava al di là della mera conservazione di un bagaglio culturale considerato intoccabile. Si trattava di portare avanti un visione sul mondo che sarà destinata a estinguersi dal montare della storia.
E forse era proprio quello uno dei motivi per cui Miles era così cool sul poster di Spider-Man – Un nuovo universo: felpa con cappuccio, tight sotto i braghini e Air Jordan 1 ai piedi. E poco importa se il nostro eroe – esattamente come succede a un sacco di ragazzini della sua età in lista per il prossimo drop – non ha idea di come il nome ricamato sulle sue scarpe da ginnastica si riferisca a un campione realmente esistito eroe della mia generazione. Quelle scarpe stanno comunque mille volte meglio a lui che a noi.
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