Illustratore, fumettista e regista che ha prodotto contributi significativi in ogni disciplina in cui si è cimentato, dalle copertine per il New Yorker a opere fumettistiche come Fuochi, Stigmate e Ghirlanda, passando per la militanza nel gruppo Valvoline, Lorenzo Mattotti ha di recente realizzato Aladino e la lampada magica, libro illustrato pubblicato da Orecchio Acerbo, con i testi di Nadia Terranova. Quella di Aladino è una delle fiabe più note al mondo che Mattotti ha interpretato filtrando l’oriente attraverso i propri pastelli e la propria sensibilità.
L’uscita del libro è stata l’occasione per parlare con l’autore tanto delle sue opere quanto del suo lavoro, provando a colmare lo spazio misterioso che c’è tra la mano di un disegnatore e il foglio su cui la posa.

Le illustrazioni di Aladino sono piene di motivi decorativi che mi hanno ricordato le cornicette che lei faceva da bambino.
Può darsi che venga fuori da quello, ma non c’avevo pensato. Ho illustrato Aladino e la lampada magica nel 2003, per un editore tedesco. L’avevo impostato con delle trame che ricordavano i tappeti orientali, in ogni pagina c’erano queste trame grafiche. Per l’edizione italiana Fausta Orecchio mi ha proposto di toglierne alcune perché temeva fossero un po’ opprimenti, però l’idea era di richiamare i tappeti orientali, senza essere troppo descrittivi.
Non sono uno metodico che lavora sulle variazioni dei pattern, mi manca la pazienza e la precisione, è tutto molto emozionale nel mio lavoro. In quel periodo – ma ancora adesso – cercavo una maniera di disegnare alleggerendo le illustrazioni e lavorando col bianco. Dopo i vari libri per bambini che avevo fatto – Eugenio, Il sole lunatico – volevo un po’ di leggerezza.
Infatti ci sono molti giochi con lo spazio negativo. E poi questa sorta di calligrafia nella rappresentazione del fumo e dei liquidi, che è al tempo stesso una cosa molto mattottiana (usare il colore come segno) ma anche una soluzione inedita nei suoi lavori.
Il tratto delle matite colorate era dominante nei miei quaderni dell’epoca. Giocavo con i colori, con le linee, e avevo voglia di utilizzarli in qualche illustrazione. Aladino è tutto pieno di linee e sovrapposizioni che cercano la spontaneità, anche nelle immagini più canoniche. Forse avevo fatto qualcosa di simile anche in qualche copertina del New Yorker del periodo. Ricordo che all’epoca la matita mi dava claustrofobia.
Lo farebbero diversamente ora?
Ogni volta è diverso, cambio ogni anno. Ora sono tornato al piacere del disegno, della pittura, ho un sacco di quaderni dove utilizzo tecniche più spontanee e gettate. L’esperienza produttiva su La famosa invasione degli orsi in Sicilia ha cambiato molto il mio rapporto con il disegno. Per cinque anni non ho mai fatto un disegno finito, perché in una produzione animata non ne finisci mai uno, l’unico disegno finito è quello sullo schermo, per cui sono tutti disegni gettati o incompiuti, perché magari devono essere rielaborati da altri.
Negli ultimi due anni, a parte i manifesti, non ho più disegnato. E il mio rapporto col disegno è cambiato. Nei miei quaderni ho ripreso il gusto di disegnare con le matite. Sono sicuro che le cose che sto facendo adesso siano diverse da quelle di Aladino. Il lavoro è continuamente in movimento.
Ha sentito il peso iconografico di un racconto come Aladino?
Ho affrontato il progetto, non dico alla leggera, ma in maniera libera. Venivo dall’esperienza su The Raven con Lou Reed. Mi sentivo molto più libero. Aladino è proprio quel mondo esotico tra Cina e Marocco, quindi puoi giocare con quegli stili. Non ho voluto guardare vecchi autori, volevo che avesse la mia impronta, doveva essere mattottiano, ma libero nelle forme. Mi ha angosciato molto meno rispetto ad altri classici come Pinocchio e la Divina Commedia.

Cosa la preoccupava di Pinocchio?
Era uno dei miei primi lavori su un grande classico. Prima di Pinocchio avevo fatto solo Il padiglione sulle dune di Robert Louis Stevenson, e in quel caso mi ero andato a vedere tutti gli illustratori americani come N. C. Wyeth, perché volevo pescare da quell’immaginario. Per Pinocchio, figurati, c’erano libri interi che riunivano tutti i disegnatori che l’avevano illustrato. Quella sì fu un’angoscia, non riuscivo mai a trovare la giusta tonalità dei miei disegni. Ma anche la Divina Commedia non è stata semplice: si trattava di affrontare un gigante. Passai due mesi a cercare delle forme, provare a entrarci, poi trovai una fessura, ruppi il ghiaccio e mi sentii più libero.
Ricordo che nei miei primi lavori con la tradizione tendevo a strafare: per un episodio a fumetti di Casanova avevo fatto talmente tanti disegni preparatori che poi feci fatica a metterli in una pagina, le singole illustrazioni erano più belle del risultato d’insieme perché non avevo esperienza con la narrazione a fumetti. Anche per Le avventure di Huckleberry Finn, prima di disegnare le tavole, avevo realizzato tantissime illustrazioni cercando l’atmosfera western giusta.
Nel suo Huckleberry Finn c’è un’atmosfera da western circense, non alla John Wayne ma più alla Robert Altman.
È quello che piaceva a me in quel periodo. Non era il classico Tex Willer! Per fortuna non c’erano cavalli in Huckleberry Finn… C’era un progetto che avrei voluto fare per un western di scoppiati che se ne andavano in giro a piedi, senza cavalli, perché li avevano persi al gioco, e pioveva sempre. Era una cosa ispirata a I compari di Altman, con le pellicce e i cappelli enormi.
Questa difficoltà nel disegnare i cavalli tormenta molti disegnatori. Perché è così complicato?
Il cavallo ha delle forme strane. Per essere melodico ed elegante devi conoscerlo bene, perché rischi che sia duro, che non ti dia sensazione di eleganza. Ha una forma difficile: il testone grosso, il collo staccato dal corpo, le gambe scheletriche e nodose, non è come il gatto, che scivola via tutto. Il cavallo, per farlo armonioso, bisogna allenarsi tanto. Tutto si può fare. Lo fai migliaia di volte, poi lo impari.
All’università ha studiato architettura, e prima ancora ha frequentato un liceo scientifico, dove immagino non ci fossero momenti formativi che riguardassero il disegno. A 16 anni che rapporto aveva col fumetto?
Ho sempre amato i fumetti, ne leggevo più che i libri. Li amavo, assieme alla musica rock. A 9-10 anni copiavo Asterix e Obelix. Il mio sogno è sempre stato quello di disegnare e fare fumetti. Poi non ho fatto le scuole dell’arte perché nella città dove vivevo non c’erano, sarei dovuto andare a Milano, era troppo complicato. Il liceo scientifico comunque all’epoca proponeva molta storia dell’arte, ci facevano fare molti esercizi di disegno classico. E poi ho sempre disegnato in classe. Ero con Fabrizio Ostani (Jerry Kramsky) e disegnavamo tutto il tempo. I miei libri di scuola sono pieni di disegni.
Scelsi architettura perché non potevo andare all’Accademia d’arte. E volevo stare a Venezia. In quel periodo non c’erano scuole di illustrazione o fumetto. Non c’era una strada per chi voleva fare fumetti. Per fortuna ho conosciuto delle persone da cui ho imparato e capito. Poi era il 1968, il futuro era pieno di ideali e possibilità, non era oscuro, era oscuro il nostro presente, che era complicato, ma pensavamo saremmo andati verso un periodo migliore. Eravamo ingenui, anche un po’ fortunati, c’erano pochi disegnatori in Italia.
Io ho cominciato sulle fanzine alternative, volevo vivere disegnando e avrei disegnato qualsiasi cosa. Se mi avessero accettato alla Bonelli sarei stato tanto contento. Non avevo prospettive di diventare una star del fumetto, mi bastava essere bravo abbastanza da poterci vivere. Poi, un anno dopo l’altro, l’immagine del fumetto è cambiata e noi siamo stati tra quelli che hanno contribuito a questo cambiamento.
I suoi genitori cosa le dicevano?
Avevano paura, ma allo stesso tempo erano orgogliosi e curiosi del mio talento. Mi hanno lasciato provarci. Probabilmente erano anche molto angosciati. Sono stati momenti molto duri anche perché non volevo fallire ai loro occhi. Per 4-5 anni ho subito costanti rifiuti. E poi piano piano, un lavoro dopo l’altro, ho cominciato a lavorare. Mazzate sulla testa ne ho avute tante, ma per fortuna ero uno che si impuntava.

In questi mesi sono usciti tre suoi lavori passati molto diversi tra di loro, Aladino e la lampada magica, la riedizione de Il signor Spartaco e Patagonia, un taccuino con i disegni dei paesaggi dell’America del sud.
Ci sono tante tappe importanti nella mia carriera, in ognuna delle quali ho imparato qualcosa, e Patagonia è sicuramente una di queste. Durante quel viaggio con Jorge Zentner mi colpì tantissimo il problema di come disegnare questi paesaggi enormi, come dare la sensazione di altezza e profondità, dello sguardo che si muove sulle forme. Avevo questo taccuino in cui facevo degli schizzi veloci, e al ritorno li ho elaborati. Era una lavoro che non avevo mai affrontato prima, perché tutti i paesaggi che avevo fatto fino ad allora erano legati a delle storie, a dei temi, erano in rapporto a dei personaggi.
Ho preso questo quaderno di carta nepalese cercando di ricordare le linee, le profondità, il viaggio che avevano fatto i miei occhi sulle forme. Volevo mettere su carta il moto incessante delle linee che vedevo svilupparsi durante le ore di viaggio in auto. Era come assorbire un solfeggio del paesaggio. Sono disegni che giocano col concetto di spontaneità, improvvisazione e memoria. È un lavoro che mi ha aiutato moltissimo in progetti successivi, anche per La famosa invasione degli orsi in Sicilia.
Quando riguarda Il signor Spartaco, invece, cosa vede?
Ci trovo cose strane. Mi meraviglia sempre il coraggio che ho avuto nel farlo. Però era un periodo storico dove eravamo tutti molto coraggiosi, o forse incoscienti. Era tutto nuovo. Spartaco è un’opera che arriva dopo Hugo Pratt, dopo gli eroi, dopo le serie. Noi non volevamo fare le serie, volevamo fare poesie, monologhi, viaggi interiori, utilizzando stili differenti, lavorando con l’ironia e il dramma. Mi meraviglia la fantasia e la creatività di usare tutto.
A me importava essere rigoroso nelle forme, nello sviluppo della struttura. Gli episodi sono talmente concentrati che adesso potrei tirare fuori venti pagine da ogni situazione. Ma all’epoca lavoravamo sulle riviste, lo spazio era poco, ci davano sei pagine a colori e dovevano essere concentrate. Non c’era l’assetto mentale di fare un graphic novel con un’ideuzza che tiri avanti per 150 pagine perché deve diventare un libro. Avevamo il problema opposto.
I film d’animazione sono l’esatto opposto dell’improvvisazione. Come è riuscito a mantenere spontaneo il lavoro su una produzione come La famosa invasione degli orsi in Sicilia?
Realizzare un film d’animazione ti obbliga a essere metodico, un tratto caratteriale che non mi appartiene. Ogni segno che fai è un centesimo di secondo sullo schermo. Devi avere fiducia nel tempo, devi sperare che piano piano le cose prendano forma, avendo fiducia che un giorno finirà, perché ci sono dei momenti in cui pensi che non finirà mai. È un grande esercizio zen, non sai mai se avanzi o torni indietro. C’è anche della bellezza nel compiere un cammino così lungo. Ti costringe a diventare un fondista.
Mantenere la spontaneità è difficile. Nel caso de La grande invasione degli orsi in Sicilia, all’inizio della produzione ho realizzato due storyboard veloci, dove buttavo già le idee in maniera lì sì spontanea, riversando sulla carta impressioni e idee. Quello è un momento importante perché è lì che hai le idee. E poi il difficile è rimanere fedele a quelle idee, a quella spontaneità e a quell’energia. A volte la spontaneità emerge dalle soluzioni che devi trovare ai problemi che ogni giorno si pongono.
Ricordo che la sequenza con l’attacco del serpente marino mi sorprese molto per la sua immediatezza viscerale. Come fu elaborarla?
Quella sequenza è stata montata con tutta l’equipe. È una delle sequenze che abbiamo finito per ultime. Era strutturata molto bene, credo anche per la forza grafica del mare, delle onde, del serpente. Fino alla fine non sapevamo se avrebbe funzionato. L’abbiamo studiata tanto però non è che l’abbiamo potuta rifare tante volte. Tutto il film ha avuto questa attenzione ma questa in particolare, perché c’erano molti elementi di animazione 2D e 3D insieme. Il merito va alla mia equipe. È lì il momento in cui vedi che ognuno aggiunge una cosa, un’idea, risolve un problema proponendo una soluzione, se questa può essere spontanea.

È stato in grado di esercitare lo stesso tipo di controllo che ha sui suoi fumetti?
Non mi occupavo degli aspetti tecnici, ovviamente, perché non è il mio campo. Però ogni problema di scenografia, luci, effetti speciali, passava sotto i miei occhi. Vedevo ogni immagine del film almeno dieci volte, in ogni fase. Non ho voluto fare l’autore che va lì una volta alla settimana, controlla i progressi e poi firma il film. Ero lì tutti i giorni e analizzavo le scene insieme al gruppo di lavoro. Se cominci a non controllare una cosa prende una deriva e non puoi più correggerla, perché costa troppo. Volevo che fosse un film che partiva da me, ogni forma che c’è dentro ha avuto il mio beneplacito.
Le nuove tecnologie hanno cambiato il rapporto del disegnatore col foglio?
Non c’è più il foglio, tanto per cominciare. Vuoi uno sfondo? Schiacci un pulsante. Io per cambiare un colore ci dovevo pensare trenta volte. Lo vedevo anche coi ragazzi che lavoravano alle scenografie del film, puoi aggiungere un colore, puoi portare una velatura, puoi provare delle tonalità diverse, fredde, calde, armoniose o contrastanti. Puoi approfondire più possibilità di fare un’immagine in meno tempo rispetto a prima.
In una giornata puoi fare e rifare la stessa immagine dieci volte. Questo non so se sia un bene o un male. Casomai, per il fatto che devi essere velocissimo, perché ormai i tempi di consegna sono strettissimi, entri in una formula di stile per cui, trovato il metodo, ti basta mettere quelle tre tonalità di colore e hai risolto l’illustrazione. Non dico sia più facile ma sicuramente è più veloce. Non so se queste immagini siano interessanti a lungo andare. Ma forse non è il loro scopo, reggere il tempo. Credo che il conflitto tra l’idea e quello che si riesce a fare dia un’energia e una tensione strana, misteriosa, di cui l’immagine ha bisogno e a cui il lettore è attirato. Se tutto viene libero e sciolto, più che disegni, mi sembrano delle superfici, delle decorazioni che dimentico dopo averle viste.
Secondo me un’immagine ha bisogno di vari elementi per riuscire a colpire il nervo ottico, però non so dirti quali. Non so quali siano gli ingredienti di un’immagine di successo, o perché a livello comunicativo qualcosa funzioni e qualcos’altro no. Bisogna riconoscere il mistero, sapere quando c’è, e tirarlo fuori.
C’è ancora mistero in una cultura visiva che ci riempie di stimoli?
Vedo un bombardamento allucinante delle immagini, a volte di autori perfino troppo originali, che però si perdono in un mare enorme. A me capita di vedere Instagram, neanche tantissimo, perché dopo un po’ ho male agli occhi, ho una specie di rifiuto… Credo sia importante quello che uno ha dentro, la propria cultura. Più il tuo mondo interiore (fatto di poetica, esperienze di vita) è ricco, forte, aperto, più hai cose personali che puoi mettere sulla carta e che toccano gli altri.
Se ti basi solamente su quello che vedi all’esterno, avendo l’angoscia di stare sul pezzo o di essere conosciuto come gli altri, non potrai che ripetere formule che funzionano nel momento in cui le vivi. Siamo in un periodo estremamente complicato, strapieno, una sorta di inquinamento visivo. E si brucia tutto in pochi istanti. Bisogna sapersi distaccare dal tempo che va per istanti. Ci sto lottando anch’io. Forse per questo mi affascina dipingere adesso, perché è fuori dal mondo, è una forma di resistenza. Anche perché apprendo cose che non sapevo. La tecnica ti porta a tirare fuori immagini nuove. Dialoghi con la pennellata, con il caso. La priorità non deve essere quella di farle vedere, le immagini, ma di tirarle fuori da te, per scoprire cos’hai dentro. Solo così puoi avere sicurezza che è il tuo vero mondo. Se la priorità è far vedere qualcosa agli altri puoi ripetere un sacco di immagini che già esistono.
Nonostante l’offerta più ampia, si tende più facilmente a omologarsi a uno stile. È un problema di moda?
È come lavorare con gli stereotipi, anche con la narrazione in generale, dei romanzi o dei film, ci sono schemi e meccanismi talmente ricchi, approfonditi e studiati che ti imprigionano. «Per comunicare quella cosa devi fare questo, quello e quell’altro.» È difficilissimo uscire da certe leggi comunicative. Appena ne esci, perdi la possibilità di essere considerato.
Sì, certo, vivi nelle nicchie dei patiti di quel genere, perché ci sono gli amanti di ogni stranezza, e ci si ritrova in queste robe, ma per sopravvivere. Ci si attacca a uno scoglio, dicendo «ah, guarda quello è così strambo che lo amiamo solo in tre» e appena diventa famoso lo detesti perché si è venduto al mondo. Sono meccanismi terrificanti.
Lei come l’ha vissuta questa lotta nel bilanciare le esigenze di tutti, committenti, se stesso e pubblico?
Nel caso de La famosa invasione degli orsi in Sicilia è stato un lavoro di mediazione continua. Mi meraviglio di come sia potuto venir fuori quel film, perché è stato un lavoro di diplomazia atroce. Credo che arrivato a questo punto della mia carriera il mio dovere personale sia ricercare in me quello che ho voglia di tirar fuori. Giocare con le cose che so fare, certo, posso farlo, ma ci deve essere un motivo serio, un soggetto importante, una storia significativa. In questo momento devo sentirmi libero di affrontare le cose che non ho fatto fino ad adesso.

I lavori illustrativi come Aladino, le copertine o i poster sono più semplici da realizzare – perché padroneggia bene quel linguaggio – rispetto a un progetto inedito, oppure ogni lavoro è comunque una sfida?
Utilizzare strutture che conosco è chiaramente più facile. Se devo fare un fumetto tipo Il signor Spartaco uso quelle strutture, sono cose che ho già sperimentato. È più facile lavorare su illustrazioni classiche, casomai mi annoia. E la noia a volte porta anche a una mancanza di energia nell’immagine, per cui è sempre un po’ pericoloso rifare cose che si conoscono. Per trovare nuove energie devo avere una sfida che aiuti ad arricchire un’immagine.
Ci deve sempre essere un conflitto tra quello che si ha nella testa e quello che si riesce a fare. Se non c’è questa sfida diventa manierismo, formula, artigianato, che va benissimo, però a me non soddisfa. Certo, ripetere le cose che piacciono al pubblico dà anche piacere, però poi perdo entusiasmo. Devo sempre provare a fare qualcosa che in quel momento ho voglia di fare anche se non sono capace di farlo. Questo imparare infonde nuove energie, mi arricchisce e credo che arricchisca anche il pubblico… Non so, il rapporto col pubblico è sempre un po’ strano. Provo a fare le cose di cui ho più bisogno.
Di cosa ha bisogno adesso?
Cerco l’onestà con me stesso. Vedere quello che sono sulla carta, imparare, scoprire cose che prima non ero capace di tirar fuori.
Mi riesce difficile pensare a qualcosa che le manca. Non ci sono molti autori che hanno una carriera così variegata.
Sì, ma non voglio essere un esempio di come bisogna fare. Ci sono disegnatori che hanno fatto sempre la stessa cosa per tutta la carriera, a livelli altissimi, ed era la loro maniera di affrontare la realtà. Penso ad Altan, che ha influenzato generazioni intere, ed è un punto riferimento totale, che è l’opposto mio. Non ci sono regole. Ognuno di noi deve cercare il proprio metodo per andare a fondo alle cose, quello è l’importante.
Penso sempre ai due estremi nel mondo delle strisce a fumetti: Charles Schulz, che è andato avanti 50 anni con i Peanuts, e Bill Watterson, che ha concluso Calvin e Hobbes in quello che era probabilmente il suo apice creativo.
Sono due begli esempi. Schulz ha creato un’opera letteraria enorme. Watterson probabilmente ha sentito che era esaurito, che ripeteva sempre le stesse cose. A un certo punto può succedere di esaurirsi, è da rispettare completamente. Piuttosto che raggiungere il momento della noia, uno può decidere di finirla prima. Chissà cosa avrebbe fatto Jimi Hendrix a 70 anni. Magari avremmo detto «quel vecchio bacucco che non capisce più niente». Come John Mayall: ha 87 anni, ha la stessa energia di quando lo ascoltavo io e ne aveva 24, però non lo vado più ad ascoltare perché nessuno mi toglie dalla testa che non è più quel John Mayall. Si è molto crudeli con l’età che passa. Questo per dire che forse i grandi autori del passato, oggi, ci potrebbero annoiare a morte. Ora Watterson vive sull’idea di quello che avrebbe fatto dopo. Come ti dicevo, i misteri della comunicazione sono tanti, bisogna anche apprezzarli.
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